Sperequazione tra i redditi dei coniugi: spetta il mantenimento?


Non conta il reddito dell’ex marito per quantificare gli alimenti ma la capacità attuale o potenziale dell’ex moglie di procurarsi da sola l’indipendenza economica.
Spesso, viene chiesto se, in caso di sperequazione tra i redditi dei coniugi, spetta il mantenimento? Questa domanda è frutto di un luogo comune: quello di ritenere che, in caso di separazione o divorzio, alla donna spetti il mantenimento solo in ragione del reddito elevato del marito. Sicché tanto più questi è ricco, tanto maggiore sarà l’assegno. Così però non è. Anche dinanzi a un milionario, gli alimenti per l’ex moglie sono quantificati in base a quanto necessario per quest’ultima per condurre una vita dignitosa in relazione all’ambiente sociale. Quindi, non lo stretto necessario a comprare pane e acqua ma neanche un tenore di vita da nababbi. Ciò potrebbe implicare anche delle profonde sperequazioni tra i tenori di vita dei due ex coniugi.
Si potrebbe allora dire che così non è mai stato e la storia è piena di ex mogli di imprenditori e faccendieri che si sono assicurate il resto della vita grazie al mantenimento versato loro dall’ex marito. Tanto da far credere, ai malpensanti, che spesso le nozze vengono contaminate dall’interesse.
Chi ha memoria lunga e ricorda queste situazioni deve però sapere che le cose, nel frattempo, sono cambiate. La possibilità infatti di avere un marito che conduce una vita da benestante e una moglie che invece arriva appena a fine mese è la conseguenza del nuovo orientamento sposato dalla Cassazione nel 2017 e poi confermato l’anno successivo dalla stessa Cassazione a Sezioni Unite [1].
In buona sostanza, secondo la Corte, l’assegno di mantenimento non deve più mirare a riequilibrare le condizioni economiche dei coniugi – ossia a preservare lo stesso tenore di vita che la coppia aveva durante la convivenza – ma solo a garantire, a quello più indigente, l’autosufficienza. Sicché peraltro, laddove tale autosufficienza già sussista, non si avrà alcun diritto agli alimenti.
Tanto per fare un esempio una donna che, prima della separazione o anche dopo, si veda assegnare una cattedra come insegnante nella scuola pubblica e che perciò riesca a guadagnare 1.500 euro netti al mese non ha diritto al mantenimento neanche se il marito è un ricco imprenditore. Allo stesso modo, non ne avrà diritto colei che ha un posto come segretaria e magari, pur avendo un part-time, potrebbe chiedere un aumento delle ore e migliorare la propria condizione reddituale.
Il principio sposato dalla giurisprudenza è il seguente: la funzione dell’assegno è puramente assistenziale. Esso quindi spetta solo in quelle condizioni di difficoltà economiche non dipendenti da colpa del richiedente. È quindi la moglie che deve dimostrare di non potersi reggere sulle proprie gambe e di non avere le capacità per rendersi autosufficiente: magari perché anziana, malata o perché disoccupata e priva di una formazione lavorativa.
Ne abbiamo già parlato nell’articolo Mantenimento moglie: quando spetta.
Dopo che la Cassazione ha cancellato definitivamente il criterio di liquidazione dell’assegno di mantenimento basato sul tenore di vita, per quantificare ora tale importo non si deve più avere riguardo al reddito del marito ma alle capacità della moglie. Se pertanto quest’ultima è già autosufficiente o ha le concrete potenzialità per esserlo ecco che l’assegno di mantenimento salta o comunque si riduce notevolmente.
Tant’è che, di recente, la giurisprudenza [2] ha cancellato l’assegno divorzile a una donna che, dopo la separazione, aveva deciso di lavorare full time. Mettendo a confronto le condizioni economiche dei due coniugi, emergeva che lui, avvocato libero professionista, percepiva come dirigente di azienda uno stipendio molto alto (14mila euro al mese) e risultava proprietario della casa coniugale di cui si faceva carico di tutte le spese e che metteva a disposizione di figli ed ex e di altri immobili. Lo stipendio della moglie di certo non poteva essere messo a paragone con quello dell’ex ma, in ogni caso, era aumentato dopo la separazione dal momento che la donna aveva scelto di lavorare a tempo pieno. Pur persistendo pertanto una «sperequazione reddituale tra i coniugi», il tribunale capitolino osserva che «la complessiva capacità economico reddituale della convenuta è indubbiamente migliorata rispetto alla separazione, essendo al tempo impiegata part-time e ora full-time, con incremento della capacità reddituale e a seguito di un lascito ereditario degli immobili, ciò le consente di provvedere autonomamente al proprio sostentamento, anche in considerazione dell’esclusivo godimento della casa coniugale» e delle spese di gestione di cui si fa carico il ricorrente. In questo senso, dunque, la convenuta non ha «una condizione di disagio tale da non provvedere, con le proprie capacità lavorativa e le ulteriori risorse a disposizione, alle proprie esigenze, essendo indubbiamente dotata di mezzi sufficienti a consentirle una vita dignitosa, superiori a quelli di cui disponeva al tempo della separazione».
note
[1] Cass. sent. n. 11538/17. Cass. S.U. sent. n. 18287/18.
[2] Trib. Roma, sent. n. 13688/21.
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