Le nozze annullate dal giudice ecclesiastico sono considerate valide dal giudice italiano se la coppia ha vissuto insieme almeno tre anni.
Chi si è sposato con il rito concordatario, davanti a un sacerdote della Chiesa cattolica, ha ottenuto automaticamente il riconoscimento degli effetti civili del matrimonio nello Stato italiano. Da quel momento il vincolo nuziale per la Chiesa dura per sempre, a meno che il tribunale ecclesiastico (che un tempo si chiamava Sacra Rota) non dichiari nullo il sacramento celebrato. Ma stavolta gli effetti nell’ordinamento italiano non sono automatici: serve una sentenza – chiamata di «delibazione» – che attribuisca efficacia alla pronuncia ecclesiastica; altrimenti, il matrimonio per lo Stato rimane valido. Siccome i motivi che possono portare alla dichiarazione di nullità del matrimonio religioso sono molti, ci si chiede se la convivenza tra i coniugi può sanare un matrimonio nullo.
Non sono rari i casi di coppie che, a distanza di anni o di decenni dal matrimonio, ottengono l’annullamento dalla Chiesa, e così tornano liberi di sposarsi nuovamente con altri. Ma quando si arriva di fronte al giudice italiano per chiedere il riconoscimento della sentenza ecclesiastica i presupposti sono diversi: infatti, la Corte d’Appello – che è il giudice competente – non può deliberare lo scioglimento delle nozze concordatarie se la convivenza tra i coniugi è durata almeno tre anni. In questi casi, si arriva ad una situazione apparentemente paradossale: quel matrimonio non è più valido per la Chiesa, ma lo è ancora per lo Stato italiano.
Il problema non si esaurisce qui, perché quando ci si chiede se la convivenza può sanare un matrimonio nullo c’è da considerare anche un altro aspetto: come accertare se effettivamente quella convivenza c’è stata, ed è avvenuta non come un “pro forma”, dovuta magari a motivi di apparenza e di convenienza, bensì come una vera e propria unione coniugale tra marito e moglie? Questa indagine va compiuta dal giudice ecclesiastico o da quello italiano? Cosa deve dimostrare chi si oppone alla delibazione? A queste importanti domande ha risposto una nuova sentenza della Corte di Cassazione.
Matrimonio concordatario: validità ed effetti
Il matrimonio concordatario: (così chiamato perché è stato introdotto con il Concordato tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica) rappresenta il punto di incontro tra il matrimonio civile e quello religioso, detto anche matrimonio canonico.
Senza il Concordato, il matrimonio civile non sarebbe valido ai fini religiosi, e quello canonico non avrebbe nessuna efficacia civile. Nel matrimonio concordatario il sacerdote cattolico che lo celebra, in presenza dei testimoni, dà lettura agli sposi degli articoli del Codice civile [1] che contemplano i diritti e i doveri derivanti dal matrimonio, tra i coniugi e verso la prole. Con questi requisiti, l’atto di matrimonio compilato dal ministro della religione cattolica può essere trascritto nei registri dello stato civile e così assume validità ed efficacia nell’ordinamento italiano.
Nullità del matrimonio canonico: quando?
Per la Chiesa il matrimonio è considerato un sacramento indissolubile, perciò nel caso di scioglimento del vincolo religioso si deve parlare di nullità del matrimonio canonico e non di annullamento (che comporterebbe la perdita di efficacia solo dal momento in cui viene dichiarato, mentre la nullità opera con effetti retroattivi, sin dall’origine).
I motivi che comportano la nullità del matrimonio canonico – che deve essere dichiarata dal competente tribunale ecclesiastico – riguardano la mancanza di requisiti necessari in capo ad uno o entrambi gli sposi o la presenza di vizi nella formazione del consenso alle nozze. Sono tutti fattori concernenti cause concomitanti o preesistenti alla celebrazione del matrimonio, e in questo il regime della nullità del matrimonio canonico si differenzia dalla separazione e dal divorzio che, invece, dipendono da fatti sopravvenuti durante la vita coniugale.
