Capo ufficio troppo severo: commette un abuso?


Quando il boss esagera con i rimproveri e compie vessazioni può essere denunciato e condannato, ma solo se eccede dai suoi poteri di direzione e controllo.
Sono davvero passati i tempi dello schiavismo sui luoghi di lavoro? A leggere la cronaca quotidiana sembra di no: troppi i fenomeni di sfruttamento dei dipendenti, costretti a turni massacranti e a compiti troppo gravosi. Per chi lavora negli uffici, e dunque ha mansioni impiegatizie, il fenomeno è più soft ma non per questo meno grave e preoccupante: ci sono manager stressanti e ossessivi nella continua ricerca del massimo rendimento dei loro sottoposti, che così vengono spremuti al limite delle loro forze e anche oltre. Ogni loro minima mancanza viene ripresa aspramente dal superiore, con pesanti rimproveri, urla, insulti e minacce. Ma in base alla legge il capo ufficio troppo severo commette un abuso? E se sì quando? Qual è il limite che non può oltrepassare?
In questo articolo non ti esporremo i vari sistemi psicologici che esistono per sopportare, neutralizzare, compensare e superare queste situazioni (e che possono essere un valido aiuto per i lavoratori colpiti dalle continue angherie e vessazioni da parte del loro superiore); ti spiegheremo, invece, i metodi giuridici offerti dalla legge per impedire questi comportamenti e per punire chi li compie quando diventano illeciti. Ovviamente, parliamo dei fenomeni patologici, quelli che la legge considera reato, e che vanno ben al di là del capo che è semplicemente difficile o scomodo perché è duro, scontroso, troppo esigente, iperattivo, controllore continuo, maniaco della puntualità e delle forme, malfidato, ansiogeno e, perciò, si rende insopportabile.
Per capire se e quando il capo ufficio troppo severo commette un abuso bisogna premettere che la giusta severità rientra nei poteri tipici di direzione e controllo attribuiti al datore di lavoro, che ha il diritto di pretendere che la prestazione lavorativa venga eseguita correttamente e secondo le modalità stabilite. Perciò, anche il rimprovero è ammesso, quando riguarda un determinato comportamento e non travalica in un’aggressione verbale (o, peggio ancora, fisica). Le espressioni pronunciate in occasione dei richiami non devono, però, mai diventare un’offesa alla persona del lavoratore, che è particolarmente tutelato dalla legge perché si trova in una posizione di soggezione.
Il Codice penale prevede una particolare figura di reato che si attaglia a questi casi di cui ora ci occuperemo: l’abuso dei mezzi di correzione e di disciplina che, come vedrai, non riguarda solo il classico caso del genitore che schiaffeggia i figli piccoli.
Indice
Il reato di abuso di mezzi di correzione e disciplina
Questo reato punisce con la pena della reclusione fino a 6 mesi «chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte» [1]. È evidente il riferimento ai datori di lavoro e a tutte le posizioni organizzative sovraordinate a quelle dei dipendenti (dirigenti, responsabili di unità organizzative, capi reparto, direttori di stabilimento, di fabbrica o di punto vendita, ecc.), in quanto, come abbiamo detto, essi hanno un potere correttivo nei confronti dei loro subordinati.
L’uso dei mezzi di correzione e disciplina è consentito; l’abuso, invece, è vietato. Ma in cosa consiste l’abuso? La formula normativa non lo dice lasciando, quindi, aperte numerose possibilità. Per la giurisprudenza il termine «correzione» va inteso come sinonimo di «educazione» e così vengono puniti penalmente solo quei comportamenti che trasmodano da un normale uso ed esercizio: un padre che dà un ceffone al figlio non commetterà reato se la sua condotta è isolata o sporadica, ma se eccede nella frequenza o nell’intensità andrà oltre lo scopo educativo e la sua violenza non sarà più giustificata.
La punibilità del reato di abuso di mezzi di correzione e disciplina è condizionata al pericolo di insorgenza di «una malattia nel corpo o nella mente»: non è necessario, pertanto, che la patologia si verifichi veramente, ma se ciò accade, e dal fatto derivano lesioni personali o la morte del soggetto passivo, la pena è aumentata e può arrivare fino a 8 anni di reclusione.
