Corte di Cassazione Sezione L Civile Ordinanza 1 ottobre 2021 n. 26709
Data udienza 13 maggio 2021
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAIMONDI Guido – Presidente
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere
Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere
Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere
Dott. PICCONE Valeria – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 10692-2019 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 59/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 22/01/2019 R.G.N. 848/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/05/2021 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO.
RILEVATO
CHE:
La Corte d’appello di Bologna confermava la pronuncia del giudice di prima istanza che aveva respinto la domanda proposta da (OMISSIS) nei confronti della s.p.a. (OMISSIS) volta a conseguire la declaratoria di illegittimita’ del licenziamento intimatogli in data 11/11/2016 per aver tenuto durante il periodo di malattia protrattosi dal (OMISSIS) uno stile di vita non compatibile con la patologia che lo affliggeva (lombosciatalgia acuta), ed in ogni caso idoneo a pregiudicarne la guarigione e/o il rientro al lavoro;
il Collegio del merito perveniva a tale convincimento, in estrema sintesi, facendo leva sulle conclusioni rassegnate dal nominato ausiliare medico-legale il quale aveva dedotto che poteva ritenersi sussistente una sintomatologia algica lombare, ma che la portata della stessa era tale da consentire l’espletamento delle mansioni ascritte al lavoratore nel rispetto delle limitazioni imposte dal medico competente; la Corte convalidava, peraltro, anche il giudizio emesso dal CTU in ordine alla circostanza che le attivita’ svolte dal paziente durante l’assenza per malattia, ove provate, “avrebbero quanto meno prolungato il periodo di guarigione clinica”; confermava, quindi, il giudizio di proporzionalita’ della sanzione gia’ espresso dal giudice di prima istanza, sul rilievo che lo svolgimento di altra attivita’ da parte del dipendente assente per malattia era idoneo a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedelta’;
avverso tale decisione (OMISSIS) interpone ricorso per cassazione sostenuto da sei motivi illustrati da memoria ex articolo 380 bis c.p.c.;
resiste con controricorso la societa’ intimata.
CONSIDERATO
CHE:
1. con il primo motivo e’ denunciata violazione della L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 4;
a fondamento della critica si deduce che le condotte poste in essere durante il periodo di malattia costituivano meri incombenti di vita quotidiana che non potevano essere validamente sussunti nella nozione di giusta causa di licenziamento; diversamente da quanto accertato dai giudici del merito, secondo i quali il ricorrente aveva movimentato due sacchetti di terriccio durante il periodo di malattia, si argomenta in ordine alla mancanza di prova circa la reale portata della condotta descritta, poiche’ le immagini che riproducevano i sacchetti erano sfocate, poco chiare e da esse non era desumibile il peso effettivo; i filmati relativi allo spostamento di detti involucri mostravano, inoltre, che gli stessi venivano trasportati in maniera corretta e compatibile con la patologia sofferta, per un periodo molto breve, potendo essere tale condotta parificata a quella di norma osservata per adempiere alle ordinarie necessita’ del quotidiano;
2. il secondo motivo prospetta omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5;
la effettivita’ dello stato patologico da cui era affetto il ricorrente era da ritenersi comprovata alla stregua delle certificazioni mediche versate in atti, sicche’ la statuizione con la quale la Corte, condividendo l’opinione espressa dal primo giudice, aveva ipotizzato la simulazione della inabilita’ da parte del ricorrente, era inficiata da evidente illogicita’;
viene, infine, rimarcata la modestia dello sforzo compiuto, consistito nel trasporto di “due semplici sacchetti”, rispetto al quale la sanzione espulsiva irrogata risultava misura del tutto sproporzionata;
3. i motivi, che possono congiuntamente esaminarsi, per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, non sono fondati;
la Corte di merito, nel pur succinto incedere argomentativo, ha operato una corretta sussunzione della fattispecie nella normativa relativa all’obbligo di entrambe le parti di attenersi ai doveri di correttezza e buona fede nell’attuazione del rapporto di lavoro ex articoli 1175 e 1375 c.c.;
