Cessazione di attività: licenziamenti collettivi leciti?


Un decreto del Governo Draghi stabilisce una nuova procedura in caso di chiusura di un sito produttivo. Pesanti sanzioni in caso di violazione.
Per licenziamento collettivo si intende quel provvedimento con cui un’azienda può attuare una riduzione del personale di fronte ad una situazione di crisi che determina un’eccedenza. La normativa specifica che regola questa scelta del datore di lavoro ha appena compiuto 30 anni: nel 1991, infatti, il legislatore italiano recepì con una legge [1] una direttiva europea in materia [2].
Tuttavia, proprio in occasione di questo trentesimo anniversario, il mosaico normativo sullo sfoltimento degli organici si arricchisce di un nuovo tassello che riguarda le ipotesi di cessazione dell’attività imprenditoriale: le imprese con almeno 250 dipendenti saranno tenute, in questi casi, a rispettare nuovi obblighi dettati da un decreto legge voluto dal Governo Draghi. Alla luce di tutto ciò, in caso di cessazione di attività, i licenziamenti collettivi sono leciti? Qual è la procedura che un imprenditore deve seguire se vuole disfarsi di una parte del personale? E quali sono le sanzioni previste se non rispetta le regole? Vediamo.
Indice
Licenziamenti collettivi: gli assunti prima del Jobs Act
C’è una data di riferimento quando si parla di regole sui licenziamenti collettivi perché fa da spartiacque tra quello che si poteva e quello che non si può più fare (o, se preferisci, tra quello che prima non si poteva fare ed ora è, invece, ammesso). Si tratta del 7 marzo 2015, ovvero del giorno in cui è entrato in vigore il Jobs Act approvato dal Governo di Matteo Renzi, che prevede, tra le altre cose, le assunzioni con le cosiddette «tutele crescenti».
Per chi è stato assunto prima di quella data, le tutele previste per i lavoratori in caso di licenziamento collettivo sono le seguenti.
Se manca la forma scritta per comunicare il licenziamento, sono previsti:
- l’obbligo di reintegra;
- l’indennità risarcitoria di almeno cinque mensilità sulla base dell’ultima retribuzione globale di fatto, dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettivo ritorno al lavoro, dedotto quanto il lavoratore abbia eventualmente percepito svolgendo nel frattempo un’altra attività;
- il pagamento di contributi previdenziali ed assistenziali.
Il dipendente ha la possibilità di rinunciare alla reintegra e di scegliere, entro 30 giorni dalla notifica della sentenza o, se precedente, dall’invito del datore a rientrare al lavoro, un’altra indennità non soggetta a contribuzione e pari a 15 mensilità, sempre sulla base dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Se manca la comunicazione preventiva con cui si fa sapere che il personale verrà ridotto, se i sindacati non sono stati consultati e se non è stato reso noto per tempo l’elenco dei lavoratori oggetto del licenziamento, sono previste:
- la risoluzione del rapporto di lavoro dalla data di licenziamento;
- l’indennità risarcitoria tra 12 e 24 mensilità sulla base dell’ultima retribuzione di fatto.
Per stabilire l’indennità, il giudice terrà conto (con motivazione) di:
- anzianità di servizio del dipendente;
- numero di occupati;
- dimensioni dell’attività economica dell’azienda;
- comportamento e condizioni delle parti;
- iniziative assunte dal lavoratore per trovare una nuova occupazione.
Se sono violati i termini di scelta dei lavoratori, sono previste:
- la reintegra nel posto di lavoro;
- l’indennità risarcitoria sulla base dell’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettivo rientro al lavoro e, comunque, non superiore a 12 mensilità (tra 12 e 24 mensilità per i dirigenti), dedotto quanto percepito nel frattempo in un’altra eventuale attività svolta e anche quanto avrebbe potuto percepire cercando con diligenza un nuovo lavoro.
