Consulenze gratis, promozioni e sconti pubblicizzati sul sito: si rischiano sanzioni disciplinari.
Nonostante il decreto Bersani abbia liberalizzato le parcelle degli avvocati, eliminando i minimi tariffari, il mercato non è ancora libero. Il professionista che pratica prezzi irrisori o pubblicizza prestazioni gratuite rischia le sanzioni disciplinari che spaziano dall’avvertimento alla sospensione. Si tratta – a dire dell’attuale giurisprudenza – di condotte contrarie al decoro della professione (formula che spesso cela l’intento di sottrarre il mercato dei servizi professionali alle regole del mercato e della concorrenza).
Sono ancora numerose le comunicazioni vietate per l’avvocato: anche laddove non si tratti di pubblicità (per la quale resta comunque un generale e assoluto divieto), ma di semplici «comunicazioni al pubblico», la normativa vieta l’accaparramento di clientela con mezzi suggestivi, con offerte di servizi senza compenso o a prezzi stracciati. E anche se gli strumenti per veicolare tali messaggi sono ormai stati quasi tutti liberalizzati (è lecito quindi il banner su Internet così come il cartellone su un autobus), ciò che va tenuto sotto controllo è il contenuto del messaggio, la forma con cui questo viene veicolato e, soprattutto, le offerte volte ad “allettare” la clientela.
Le segnalazioni agli ordini restano ancora poche, forse perché ciascun professionista si sente in qualche modo chiamato in causa quando si tratta di usare Internet per attirare la clientela. Ed è proprio il web il primo incriminato: sui social, sui siti e sulle piattaforme navigano le più eterogenee forme di pubblicità.
Con la sentenza n. 75/21, il Consiglio nazionale forense ha condannato un avvocato colpevole di aver reclamizzato, sul proprio sito, «prezzi bassi», appuntamenti gratuiti, ma anche «riscossione onorari a definizione pratiche» – ha rimarcato come l’informazione debba essere «semplicemente conoscitiva. È stata peraltro più volte ritenuta illecita la formula: prima consulenza gratuita (anche se poi di fatto è sempre così in quasi tutti gli studi legali). Secondo il Cnf l’informazione non può pubblicizzare «prestazioni professionali a compensi infimi o a forfait», attraendo clientela «con mezzi suggestivi» come l’uso del termine «gratuito».
La Cassazione ha convalidato la sanzione disciplinare irrogata agli avvocati che hanno riportato sul sito Internet del proprio studio l’elenco di principali clienti, pur avendo ottenuto il consenso di questi ultimi.
Ormai famosa è la vicenda relativa all’utilizzo della piattaforma Amica Card, con cui i legali possono pubblicizzare e vendere i propri servizi: secondo il Tar Roma altro non è che uno strumento del tutto lecito con il quale gli avvocati possono farsi pubblicità cercando di creare un primo contatto con il potenziale cliente, fermo restando che, per l’eventuale conferimento del mandato (non essendo il primo approccio per nulla vincolante) si seguiranno le vie ordinarie; non si stipulerà quindi un contratto a distanza ma ci si procurerà un incontro con il professionista per verificare se sussistono le condizioni per conferirgli il mandato.
Le decisioni a livello territoriale in tema di pubblicità – spiega, sulle pagine del Sole24Ore, Patrizia Corona, consigliera Cnf e coordinatrice rapporti con i Consigli distrettuali di disciplina (Cdd) – «non sono molte: le proteste in rete sono numerose, il problema diffuso, ma le segnalazioni scarseggiano. Basti pensare che il Consiglio distrettuale di Roma, che ha competenza su circa 25mila avvocati, nell’ultimo quadriennio ha esaminato solo cinque casi in materia». Ma cosa rischia chi commette illecito disciplinare sulla pubblicità? «Si parte dalla censura, che può essere derubricata, in caso di attenuanti, ad avvertimento, ma si può arrivare alla sospensione di un anno».
La Cassazione ha chiarito che, in tema di responsabilità disciplinare degli avvocati, la cosiddetta pubblicità informativa che lede il decoro e la dignità professionale costituisce illecito, ai sensi dell’art. 38 del r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578, poiché l’abrogazione del divieto di svolgere pubblicità informativa per le attività libero-professionali, stabilita dall’art. 2 d.l. 4 luglio 2006 n. 223, conv. nella l. 4 agosto 2006 n. 248, non preclude all’organo professionale di sanzionare le modalità ed il contenuto del messaggio pubblicitario, quando non conforme a correttezza, in linea con quanto stabilito dagli art. 17, 17 bis e 19 del codice deontologico forense. Tanto più che l’art. 4 comma 2 D.P.R. 7 agosto 2012 n. 137 statuisce che la pubblicità informativa deve essere «funzionale all’oggetto, veritiera e corretta, non deve violare l’obbligo di segreto professionale e non deve essere equivoca, ingannevole o denigratoria». Nel caso deciso dalla sentenza n. 10304/2013, si è ritenuto che integrasse «pubblicità occulta» della propria attività professionale, come tale non consentita, l’intervista ad un legale, pubblicata sul supplemento mensile di un quotidiano che per caratteristiche intrinseche quali il tipo di pubblicazione, il titolo dell’articolo, la forma, e il contenuto dell’intervista, non consentiva al lettore di percepire con immediatezza di trovarsi al cospetto di un’informazione pubblicitaria.