Che succede se si vince un ricorso tributario


L’annullamento dell’accertamento fiscale richiede la rideterminazione delle imposte da parte del giudice che non può rinviare la questione all’Agenzia delle Entrate. 90 giorni invece per i rimborsi.
Che succede se si vince un ricorso tributario? Con il termine «ricorso tributario» si intende un giudizio intentato contro l’amministrazione finanziaria (Agenzia delle Entrate, Agenzia Entrate Riscossione, Agenzia del demanio, Agenzia delle Dogane e dei monopoli).
Le cause contro il Fisco si propongono presso la Commissione Tributaria Provinciale in primo grado (CTP) e presso la Commissione Tributaria Regionale in secondo (CTR).
Il più delle volte, il ricorso tributario è rivolto a ottenere l’annullamento di un ordine di pagamento illegittimo (ad esempio, un avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate) o il rimborso di un’imposta versata ma non dovuta.
La Cassazione ha più volte spiegato cosa succede se si vince un ricorso tributario nel caso in cui questo sia rivolto a ottenere l’annullamento di un accertamento. Ecco alcuni importanti chiarimenti che serviranno a comprendere cosa fare una volta che è stata emessa la sentenza.
Indice
Avvio del ricorso tributario
Se il contribuente ritiene illegittimo o infondato un atto emesso nei propri confronti (per esempio un avviso di accertamento o una cartella di pagamento) può rivolgersi alla Commissione tributaria provinciale per chiederne l’annullamento totale o parziale.
L’atto di ricorso deve essere innanzitutto notificato alla controparte, ossia all’ufficio che ha emesso l’atto illegittimo (il più delle volte, si tratta dell’Agenzia delle Entrate o dell’Agenzia delle Entrate Riscossione).
Tale notifica può essere effettuata tramite consegna diretta dell’atto, raccomandata a.r. o pec. Essa deve avvenire entro 60 giorni dal ricevimento dell’atto che si ritiene illegittimo. I termini per la proposizione del ricorso sono sospesi nel periodo feriale dal 1º agosto al 31 agosto.
Entro 30 giorni dalla notifica del ricorso, il contribuente deve depositare o trasmettere alla Commissione tributaria copia del ricorso, con fotocopia della ricevuta della raccomandata a.r. (a mezzo del servizio postale) che attesta il ricevimento della notifica stessa. Tale attività è detta «costituzione in giudizio».
La mediazione tributaria
Le regole sono diverse se il valore della causa non è superiore a 50mila euro. In tal caso, in sostituzione della notifica del ricorso alla controparte, si procede con il cosiddetto «reclamo/mediazione»: il contribuente deve cioè inviare un’istanza all’ufficio che ha emesso l’accertamento con cui propone in via bonaria l’annullamento dell’atto illegittimo o la rideterminazione delle somme dovute.
In definitiva, l’istanza riproduce fedelmente il contenuto del ricorso che si intende presentare al giudice (per cui, nella sostanza, nulla cambia rispetto alla regola generale della notifica del ricorso all’avversario).
Se, entro i successivi 90 giorni, l’ufficio non risponde o non accoglie l’invito del contribuente, si può procedere con il deposito del ricorso giudiziale presso la Commissione Tributaria.
Dunque, l’unica sostanziale differenza tra le liti entro 50mila euro e quelle superiori sta nel fatto che, nelle prime, la costituzione in giudizio non può mai avvenire prima di 90 giorni dall’invio del reclamo/mediazione, nelle seconde invece non può avvenire più tardi di 60 giorni.
Decisione del ricorso tributario
Il processo tributario è caratterizzato dal divieto di prove orali come le testimonianze e i giuramenti. Si tratta di un processo essenzialmente documentale, basato cioè su atti scritti.
Se, all’esito del giudizio, la Commissione accoglie le richieste del contribuente e, dunque, la sentenza è a lui favorevole si prospettano una serie di ipotesi:
- annullamento totale o parziale dell’atto;
- accoglimento della richiesta di rimborso.
A seconda del tipo di decisione sono previsti diversi effetti. Li vedremo qui di seguito.
Annullamento avviso di accertamento: che succede con la sentenza?
In caso di annullamento totale dell’atto, il contribuente non è più tenuto a pagare nulla. La Commissione Tributaria potrà accollare le spese di giudizio sulla parte soccombente, salvo ricorrano giustificati motivi che ne giustifichino la compensazione (novità delle questioni trattate, contrasto giurisprudenziale, mutamento della giurisprudenza della Cassazione in corso di giudizio, altre gravi ragioni).