Capo ufficio troppo severo: quando è reato?
Abbiamo visto che ai fini della sussistenza del reato di abuso dei mezzi di correzione e disciplina rileva anche la sproporzione dei mezzi utilizzati, oltre alla loro arbitrarietà. Ecco perché anche un capo ufficio può rispondere di questo reato, quando assume un comportamento che esula dalle finalità di direzione del lavoro e dai poteri disciplinari. Se egli esercita il suo ruolo in modo da vessare la persona dei dipendenti, anziché limitarsi a riprendere le loro mancanze, commette un abuso dei mezzi di correzione e disciplina. Lo ha affermato anche la Corte di Cassazione [2], sottolineando che la dignità umana deve essere sempre rispettata e, perciò, sono illecite le condotte vessatorie che ledono la personalità del lavoratore, travalicando le esigenze produttive o organizzative (in quel caso, un lavoratore era stato bersagliato dal lancio di oggetti e costretto a rimanere seduto immobile a contemplare il suo capo ufficio).
Se poi questa condotta di abuso dei mezzi di correzione e disciplina diventa abituale, con vessazioni frequenti o continue e insulti ripetuti, è ravvisabile il più grave reato di maltrattamenti [3], che comporta una pena detentiva da 3 a 7 anni, aumentata fino a 9 anni in caso di lesioni gravi (15 anni se gravissime) e fino a 24 anni se consegue la morte (leggi: “Maltrattamenti sul luogo di lavoro: ultime sentenze“).
Capo ufficio esigente nelle performance: c’è abuso?
Una recentissima sentenza della Cassazione [4] ha escluso il reato di abuso dei mezzi di correzione attribuito a un dirigente troppo esigente, che rimproverava aspramente i suoi collaboratori perché non raggiungevano le performances stabilite. Secondo la Suprema Corte, quel manager voleva soltanto ottenere una «prestazione lavorativa perfetta, secondo i canoni imposti». Inoltre, le critiche erano state percepite come vessatorie non da tutti i sottoposti coinvolti, ma solo dai soggetti «più fragili», anche se i suoi atteggiamenti avevano minato la serenità dell’intero ambiente lavorativo.
Un dipendente in particolare era stato bersagliato per i suoi banali errori e ciò gli aveva ingenerato uno stato di ansia; ma, a giudizio del Collegio, quel comportamento del capo ufficio «non aveva mai travalicato i limiti delle prerogative connesse alle funzioni direttive».
Capo ufficio che offende o maltratta: cosa fare?
Tieni presente che un comportamento offensivo del datore di lavoro può integrare altri reati oltre a quelli che abbiamo sin qui esaminato (a parte l’ingiuria, che è stata depenalizzata): le offese, umiliazioni e vessazioni di ogni genere sono illecite in quanto esorbitano dalla legittima censura di un determinato comportamento del dipendente, e ledono la sfera morale della sua persona nei vari aspetti della dignità, dell’onore e della reputazione; talvolta, con conseguenze che si ripercuotono anche sul fisico e provocano un danno alla salute.
In tali casi, si può configurare anche il mobbing, che però non sempre è reato (richiede comportamenti di ostilità, reiterati e prolungati, e con intento persecutorio), e quando lo diventa rientra generalmente nell’ipotesi di maltrattamenti che abbiamo esaminato. Il lavoratore che subisce questi fenomeni può querelare il responsabile chiedendo la sua punizione per il reato commesso o, in alternativa, può proporre un’azione civile per ottenere dal datore di lavoro, sia pubblico sia privato, il risarcimento dei danni fisici e morali riportati in conseguenza del comportamento illecito del suo capo. È anche possibile per il lavoratore esasperato dare le dimissioni per giusta causa (che, a differenza di quelle ingiustificate, danno diritto a percepire dall’Inps l’indennità di disoccupazione). Leggi anche l’articolo “Datore di lavoro autoritario: come difendersi“.
note
[1] Art. 571 Cod. pen.
[2] Cass. sent. n. 51591 del 02.12.2016.
[3] Art. 572 Cod. pen.
[4] Cass. sent. n. 35939 del 01.10.2021.