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Come non farsi licenziare per superamento del comporto

15 Ottobre 2021 | Autore:
Come non farsi licenziare per superamento del comporto

Per evitare il superamento del periodo di comporto il lavoratore può mutare il titolo dell’assenza.

Come noto a tutti i lavoratori dipendenti, l’assenza per malattia non può durare oltre il termine indicato nel contratto collettivo nazionale (il cosiddetto “periodo di comporto”). Diversamente, si può essere licenziati senza che il datore di lavoro sia tenuto a fornire una specifica motivazione: basta il semplice decorso del tempo oltre il limite. Proprio per non superare tale limite, il dipendente potrebbe decidere di andare in ferie, in modo da sfruttare i giorni maturati sino ad allora per guarire definitivamente e rientrare in azienda: un ottimo espediente per evitare licenziamento. Ma si può fare? Si può passare dalla malattia alle ferie per non farsi licenziare per superamento del comporto?

La risposta è stata fornita più volte dalla Cassazione. Secondo la Corte, seppure in linea di principio il lavoratore non ha un diritto assoluto di trasformare la malattia in ferie, visto che l’ultima parola sulla scelta del tempo delle ferie spetta al datore di lavoro, qualora quest’ultimo intenda negargli tale possibilità deve motivarla adeguatamente: deve cioè fornire una spiegazione valida, alla luce dell’organizzazione aziendale, del perché non può mettere in ferie il dipendente. 

Difatti, in una logica di bilanciamento dei rispettivi interessi, prevale sempre quello del dipendente alla conservazione del posto. Anche il dovere di correttezza e buona fede nell’applicazione di un contratto – applicabile pure nell’ambito del lavoro – impone al datore che le ragioni di un eventuale diniego siano concrete ed effettive. 

Dunque, si può parlare di una «facoltà» del dipendente – più che di un diritto – a sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, «allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto. Grava poi sul datore di lavoro dimostrare – ove sia stato investito di tale richiesta – di aver tenuto conto, nell’assumere la relativa decisione, del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore» a fruire delle ferie (diritto tutelato dalla Costituzione) e «ad evitare in tal modo la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo di comporto». 

Ricordiamo, a tal proposito, che il lavoratore ha diritto ad un periodo di ferie annuali retribuite; si tratta di un diritto irrinunciabile di fonte costituzionale teso a garantire il ristoro psico-fisico del lavoratore e a tutelare la sfera sociale-affettiva del medesimo. Spetta al datore di lavoro, conformemente al potere organizzativo e direttivo dell’impresa che gli compete, decidere l’epoca di godimento delle ferie tenendo tuttavia conto non solo dell’interesse dell’impresa e dell’attività di lavoro, ma anche degli interessi del prestatore di lavoro.

Il diritto alle ferie matura pro-quota in ragione del periodo di tempo prestato in servizio (matura dunque in dodicesimi rispetto ai mesi di servizio prestati ove, in via generale e comunque in ossequio a quanto contrattualmente stabilito, ai fini della maturazione si considerano mese intero le frazioni di mese di almeno 15 giorni, non dando così valore alle frazioni inferiori ai 15 giorni), tenendo tuttavia conto che vi sono dei periodi che, seppure non lavorati, danno luogo alla maturazione dei giorni di ferie (ad esempio nel caso di malattia, congedo di maternità, congedo matrimoniale, ferie ecc.).

Interessante il principio fornito dalla Suprema Corte non molto tempo fa [2]. Il lavoratore assente per malattia non ha incondizionata facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, quale titolo della sua assenza, allo scopo di interrompere il decorso del periodo di comporto. Tuttavia, il datore di lavoro di fronte alla richiesta del lavoratore di conversione dell’assenza per malattie in ferie, e nell’esercitare il potere conferitogli dalla legge (art. 2109 Cod.civ., comma 2) di stabilire la collocazione temporale delle ferie nell’arco dell’anno armonizzando le esigenze dell’impresa con gli interessi del lavoratore, è tenuto ad una considerazione e ad una valutazione adeguate alla posizione del lavoratore in quanto esposto, appunto, alla perdita del posto di lavoro con la scadenza del comporto. 

Tuttavia, l’obbligo del datore di lavoro di accettare la richiesta di ferie del dipendente  non sussiste – sempre secondo la Cassazione – quando il lavoratore ha la possibilità di fruire e beneficiare di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del periodo di comporto ed in particolare quando le parti sociali hanno convenuto e previsto, a tal fine, il collocamento in aspettativa, pur non retribuita.