Anche in questo caso, il dipendente ha la possibilità di rinunciare alla reintegra e di scegliere, entro 30 giorni dalla notifica della sentenza o, se precedente, dall’invito del datore a rientrare al lavoro, un’altra indennità non soggetta a contribuzione e pari a 15 mensilità, sempre sulla base dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Licenziamenti collettivi: gli assunti dopo il Jobs Act
Come sono cambiate le cose con l’entrata in vigore del Jobs Act, cioè per chi è stato assunto dal 7 marzo 2015?
Il provvedimento approvato dal Governo Renzi allarga ai licenziamenti collettivi la disciplina prevista per quelli individuali per motivi economici. Il ragionamento è: chi vuole disfarsi di un certo numero di dipendenti lo fa, sicuramente, perché messo in difficoltà da una crisi e, pertanto, per ragioni economiche.
Nulla cambia, ad esempio, se manca la forma scritta per la comunicazione dei licenziamenti. Anche per dopo il 7 marzo 2015 il datore è tenuto a:
- obbligo di reintegra;
- indennità risarcitoria di almeno cinque mensilità sulla base dell’ultima retribuzione globale di fatto, dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettivo ritorno al lavoro, dedotto quanto il lavoratore abbia eventualmente percepito svolgendo nel frattempo un’altra attività;
- pagamento di contributi previdenziali ed assistenziali.
Al dipendente resta sempre la possibilità di rinunciare alla reintegra e di scegliere, entro 30 giorni dalla notifica della sentenza o, se precedente, dall’invito del datore a rientrare al lavoro, un’altra indennità non soggetta a contribuzione e pari a 15 mensilità, sempre sulla base dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Diverso il caso se ci sono dei vizi procedurali o se vengono violati i criteri di scelta. In tal caso, sono previste:
- l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento;
- l’indennità risarcitoria, non assoggettata a contribuzione, pari a tre mesi di retribuzione calcolata sull’ultima utile ai fini del computo del Tfr per ogni anno di servizio, con una base di partenza fissata a sei e, comunque, con un tetto massimo fissato a 36 mensilità (quest’ultimo raggiungibile soprattutto grazie all’anzianità di servizio).
Licenziamenti collettivi e cessazione dell’attività
Secondo l’ultimo decreto legge voluto dal Governo Draghi, in caso di cessazione dell’attività, i licenziamenti collettivi non sono leciti. O meglio: non lo sono se l’azienda non ha ricevuto prima l’approvazione del piano per limitare le ricadute occupazionali che la stessa impresa deve presentare al ministero dello Sviluppo economico. Se i dipendenti vengono lasciati a casa senza la presentazione o senza l’approvazione del piano, le conseguenze previste per il datore di lavoro sono piuttosto pesanti: sarà tenuto a pagare una sorta di penale, cioè un ticket licenziamento, maggiorato di 10 volte rispetto al solito, il che significa arrivare anche a 90mila euro per ogni lavoratore cacciato via.
Non solo: l’azienda resterà esclusa da ogni contributo o bonus statale per cinque anni.
La limitazione interessa le imprese con almeno 250 dipendenti a tempo indeterminato, le ipotesi di cessazione dell’attività o di un ramo di azienda o di un sito produttivo ed il licenziamento di almeno cinque dipendenti, che conformano ufficialmente il licenziamento collettivo.
Il decreto introduce anche il cosiddetto «diritto di allerta», che consiste nell’obbligo in capo all’impresa di informare i lavoratori dell’imminente chiusura. La stessa comunicazione deve essere inviata al ministero del Lavoro, all’Anpal, alla Regione in cui si trova il sito da chiudere, alle rappresentanze sindacali aziendali e alle associazioni di categoria. La comunicazione conterrà:
- i motivi economici, tecnici, finanziari o organizzativi che portano alla chiusura;
- numero e profili professionali dei lavoratori interessati dal licenziamento;
- la data prevista per la chiusura.
Entro i successivi 90 giorni, l’azienda deve presentare al Mise il piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche che derivano dalla chiusura. Il piano verrà discusso entro 30 giorni dalla data di presentazione. Finché non verrà approvato, non sarà possibile attuare il licenziamento collettivo.
note
[1] Legge n. 223/1991 del 23.07.1991.
[2] Direttiva 75/129/CEE.