tali disposizioni sono caratterizzate dalla presenza di elementi normativi e di clausole generali, il cui contenuto, elastico ed indeterminato, richiede, nel momento giudiziale e sullo sfondo di quella che e’ stata definita la “spirale ermeneutica” tra fatto e diritto, di essere integrato, sia sul piano della quaestio facti che della quaestio iuris, attraverso il contributo dell’interprete, mediante valutazioni e giudizi di valore desumibili dalla coscienza sociale o dal costume o dall’ordinamento giuridico, alla cui stregua poter adeguatamente individuare altresi’ le circostanze piu’ concludenti rispetto a quelle regole e a quei giudizi di valore, si’ da contribuire, mediante la loro sussunzione, alla prospettazione e configurabilita’ della realta’ fattuale (vedi per tutte Cass. 27/4/2017 n. 10416);
queste specificazioni del parametro normativo hanno, dunque, natura di norma giuridica, come in piu’ occasioni sottolineato da questa Corte, e la disapplicazione delle stesse e’ deducibile in sede di legittimita’ come violazione di legge; pertanto, l’accertamento della ricorrenza, in concreto, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, e’ sindacabile nel giudizio di legittimita’ a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards” conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realta’ sociale (vedi ex plurimis, Cass. 2/3/2011 n. 5095, in motivazione Cass. 9/4/2014 n. 8367);
tanto precisato, e’ pure da osservare che, relativamente al profilo controverso riguardante l’ipotizzata fraudolenta simulazione dello stato di malattia, questa Corte ha, in piu’ occasioni, affermato (vedi, ex aliis, Cass. 27/4/2017 n. 10416, Cass. 29/11/2012 n. 21253) che lo svolgimento di altra attivita’ da parte del dipendente assente per malattia puo’ giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedelta’, oltre che nell’ipotesi in cui tale attivita’ esterna sia di per se’ sufficiente a fare presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando quindi, una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attivita’, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia (in motivazione Cass. 7/2/2019 n. 3655);
nello specifico non puo’ mancarsi di rimarcare che le ricordate censure non appaiono intese ad inficiare il summenzionato procedimento di sussunzione della fattispecie concreta nel paradigma normativo di riferimento, ma semplicemente a prospettare un diverso peso probatorio in relazione agli elementi istruttori acquisiti in giudizio, con approccio non consentito in questa sede di legittimita’; la complessiva doglianza – con la quale viene dedotto il vizio di violazione e falsa applicazione di legge e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio – traligna dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’articolo 360 c.p.c., perche’ pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti, senza validamente confrontarsi con la ratio decidendi (cfr. Cass. S.U. 27/12/2019 n. 34476);
la Corte distrettuale, valutate le emergenze istruttorie, aveva infatti sottolineato come la societa’ datrice di lavoro avesse contestato specificamente al dipendente, di aver svolto, sin dai primi giorni di congedo, una serie di attivita’ faticose ed intense, che erano state oggetto di puntuale valutazione da parte del nominato ausiliare, il quale aveva espressamente considerato che le attivita’ svolte dal ricorrente durante il periodo di malattia (ritenute dai giudici del merito dimostrate alla stregua dei dati documentali acquisiti), avrebbero prolungato il periodo di malattia;
alla luce delle sinora esposte argomentazioni, la statuizione impugnata resiste, dunque, alle censure all’esame;
3. con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 2110 c.c. e dell’articolo 47 c.c.n.l. industria alimentare;
si deduce che, posta la sussistenza di numerose certificazioni attestanti la malattia dalla quale era affetto il ricorrente, il licenziamento intimato in data 11/11/2016 quando ancora il periodo di comporto non era decorso, doveva essere dichiarato illegittimo;
4. il motivo e’ privo di fondamento;
come correttamente statuito dal giudice di seconda istanza, nella fattispecie delibata il recesso era stato intimato per giusta causa;
nell’ottica descritta la causale della violazione del periodo di comporto deve ritenersi eccentrica rispetto alla materia del contendere;