Il principio affermato dalla Cassazione è dunque il seguente: «Il lavoratore assente per malattia e ulteriormente impossibilitato a riprendere servizio non ha l’incondizionata facoltà di sostituire alla malattia il godimento di ferie maturate quale titolo della sua assenza, allo scopo di bloccare il decorso del periodo di comporto, ma il datore di lavoro, nell’esercizio del suo diritto alla determinazione del tempo delle ferie, dovendo attenersi alla direttiva dell’armonizzazione delle esigenze aziendali e degli interessi del datore di lavoro (art. 2109 c.c.), è tenuto, in presenza di una richiesta del lavoratore di imputare a ferie un’assenza per malattia, a prendere in debita considerazione il fondamentale interesse del richiedente ad evitare la perdita del posto di lavoro a seguito della scadenza del periodo di comporto (con l’onere, in caso di mancato accoglimento della richiesta, di dimostrarne i motivi); tuttavia tale obbligo del datore di lavoro non è configurabile allorquando il lavoratore possa usufruire di altre regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del periodo di comporto, e in particolare del collocamento in aspettativa, ancorché non retribuita» [2].

Per quanto concerne la violazione delle norme che regolano le ferie annuali, la legge prevede l’applicazione di una sanzione amministrativa da 100 a 600 Euro, suscettibile di incrementi in situazioni particolari. La sanzione, infatti, è compresa tra:

  • 400 e 1.500 euro, se la violazione riguarda più di 5 lavoratori ovvero si è verificata in almeno due anni;
  • 800 e 4.500 euro, se la violazione riguarda più di 10 lavoratori ovvero si è verificata in almeno quattro anni. In questo caso, non è ammesso il pagamento in misura ridotta.

Approfondimenti

Per maggiori approfondimenti, leggi:


note

[1] Cass. sent. n. 7566/2020, cfr. anche Trib. Foggia, sent. del 17.07.2021. Cass. sent. n. 27392/2018.

[2] Cass. sent. n. 14490/2000.

