Licenziamento per lavorare piano: è legittimo?


La mancanza di diligente collaborazione, di correttezza e buona fede che rallenta la produzione è una giusta causa per interrompere il rapporto?
Chi va piano va sano e va lontano. All’ufficio di collocamento, però. Soprattutto se la lentezza nel lavoro non è sinonimo di precisione ma di complotto contro il capo, per tentare di farlo fuori. È quanto stabilito dalla sezione lavoro e previdenza del tribunale di Forlì in una recente sentenza [1]. Significa che il licenziamento per lavorare piano è legittimo? In determinate circostanze, lo è.
Fare le cose in maniera troppo veloce può portare a commettere degli errori e rivelarsi controproducente, questo è chiaro. Ma rallentare il proprio ritmo, per di più apposta, compromettendo i tempi della produzione viene ritenuto dalla giurisprudenza motivo di licenziamento: vengono meno, infatti, i princìpi di correttezza e di buona fede che ci sono alla base di ogni contratto. Se poi si fa una sorta di «sciopero mascherato», cioè si va al lavoro ma si rende un terzo di quello che si dovrebbe, allora il provvedimento espulsivo è inevitabile. Vediamo quando e perché è legittimo il licenziamento per lavorare piano.
Indice
I princìpi di correttezza e buona fede
Due le regole da rispettare alla base di un qualsiasi rapporto di lavoro, due gli articoli del Codice civile che le impongono, unico il concetto che le raggruppa: il contratto deve essere eseguito secondo correttezza e buona fede [2].
Entrambi i princìpi si legano all’obbligo di fedeltà che il dipendente deve dimostrare verso il datore di lavoro. La sua violazione può comportare il licenziamento per giusta causa, poiché il titolare dell’azienda avrà perso la fiducia nel lavoratore e non ci saranno più gli estremi per continuare la reciproca collaborazione nemmeno per un breve periodo.
Ciò significa che il dipendente deve astenersi da qualsiasi comportamento possa ledere gli interessi e le finalità dell’azienda, compreso quello di mantenere una determinata produttività secondo gli obiettivi prefissati in modo da non perdere delle posizioni sul mercato rispetto alla concorrenza.
Inoltre, come affermato dalla Cassazione [3], è necessario evitare qualsiasi condotta idonea a ledere in modo irrimediabile il presupposto fiduciario del rapporto di lavoro. Scrivono gli Ermellini: «Il licenziamento per giusta causa, essendo la più grave delle sanzioni disciplinari, può considerarsi legittimo solo se sia proporzionato al fatto addebitato al lavoratore; pertanto, per stabilire l’esistenza della giusta causa di licenziamento occorre accertare se la specifica mancanza commessa dal dipendente, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente e sia tale da esigere una sanzione non minore di quella espulsiva».
In sostanza, una volta identificate la mancanza e la sua gravità, è possibile licenziare il dipendente per una giusta causa «che non consente – sottolinea ancora la Cassazione – la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto di lavoro».
Lavorare piano è giusta causa di licenziamento?
Come si diceva prima, fare le cose con troppa fretta può essere tanto controproducente quanto farle troppo piano: si rischia di lavorare con superficialità pur di concludere un compito quanto prima. Immagina il cameriere di un ristorante che, per servire tutti subito, porta via dalla cucina le pietanze non del tutto cotte e di corsa. O che, al contrario, sia talmente lento da farti passare la fame o da metterti in tavola la bistecca fredda o il caffè tiepido. In entrambi i casi, il titolare rischia di perdere i clienti.
Se un dipendente è lento di suo, c’è un problema che il capo deve risolvere in qualche modo: formandolo, stimolandolo o, se proprio tutto si rivela inutile, invitandolo a capire che ha sbagliato mestiere e che è meglio se si cerca un’altra cosa da fare. Se, però, è lento apposta, se decide di lavorare piano o di essere troppo puntiglioso nella metodica e nelle procedure proprio per creare un danno ad un superiore o all’azienda stessa, allora il discorso cambia.
Il tribunale di Forlì ha recentemente stabilito che chi rallenta la produzione di proposito può essere licenziato per giusta causa. Nella sentenza in commento, il giudice si è occupato del caso di un dipendente che, per boicottare il capo e mettere l’azienda nelle condizioni di rimuoverlo, lavorava ad un ritmo troppo basso.
È quello che viene definito lo «sciopero alla rovescia»: anziché astenersi dal lavoro per una legittima protesta o per rivendicare qualche diritto mancante, il lavoratore si reca in ufficio e rallenta la produzione. Questo comportamento, osserva il giudice, non è riconducibile alla nozione di legittima astensione dal servizio.
Secondo il tribunale di Forlì, si può parlare di scarso rendimento quando la prestazione del dipendente richiede tempi superiori del 50% rispetto a quelli che in media vengono impiegati per svolgere una determinata attività. E ciò viene considerato un motivo di licenziamento per giusta causa, soprattutto quando si dimostra che c’è una lampante inosservanza dell’obbligo di diligente collaborazione in capo al dipendente. Collaborazione che, ovviamente, comprende anche i tempi di produzione e di lavoro.
note
[1] Trib. Forlì sent. n. 147/2021.
[2] Artt. 1175 e 1375 cod. civ.
[3] Cass. sent. n. 11220/2004 e n. 2900/2008.