Tra i principali motivi di nullità del matrimonio canonico ci sono la mancanza di un consenso sincero, come chi si sposa perché costretto, gli errori sulle qualità del coniuge, come l’impotenza scoperta successivamente, e l’assenza di rapporti sessuali (è il cosiddetto «matrimonio rato e non consumato»); ti forniamo l’elencazione completa nella guida sull’annullamento del matrimonio.
Delibazione della sentenza ecclesiastica: effetti
Ti abbiamo anticipato all’inizio che la declaratoria di nullità del matrimonio religioso richiede un giudizio di delibazione da parte della Corte d’Appello competente per territorio, che sottopone la pronuncia del tribunale ecclesiastico ad un vaglio di conformità con le leggi italiane; se la sentenza ecclesiastica non viene delibata, non potrà acquisire efficacia per lo Stato italiano (per approfondire leggi “Annullamento matrimonio Sacra Rota ed effetti civili“).
Invece, con la delibazione positiva il matrimonio concordatario sarà annullato in modo retroattivo, così da perdere efficacia sin dal momento della sua celebrazione. Rimarranno salvi solo i doveri degli ex coniugi verso i figli nati dall’unione coniugale dichiarata sciolta. Anche sotto questo profilo si registra un’importante differenza rispetto alla sentenza di divorzio, che fa cessare gli effetti del matrimonio solo dal momento in cui viene pronunciata.
Convivenza tra i coniugi e annullamento del matrimonio
La convivenza è uno degli elementi essenziali del matrimonio, tant’è che l’abbandono del tetto coniugale senza valida ragione costituisce causa di separazione e diventa reato se fa mancare l’assistenza al coniuge. Inoltre, la legge [2] preclude la possibilità di esercitare l’azione di annullamento del matrimonio se vi è stata coabitazione per un anno dal momento in cui le cause che avevano determinato l’errore, il timore o la violenza sono cessate. Invece, nell’ordinamento canonico, l’assenza, o la brevità, della convivenza more uxorio (quella compiuta secondo il costume e lo stile di vita che devono avere i coniugi), può essere un motivo per dichiarare la nullità del matrimonio religioso.
La convivenza avvenuta «come coniugi» e protratta per almeno tre anni impedisce al giudice italiano di riconoscere efficacia alla sentenza canonica e, dunque, di poter annullare il matrimonio, a prescindere da quali siano stati i motivi che avevano comportato la pronuncia di nullità da parte del giudice ecclesiastico: quella sentenza non potrà essere delibata dallo Stato. La giurisprudenza [3] afferma costantemente che si tratta di un limite invalicabile, posto a tutela di esigenze di ordine pubblico e come tali non disponibili e derogabili dalle parti in causa.
Convivenza tra coniugi: come si accertano durata e modalità?
Una nuova ordinanza della Corte di Cassazione [4], che ti riportiamo per esteso in fondo all’articolo, ha chiarito che la convivenza coniugale ultratriennale costituisce un elemento ostativo alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio. E deve essere la Corte d’Appello – non il giudice ecclesiastico – ad accertare, in piena autonomia, «la natura e la durata della convivenza, mediante adeguata istruttoria», senza riportarsi in modo vincolante alle circostanze descritte nella sentenza del tribunale ecclesiastico.
In questa fase istruttoria potranno trovare ingresso i motivi dedotti dalle parti – e, in particolare, andranno esaminati quelli sollevati dal coniuge che si oppone alla delibazione – tenendo presente che la convivenza non si limita alla mera coabitazione (che può essere avvenuta per altri motivi, diversi dall’affetto coniugale), ma deve essere stata sostanziale ed intima, ossia, per usare le parole della Suprema Corte, «oggettivamente intesa, in attuazione degli obblighi assunti con il vincolo del matrimonio».
note
[1] Artt. 143 e ss. Cod. civ.