Trib. Foggia, sez. lav., 17 luglio 2021

Giudice Caputo

Ragioni di fatto e di diritto della decisione

1. Con ricorso depositato in data 18.5.2021, (…) – premesso di aver lavorato dall’1.4.2009 al 27.2.2021 alle dipendenze della (…) s.r.l., con qualifica di operaio meccanico livello B – adiva l’intestato Tribunale del lavoro, impugnando il licenziamento intimatogli dalla società datrice con lettera raccomandata del 27.2.2021, sul presupposto che egli fosse rimasto assente per malattia negli ultimi 30 mesi, per complessivi 430 giorni (con conseguente superamento del periodo di comporto, quale previsto dal C.C.N.L. di categoria, pari a 14 mesi, corrispondenti a 420 giorni). A sostegno del ricorso deduceva: che, nel periodo dal 16.3.2020 al 16.5.2020 (per un totale di 9 settimane, pari a 61 giorni), egli era stato sottoposto, unitamente a tutti gli altri dipendenti della società datrice di lavoro, alla misura della Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria (d’ora innanzi anche solo C.I.G.); che, pertanto, la misura in questione aveva sostituito ad ogni effetto il periodo di malattia di cui egli stava fruendo; che i conteggi formulati dalla (…) s.r.l. erano errati, non essendo state scomputate dal periodo di comporto le settimane in cui tutta la forza lavoro dell’azienda era stata collocata in C.I.G.; che, sul punto, avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 3, comma 7°, del D.Lgs. n. 148/2015, nonché l’orientamento espresso dall’I.N.P.S. nella circolare d’Istituto n. 197/2015, in base alla quale il lavoratore in malattia entra in C.I.G. dalla data di inizio della stessa; che, in definitiva, essendo egli rimasto assente per malattia per complessivi 369 giorni, non era stato superato il limite temporale stabilito dalla contrattazione collettiva. Sulla scorta di quanto dedotto, il ricorrente chiedeva dichiararsi illegittimo il provvedimento espulsivo, invocando le tutele previste dall’art. 18 L. n. 300/1970. Instauratosi il contraddittorio, si costituiva la società convenuta, la quale resisteva al ricorso, chiedendone il rigetto. In assenza di attività istruttoria, all’udienza del giorno 1.7.2021 il Giudice designato – uditi i procuratori delle parti – si riservava per la decisione. 2. Il ricorso è infondato e va rigettato, condividendosi le argomentazioni espresse dal Tribunale di Pesaro nella sentenza n. 16 del 20.1.2021, versata in atti dalla società resistente (doc. 5) ed i cui principali passaggi motivazionali vengono di seguito riprodotti, anche ai sensi dell’art. 118, comma 1°, disp. att. c.p.c.. 2.1. Invero, l’unico motivo di impugnazione è incentrato sul dedotto, mancato superamento del periodo di comporto per effetto del sopravvenuto collocamento del ricorrente in C.I.G. ordinaria a zero ore, previsto dalla normativa d’emergenza COVID, periodo che, avendo interessato tutti i dipendenti, non potrebbe, secondo parte ricorrente, essere computato come malattia ai fini del comporto. La tesi sostenuta da parte ricorrente si fonda, in particolare, su un messaggio I.N.P.S. del 30.4.2020, il quale, nell’interpretare la disposizione di cui all’art. 3, comma 7°, D.Lgs. 148/2015 (secondo cui “il trattamento di integrazione salariale sostituisce in caso di malattia l’indennità giornaliera di malattia, nonché la eventuale integrazione contrattualmente prevista”), ha ritenuto che, qualora lo stato di malattia sia precedente l’inizio della sospensione dell’attività lavorativa, si avranno due casi: se la totalità del personale in forza all’ufficio, reparto, squadra o simili cui il lavoratore appartiene ha sospeso l’attività, anche il lavoratore in malattia entrerà in C.I.G. dalla data di inizio della stessa; qualora, invece, non venga sospesa dal lavoro la totalità del personale in forza all’ufficio, reparto, squadra o simili cui il lavoratore appartiene, il lavoratore in malattia continuerà a beneficiare dell’indennità di malattia, se prevista dalla vigente legislazione. Da tale interpretazione parte ricorrente ha desunto che, se durante una malattia l’ azienda pone in Cassa Integrazione a zero ore il lavoratore interessato (insieme al reparto di appartenenza, se non la totalità della forza-lavoro), si avrebbe una modificazione della natura giuridica dell’assenza e del motivo del mancato svolgimento dell’attività lavorativa, la quale comporta che l’assenza dal lavoro non è più ascrivibile o imputabile al lavoratore, anche in presenza di una certificazione medica preesistente, con la conseguenza ulteriore che l’assenza, essendo imputabile alla chiusura aziendale sopravvenuta, non potrebbe essere computata ai fini del comporto. La tesi non pare condivisibile. Ritiene il giudicante che, con l’art. 3, comma 7°, del D.Lgs. 148/2015, il Legislatore abbia inteso esclusivamente prevedere una diversa “imputazione” della prestazione economica, che resta, comunque, di competenza dell’I.N.P.S. (sia nel caso di malattia, sia nel caso di C.I.G.) e che nulla ha a che vedere con il comporto, non incidendo in alcun modo sul titolo dell’assenza e sulla sua rilevanza all’interno del rapporto tra lavoratore e datore di lavoro. E’, infatti, da escludere, in linea di principio, che il datore di lavoro possa determinare il mutamento del titolo dell’assenza quando il lavoratore è in malattia, perché ciò significherebbe attribuire al datore di lavoro un potere extra ordinem, che si porrebbe addirittura in contrasto con un diritto di rilevanza costituzionale, quale il diritto alla salute. Parimenti è da escludere che una normativa speciale, emessa al fine di imprimere