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Cosa rischia il dipendente che naviga o chatta al lavoro?

22 Ottobre 2021 | Autore:
Cosa rischia il dipendente che naviga o chatta al lavoro?

È lecito il licenziamento di chi si connette ai social o ad altri siti a fini privati dall’azienda? Che succede in caso di danno alla rete informatica interna?

Dopo qualche ora di lavoro ininterrotto, si sente la necessità di staccare la testa da ciò che si sta facendo e di fare una pausa. C’è chi va alla macchinetta del caffè per distrarsi cinque minuti e scambiare due parole con un collega, chi ha abitudini più insane ed esce in cortile a fumare una sigaretta, chi si allontana un attimo per telefonare al marito o alla moglie e sentire se va tutto a posto. E c’è chi non si alza dalla sedia, apre una nuova finestra del browser e si fa un giro sui social network o su siti di suo interesse personale, magari per acquistare qualcosa su Amazon o per il semplice gusto di dare un’occhiata su YouTube a qualche nuovo video. Il fatto è che lo sta facendo da un computer collegato alla rete aziendale e che, se non sta attento ai malintenzionati del web, può creare qualche serio guaio. A questo punto, cosa rischia il dipendente che naviga o chatta al lavoro?

Già, in generale, collegarsi a un social durante l’orario di lavoro – anche con il proprio tablet o telefonino, senza utilizzare il pc dato in dotazione dal datore – non è consentito, poiché si toglie del tempo alle proprie mansioni lavorative. Farlo da un dispositivo collegato alla rete aziendale può, però, comportare maggiori rischi per l’impresa, poiché se si entra nel sito sbagliato o si fa click dove non si deve, c’è il pericolo concreto di essere infettati da qualche virus che, poi, si propaga su tutta la rete, mettendo a rischio i dati dell’intera struttura. Ed è su questo che la Cassazione è intervenuta recentemente per ribadire che chi combina un pasticcio del genere solo perché voleva controllare il suo profilo Instagram o dare una sbirciatina ad un sito porno può essere licenziato in tronco. Vediamo cosa rischia il dipendente che naviga o chatta al lavoro.

Chattare o navigare al lavoro è vietato?

Stare delle ore al computer, senza mai staccare, non solo è insano ma in teoria sarebbe anche vietato. Secondo la legge [1], il lavoratore che svolge la propria attività davanti allo schermo di un pc ha diritto a 15 minuti di pausa ogni 2 ore continuative di lavoro, allo scopo di tutelare la sua salute psico-fisica e, in particolare, la vista e la postura. Il datore che ha qualcosa in contrario e non consente al dipendente di fermarsi con tale frequenza rischia la reclusione fino a sei mesi e una multa fino a 4.000 euro.

Detto questo, sarebbe controproducente utilizzare quei 15 minuti di pausa restando davanti al pc per navigare sul web o per chattare sui social. Eppure, c’è chi non rinuncia a questa abitudine e non soltanto nel quarto d’ora di pausa: avviata una conversazione su Facebook o su Instagram, spesso la si porta avanti per tutta la mattina o per l’intero pomeriggio.

La navigazione per fini privati è vietata sia dal computer dell’ufficio sia dal tablet o dal cellulare personale. Insomma, il problema non è il dispositivo ma il tempo che si toglie al lavoro. Il dipendente rischia dal richiamo verbale all’ammonizione scritta o, nei casi più gravi, la multa, la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione e, infine, il licenziamento. Una sanzione o l’altra verrà scelta in base al tempo trascorso dal dipendente a farsi allegramente i famosi «cavoli suoi» su Internet.

Ad essere pignoli, può essere vietato anche utilizzare con il proprio dispositivo la rete aziendale per fare i propri comodi, specialmente se si commette reato. Si pensi a chi scarica musica o filmati da un sito pirata, mettendo a rischio l’azienda. In quest’ultimo caso, è stato stabilito dalla Cassazione che il licenziamento è legittimo [2].

Ad esempio – sostiene sempre la Suprema Corte – il datore è autorizzato a far ispezionare il pc in dotazione al dipendente e ad avviare la procedura di licenziamento se scopre che il lavoratore vi ha scaricato video pornografici, anche perché l’azienda potrebbe essere costretta ad affrontare un procedimento penale nel caso in cui i filmati dovessero riguardare minorenni (ossia materiale pedopornografico). Non solo: in base a quanto disposto dal Jobs Act, è legittimo mettere sotto controllo cellulari, pc e tablet aziendali dati in comodato ai propri dipendenti senza per questo violare la privacy.

A tal proposito, si esclude ogni violazione dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, cioè quello che vieta i controlli a distanza nei confronti dei dipendenti, dato che la verifica non viene fatta sulla produttività o sull’efficienza del dipendente ma al fine di preservare l’azienda da comportamenti illeciti, estranei alla prestazione, tali da ledere il rapporto di fiducia necessario tra datore e dipendente.

Che succede in caso di danno all’azienda?

Recentemente, il tribunale di Venezia [3] ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un dipendente che, navigando sul web su siti non sicuri a fini privati durante l’orario di lavoro, ha «spalancato le porte» agli hacker per compiere un attacco informatico che ha coinvolto tutta la rete aziendale, causando un importante danno. Il datore, infatti, ha dovuto pagare un ingente riscatto per recuperare i dati rubati.

I computer erano stati controllati dopo l’avvenuto blocco del sistema causato da un ransomware, cioè quel virus che limita l’accesso ai dispositivi infettati. Da tali controlli, effettuati da un consulente informatico e da un’agenzia investigativa, è stata scoperta la condotta illecita di un capo servizio che passava delle ore, tra le altre cose, a chattare sui siti per adulti e a prenotarsi vacanze e spettacoli. Ad aggravare la posizione del lavoratore, il fatto che chiedeva e otteneva di poter fare delle ore di straordinario.

Va aggiunto che a nulla serve sostenere che il computer è accessibile da chiunque perché non protetto da password quando le policy aziendali prevedono la responsabilità di ciò che viene fatto da un dispositivo in capo alla persona a cui è stato assegnato.


note

[1] D.lgs. n. 81/2008 in attuazione della legge n. 123/2007.

[2] Cass. sent. n. 22313/2016.

[3] Trib. Venezia sent. n. 494/2021.


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