Diritto di abitazione del coniuge superstite e azione di riduzione


Erede legittimario vince azione di riduzione per lesione della quota legittima, ma su uno dei beni ereditari vi è il diritto di abitazione del coniuge superstite. Dato che la trascrizione del diritto di abitazione è avvenuta prima dell’esperimento dell’azione di riduzione, il giudice potrà disporre la vendita dell’immobile con la conseguente perdita sia del diritto di abitazione sia della quota di proprietà del coniuge superstite?
Secondo dottrina e giurisprudenza, il diritto di abitazione e uso della casa familiare, previsto ex lege a favore del coniuge superstite, incide inevitabilmente sul patrimonio ereditario, sul calcolo della quota disponibile e di quella riservata ai legittimari. Ciò è determinante, dunque, ai fini dell’azione di riduzione, laddove è essenziale la riunione fittizia di tutti i beni facenti parte dell’asse ereditario e la quantificazione del relativo valore al momento dell’apertura della successione.
Ai sensi dell’art. 540 c.c., i diritti di abitazione e di uso in favore del coniuge si conservano nella loro consistenza economica anche quando la casa coniugale e gli arredi vengano attribuiti per testamento al coniuge. Per effetto della norma, si determina un incremento quantitativo della quota in favore del coniuge perché i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che la corredano (quindi, il loro valore capitale) si sommano alla quota assegnata al coniuge in proprietà.
Più precisamente, l’art. 540 stabilisce che i diritti di abitazione e di uso gravano, in primo luogo, sulla quota disponibile: ciò significa che, come prima operazione, si deve calcolare la disponibile sul patrimonio relitto, ai sensi dell’art. 556 c.c., e, per conseguenza, determinare la quota di riserva.
Alla quota di riserva del coniuge si devono aggiungere i diritti di abitazione e di uso in concreto, il cui valore viene a gravare sulla disponibile (se questa è capiente). Se la disponibile non è sufficiente, i diritti di abitazione e di uso gravano, anzitutto, sulla quota di riserva del coniuge, che viene ad essere diminuita della misura proporzionale a colmare l’incapienza della disponibile. Se neppure la quota di riserva del coniuge risulta sufficiente, i diritti di abitazione e di uso gravano sulla riserva dei figli o degli altri legittimari (Cass. 2000/4329; Cass. 2013/9651).
Nel caso di specie, il giudice investito dell’azione di riduzione, dovrà innanzitutto verificare il valore della quota disponibile. Se questa non è sufficiente a coprire il valore del diritto di abitazione, la differenza residua deve gravare sulla quota riservata al coniuge superstite. Se anche questa è incapiente, è inevitabilmente intaccata la quota degli altri legittimari.
Premesso ciò, una volta determinata la quota spettante a ciascun erede, tenuto conto anche del valore del diritto di abitazione, possiamo esaminare le conseguenze dell’azione di riduzione.
La sentenza di riduzione non determina automaticamente il trasferimento dei beni: in sostanza, i beni legati o donati si considerano, nei riguardi del legittimario, come mai usciti dal patrimonio del defunto. Si viene, dunque, a ripristinare la comunione ereditaria su tali beni, nel rispetto delle quote legittime.
Può accadere, però, nel caso di beni immobili comodamente divisibili, che alla riduzione consegua la condanna, a favore del legittimario, di restituzione del bene.
Ai sensi dell’art. 563 cod.civ., quando oggetto del legato o della donazione da ridurre è un immobile, la riduzione si fa separando dall’immobile medesimo la parte occorrente per integrare la quota riservata, se ciò può avvenire comodamente.
Se la separazione non può farsi comodamente e il legatario o il donatario ha nell’immobile un’eccedenza maggiore del quarto della porzione disponibile (556 c.c.), l’immobile si deve lasciare per intero nell’eredità, salvo il diritto di conseguire il valore della porzione disponibile. Se l’eccedenza non supera il quarto, il legatario o il donatario può ritenere tutto l’immobile compensando in danaro i legittimari.
Dunque, il coniuge superstite, in qualità di donatario, deve restituire l’immobile alla massa ereditaria solo qualora esso non sia comodamente divisibile ed egli abbia nell’immobile un’eccedenza superiore ad 1/4 del valore della disponibile. In tal caso il donatario ha diritto di ottenere una somma che rappresenti il valore della porzione disponibile.
Negli altri casi, cioè qualora il bene sia divisibile tra gli eredi legittimari e quando il coniuge superstite abbia nell’immobile un’eccedenza inferiore ad ¼ della quota disponibile, le conseguenze prospettabili sono le seguenti: o l’immobile viene diviso tra i legittimari, oppure questi ultimi sono compensati con il valore della loro quota sul bene. In ogni caso, se il coniuge superstite mantiene la proprietà esclusiva o condivisa dell’immobile, mantiene anche il proprio diritto di abitazione. Diversamente, se è costretto a restituire il bene all’eredità, avrà comunque diritto ad una compensazione pecuniaria, anche qualora l’immobile venga venduto.
Sul punto la Cassazione ha precisato che «il principio della conversione del diritto di abitazione spettante al coniuge superstite nel suo equivalente monetario nell’ipotesi in cui la residenza familiare del “de cuius” sia ubicata in un immobile in comproprietà, – e, per la l’indivisibilità dell’immobile, non possa attuarsi il materiale distacco della porzione spettante al coniuge qualora l’immobile stesso venga assegnato per intero ad altro condividente – è applicabile anche all’ipotesi in cui, a seguito della vendita all’incanto dell’immobile ritenuto indivisibile, si verrebbe inevitabilmente a creare la convergenza sullo stesso bene del diritto di proprietà acquisito dal terzo aggiudicatario e del diritto di abitazione spettante al coniuge superstite (risultando concretamente impossibile la separazione della porzione dell’immobile spettante a quest’ultimo)» (Cass. 28 maggio 2021, n. 15000).
Si precisa, in ogni caso che il legittimario ha diritto alla restituzione del bene, a condizione che dalla trascrizione della donazione non siano trascorsi più di 20 anni.
Articolo tratto da una consulenza dell’avv. Maria Monteleone