una particolare connotazione alla prestazione economica erogata dall’I.N.P.S. in caso di C.I.G. che sopravviene durante la malattia, possa determinare il mutamento del titolo dell’assenza anche per finalità diverse da quelle espressamente previste dalla legge. Il mutamento del titolo dell’assenza è, sì, ammesso, ma solo se sia il lavoratore a richiederlo, mediante la presentazione di richiesta di ferie, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie. Secondo il più recente indirizzo di legittimità, dovendo ritenersi prevalente l’interesse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto (Cass. 11.5.2000, n. 6043, Cass. 15.12.2008, n. 29317, Cass. 3.3.2009, n. 5078), questi ha la facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, gravando poi sul datore di lavoro, cui è generalmente riservato il diritto di scelta del tempo delle ferie, dimostrare – ove sia stato investito di tale richiesta – di aver tenuto conto, nell’assumere la relativa decisione, del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare in tal modo la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo di comporto. L’orientamento risulta confermato dai successivi arresti di legittimità (cfr. Cass. 7.6.2013, n. 14471), ove sono valorizzati i canoni di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto (Cass. sez. lav., 14/09/2020, n.19062). Tali principi sono stati ribaditi da Cass. n. 27392/2018, secondo cui il lavoratore assente per malattia ha facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie, senza che a tale facoltà corrisponda comunque un obbligo del datore di lavoro di accedere alla richiesta, ove ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa; in un’ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede, è necessario, tuttavia, che le dedotte ragioni datoriali siano concrete ed effettive (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione impugnata, che aveva ritenuto privo di giustificazione, in quanto fondato su ragioni vaghe ed inconsistenti, il rifiuto di concessione delle ferie motivato dalla società datrice con un generico riferimento a non meglio precisate esigenze organizzative dell’ufficio). La possibilità, quindi, di mutare il titolo dell’assenza per malattia spetta solo al lavoratore, al fine di sospendere il decorso del periodo di comporto, nel cui calcolo vanno inclusi, come noto, oltre ai giorni festivi, anche quelli di fatto non lavorati, che cadano durante il periodo di malattia indicato dal certificato medico, operando, in difetto di prova contraria (che è onere del lavoratore fornire), una presunzione di continuità, in quei giorni, dell’episodio morboso addotto dal lavoratore quale causa dell’assenza dal lavoro e del mancato adempimento della prestazione dovuta, con la precisazione che la prova idonea a smentire tale presunzione di continuità può essere costituita solo dalla dimostrazione dell’avvenuta ripresa dell’attività lavorativa (Cassazione civile sez. lav., 13/09/2019, n.22928). 2.2. Nel caso di specie, così come in quello esaminato nella pronuncia innanzi riportata, il ricorrente ha inviato i certificati di malattia senza soluzione di continuità e senza chiedere il mutamento del titolo dell’assenza, dimostrando, con comportamento concludente, di voler proseguire lo stato di malattia (si vedano, in proposito, i certificati medici allegati dalla parte resistente, doc. 3). Avendo, quindi, il lavoratore continuativamente coperto il periodo dal 2.1.2020 al 27.2.2021 con certificati di malattia, non vi è dubbio che un eventuale mutamento del titolo dell’assenza avrebbe richiesto un’istanza in tal senso rivolta al datore di lavoro, prima della scadenza del periodo di comporto e al fine di sospenderne il decorso, come precisato da Cass. n. 8834/2017 in un caso di mutamento del titolo dell’assenza da malattia a ferie (per l’ipotesi inversa, si veda quanto affermato da Cass. sez. lav., 10/01/2017, n.284, secondo cui, in caso di malattia del lavoratore insorta durante il periodo feriale, la trasmissione della relativa certificazione vale come richiesta di modificazione del titolo dell’assenza, pur in assenza di un’espressa comunicazione, scritta od orale, trattandosi di un atto che esprime in modo inequivocabile la volontà del soggetto di determinare l’effetto giuridico della conversione). Alla stregua delle argomentazioni che precedono, non appare rilevante la circostanza dedotta nel verbale di udienza, secondo cui la società datrice di lavoro non avrebbe mai comunicato al ricorrente il suo collocamento in C.I.G. per il periodo dal 16.3.2020 al 16.5.2020, poiché ciò che conta è il dato obiettivo – non contestato e, in ogni caso, provato per tabulas – che, in tale periodo, il lavoratore abbia continuato ad inoltrare al datore di lavoro i certificati medici attestanti il suo stato morboso. In definitiva, il licenziamento s’appalesa legittimo, dal che discende il rigetto del ricorso. 3. La relativa novità delle questioni trattate, attestata dall’assenza di precedenti specifici di legittimità, induce nondimeno a compensare integralmente le spese di lite, ai sensi dell’art. 92, comma 2°, c.p.c..

P.Q.M.

Il Tribunale di Foggia-Sezione Lavoro, in persona del Giudice designato, dott. Ivano Caputo, definitivamente pronunciando nel procedimento iscritto al n. 3715/2021 R.G.L., disattesa o assorbita ogni contraria istanza, eccezione e difesa, così provvede: a) rigetta il ricorso; b) compensa integralmente le spese di lite; c) manda alla Cancelleria per le comunicazioni.


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