Potrebbe però succedere che la Commissione, pur ritenendo illegittimo l’atto tributario impugnato, stabilisca che l’imposta sia comunque dovuta seppur in misura ridotta. In tal caso, il ricalcolo degli importi non può essere lasciato all’Agenzia delle Entrate ma deve essere eseguito dal giudice stesso. Quindi, non c’è un rinvio dell’atto all’ufficio tributario ma tutto avviene con la sentenza che decide il ricorso. Tale principio è stato più volte affermato dalla Cassazione [1].
Facciamo un esempio. Immaginiamo un contribuente che si veda recapitare un avviso di accertamento per maggior reddito imponibile ai fini Irpef. In realtà, l’atto è illegittimo perché gli attribuisce erroneamente il 100% dei beni che, però, egli ha in regime di comunione legale con la moglie. La Ctr annulla integralmente l’accesso di accertamento ma non può demandare alla stessa Agenzia delle Entrate il compito di provvedere al ricalcolo del reddito: sono i giudici a dover rideterminare il valore e non l’Amministrazione, che è parte nel procedimento.
La Cassazione ricorda che esiste un «consolidato orientamento», in quanto «il processo tributario non ha natura esclusivamente impugnatoria e di legalità formale», ma di «impugnazione-merito», perché «diretto a una decisione sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente sia dell’accertamento dell’Ufficio» [2].
Di conseguenza, spetta al giudice del merito «il potere (dovere) di stabilire i limiti quantitativi di fondatezza della pretesa impositiva in modo da adottare una pronuncia sostitutiva sulla sussistenza ed entità dei presupposti della pretesa fiscale».
Il giudice, «qualora ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi al suo annullamento, ma deve esaminare nel merito la pretesa e ricondurla alla corretta misura, entro i limiti poste dalle domande di parte, restando peraltro, esclusa la pronuncia di una sentenza parziale solo sull’annullamento o di una condanna generica».
In conclusione, «quando il giudice ravvisa l’infondatezza parziale della pretesa dell’Amministrazione non deve, né può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve quantificare la pretesa tributaria entro i limiti posti dal petitum delle parti».
L’omessa determinazione delle imposte e delle sanzioni violerebbe l’articolo 35 comma 3 del Dlgs 546 1992, secondo cui «(…) Non sono ammesse sentenze non definitive (…)». Un vizio che non porta solo alla Cassazione della decisione con rinvio, ma che presenta anche aspetti disciplinari, in quanto si tratta di una violazione del dovere istituzionale del giudice [3].
Accoglimento richiesta rimborso: cosa succede?
Diverso è il discorso se la sentenza accoglie la richiesta di un rimborso presentata dal contribuente. In tale ipotesi, già dal primo grado, il contribuente ha diritto a ottenere la restituzione dei soldi che gli è stata riconosciuta. La legge [4] stabilisce che «il tributo corrisposto in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla sentenza della commissione tributaria provinciale, con i relativi interessi previsti dalle leggi fiscali, deve essere rimborsato d’ufficio entro 90 giorni dalla notificazione della sentenza». L’esecuzione della sentenza va effettuata nel suo complesso, cioè anche in ordine all’eventuale condanna dell’Ufficio alle spese di giudizio.
Il pagamento di somme di importo superiore a 10mila euro, diverse dalle spese di lite, può essere subordinato dal giudice, anche tenuto conto delle condizioni di solvibilità dell’istante, alla prestazione di idonea garanzia. In tal caso, il termine di 90 giorni decorre dalla presentazione della suddetta garanzia. L’Ufficio potrà comunque procedere all’erogazione tempestiva del rimborso, anche prima della prestazione della garanzia, ove abbia già deciso di prestare acquiescenza alla sentenza, al fine di evitare di sostenere i costi.
Il contribuente resta libero di non chiedere l’immediata esecuzione della sentenza (qualora non intenda anticipare gli oneri della garanzia o anche solo per non dover rischiare di restituire le somme ottenute con gli interessi) e di preferire l’attesa di un giudicato che gli consentirà di ottenere quanto gli spetta, con gli interessi di legge medio tempore maturati, senza fornire alcuna garanzia.
note
[1] Cass. sent. n. 3080 del 2021
[2] Cass. sent. n. 19750/14; n. 13294/16; n. 25629/18; n. 27560/18; n. 18777/20; n. 7695/20; n. 1728/18.
[3] Cass. sent. n. 13297/2016.
[4] Art. 68 dlgs n. 546/1992.
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