e’ bene rammentare che in base ai condivisi dicta espressi da questa Corte, le regole dettate dall’articolo 2110 c.c. per le ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore si sostanziano nell’impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilita’ dell’assenza (cosiddetto comporto) predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice, nonche’ nel considerare quel superamento unica condizione di legittimita’ del recesso; e’ stato al riguardo precisato che le stesse regole hanno la funzione di contemperare gli interessi confliggenti del datore di lavoro (a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l’occupazione), riversando sull’imprenditore – in parte e per un tempo la cui concreta determinazione e’ rimessa gradatamente alla legge, ai contratti collettivi, agli usi, all’equita’ – il rischio della malattia del dipendente (cfr., in tali termini, Cass. 24/6/2005 n. 13624, Cass. 31/1/2012 n. 1404);
esse altresi’ prevalgono, in quanto speciali, sia sulla disciplina dei licenziamenti individuali (di cui alle L. n. 604 del 1966, L. n. 300 del 1970 e L. n. 108 del 1990) che su quella degli articoli 1256 e 1464 c.c.;
nell’ottica descritta, il superamento del periodo di comporto e’ condizione sufficiente di legittimita’ del recesso, nel senso che e’ all’uopo non e’ necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo ne’ della sopravvenuta impossibilita’ della prestazione lavorativa, ne’ della correlata impossibilita’ di adibire il lavoratore a mansioni diverse, senza che ne risultino violati disposizioni o principi costituzionali; di conseguenza, come gia’ affermato da questa Corte (cfr. Cass. 10/10/2005 n. 19679), resta irrilevante ogni valutazione sulla condotta delle parti, mentre, essendo l’assenza una mera conseguenza necessitata della malattia, neppure puo’ avere rilievo, ai fini della legittimita’ del recesso, una indagine sulle cause della assenza stessa, che nella logica dell’istituto devono ricondursi allo stato patologico del lavoratore, incompatibile con la prestazione lavorativa;
alla luce dei principi innanzi enunciati, si impone, dunque, l’evidenza, della eterogeneita’ dei paradigmi normativi di riferimento integrati dal licenziamento per superamento del periodo di comporto, cui ha fatto richiamo il lavoratore, e licenziamento per giusta causa, in ragione della violazione dei principi di correttezza e buona fede intimato dalla parte datoriale, eterogeneita’ congruamente rimarcata dai giudici del gravame, con statuizione che non risulta scalfita dalla formulata censura;
5. il quarto motivo attiene alla violazione o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, articolo 5;
si critica la statuizione con la quale la Corte territoriale ha ritenuto inammissibile per genericita’ “il rilievo inerente il divieto imposto dall’articolo 5 dello statuto dei lavoratori”;
si deduce che parte datoriale avrebbe potuto e dovuto adottare la procedura di controllo della malattia prevista dalla L. n. 300 del 1970 poiche’ solo il ricorso ad una visita di controllo esperita dai servizi ispettivi dei competenti istituti previdenziali, avrebbe potuto offrire congrui elementi di valutazione;
6. al di la’ di ogni pur assorbente considerazione in ordine ai profili di inammissibilita’ che connotano il motivo – non conforme al principio di specificita’ che governa il ricorso per cassazione (articolo 366 c.p.c., nn. 3, 4 e 6), in quanto carente della riproduzione degli atti processuali nel cui contesto si deduce di aver “puntualmente contestato il percorso logico-motivazionale sul punto”, lo stesso e’ da ritenersi privo di fondamento;
questa Corte in numerose occasioni ha avuto modo di argomentare che le disposizioni del citato articolo 5, sul divieto di accertamenti del datore di lavoro circa la infermita’ per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e sulla facolta’ dello stesso di effettuare il controllo delle assenze per infermita’ solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non ostano a che le risultanze delle certificazioni mediche prodotte dal lavoratore, e in genere degli accertamenti di carattere sanitario, possano essere contestate anche valorizzando ogni circostanza di fatto – pur non risultante da un accertamento sanitario – atta a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneita’ di quest’ultima a determinare uno stato di incapacita’ lavorativa, e quindi a giustificare l’assenza, quale in particolare lo svolgimento da parte del lavoratore di un’altra attivita’ lavorativa; analogamente e’ stata ritenuta la deducibilita’ dello svolgimento dell’attivita’ lavorativa durante l’assenza per malattia quale illecito disciplinare sotto il profilo dell’eventuale violazione del dovere del lavoratore di non pregiudicare la guarigione o la sua tempestivita’ (Cass. n. 3704/1987, n. 5407/1990, n. 5006/1992, n. 8165/1993, n. 1974/1994, n. 6399/1995, n. 11355/1995);
e’, dunque, naturalmente insito in tale giurisprudenza il riconoscimento o’ della facolta’ del datore di lavoro di prendere conoscenza di siffatti comportamenti del lavoratore, che, pur estranei allo svolgimento dell’attivita’ lavorativa, sono rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro (vedi Cass. 3/5/2001 n. 6236, cui.adde, ex aliis, Cass. 26/11/2014 n. 25162, Cass. 21/9/2016 n. 18507);
5. con il quinto motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell’articolo 421 c.p.c. si deduce l’indispensabilita’, al fine della decisione, della presenza del giudicante nel corso dell’accesso presso la (OMISSIS) s.p.a. al fine di verificare le mansioni effettivamente svolte dal lavoratore presso l’ufficio “pesa e campionatura” mediante l’assunzione in loco delle prove testimoniali; si prospetta che detta attivita’ era stata impropriamente delegata al CTU dal giudice di prima istanza in violazione della summenzionata disposizione del codice di rito;
6. il motivo non e’ fondato;
sussistono, invero, i presupposti per riscontrare la congrua applicazione da parte dei giudici del gravame, dei principi affermati da questa Corte ed ai quali va data continuita’, secondo i quali la consulenza tecnica di ufficio, non essendo qualificabile come mezzo di prova in senso proprio, perche’ volta ad adiuvare il giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni necessitanti specifiche conoscenze, e’ sottratta alla disponibilita’ delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito; questi puo’ affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente), ed in tal caso e’ necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (vedi ex plurimis, Cass. 8/2/2019 n. 3717, Cass. 10/9/2013 n. 20695);
in tal senso, la pronuncia si palesa conforme a diritto, perche’ coerente coi richiamati dicta, ed in armonia con le disposizioni del codice di rito che consentono al giudicante di conferire all’ausiliare il potere di assumere informazioni sui fatti ritualmente dedotti dalle parti, alla presenza delle stesse e dei loro consulenti (articolo 194 c.p.c.);
6. con la sesta censura si denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5;
ci si duole che la Corte territoriale abbia omesso di escutere numerosi testi di parte, i quali avrebbero potuto confermare che il ricorrente, affetto dalle patologie diagnosticate, si era attenuto alle prescrizioni mediche senza svolgere attivita’ sportive o lavorative, ma semplici incombenze di vita quotidiana;
7. il motivo non e’ ammissibile;
in tema di prova, spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilita’ e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicita’ dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonche’ la facolta’ di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia puo’ essere decisa senza necessita’ di ulteriori acquisizioni (cfr. ex aliis, Cass. 13/6/2014 n. 13485);
il giudice di merito non e’ invero, tenuto ad ammettere i mezzi di prova dedotti dalle parti ove ritenga sufficientemente istruito il processo e ben puo’, nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, non ammettere la dedotta prova testimoniale quando, alla stregua di tutte le altre risultanze di causa, ritenga – con giudizio che, se congruamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimita’ – la stessa superflua (vedi Cass. 10/6/2009 n. 13375);
ne’ la’ censura contenuta nel ricorso per cassazione relativa alla mancata ammissione della prova testimoniale allega le ragioni che avrebbero dovuto indurre ad ammettere tale prova, adempiendo agli oneri di allegazione necessari a individuare la decisivita’ del mezzo istruttorio richiesto e la tempestivita’ e ritualita’ della relativa istanza di ammissione (vedi Cass. 4/4/2018 n. 8204);
in definitiva, alla stregua delle sinora esposte considerazioni, il ricorso e’ respinto;
le spese seguono la soccombenza, liquidate come da dispositivo;
trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater da’ atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis ove dovuto.