[2] Art. 122 Cod. civ.
[3] Cass. S.U. sent. n.16379/2014, ord. n. 11791 del 05.05.2021 e n. 19271 del 07.07.2021.
[4] Cass. ord. n. 30645 del 28.10.2021.
Cass. civ., sez. I, ord., 28 ottobre 2021, n. 30645
Presidente Genovese – Relatore Lamorgese
Fatti di causa
La Corte d’appello di Roma, con sentenza del 12 dicembre 2017, in accoglimento della domanda di B.F. , ha dichiarato efficace nella Repubblica italiana la sentenza del Tribunale ecclesiastico dell’8 luglio 2015 che aveva dichiarato nullo il matrimonio concordatario da lui contratto con D.S. il 24 aprile 2004, per difetto di discrezione di giudizio circa i diritti e i doveri nascenti dal matrimonio; ha rigettato l’eccezione sollevata dalla D. di contrarietà della sentenza ecclesiastica all’ordine pubblico in ragione della convivenza ultratriennale con il B. e la sua domanda di attribuzione di un contributo economico ex artt. 129 e 129 bis c.c.. Ad avviso della Corte, la convivenza matrimoniale, pur protrattasi per circa cinque-sei anni, non integrava una vera convivenza e, quindi, era priva di “capacità sanante di eventuali vizi genetici del matrimonio-atto”.
Avverso questa sentenza ricorrono per cassazione la D. sulla base di cinque motivi e, con atto successivo, il PG presso la Corte di cassazione sulla base di cinque motivi. Il B. resiste con controricorso e memorie.
Il PG ha presentato requisitoria scritta chiedendo l’accoglimento del ricorso.
Ragioni della decisione
Entrambi i ricorsi, da esaminare congiuntamente, meritano accoglimento nei seguenti termini.
La convivenza ultratriennale costituisce un fatto integrativo dell’ordine pubblico e, in tal senso, impeditivo del riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica; opera su eccezione di parte, sulla quale ricade il relativo onere probatorio (cfr. Cass. SU n. 16379 del 2014 e successive); spetta alla Corte d’appello dare conto adeguatamente della esistenza o non esistenza della convivenza, ai fini del giudizio sulla fondatezza o infondatezza dell’eccezione.
La valutazione del giudice di merito dev’essere immune, non solo, da errores in iudicando, ma anche da vizi nell’accertamento dei fatti di causa, deducibili in sede di legittimità nei limiti consentiti dal mezzo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.
La sentenza impugnata è censurabile per entrambi i profili.
La Corte territoriale, da un lato, ha affermato che “la parte convenuta (D. ) ha allegato e dimostrato, tramite il ricorso e decreto di omologa della separazione consensuale, che tra i coniugi si è realizzata una convivenza per circa cinque/sei anni (dalla celebrazione del matrimonio nell’aprile 2004 al deposito del ricorso per separazione nel luglio 2010, nel quale i coniugi davano atto della cessazione della coabitazione già intervenuta risalendo la crisi coniugale all’autunno 2009)” (pag. 6); dall’altro, ha concluso nel senso che la relazione tra i coniugi non fosse idonea ad integrare i caratteri di una vera convivenza e, quindi, una ragione di ordine pubblico impeditiva dell’efficacia della sentenza ecclesiastica nell’ordinamento italiano. E ciò perché la convivenza non aveva “rivestito i connotati di reciproco affetto, comune consuetudine di vita e progettualità familiare condivisa” (pag. 7).
Nel giungere a tale conclusione la Corte ha valorizzato elementi caratterizzanti il quomodo della convivenza, in termini di positiva realizzazione della vita coniugale, inerenti alla sfera intima della relazione di coppia e dei sentimenti individuali di ciascun coniuge, per giunta riferibili alla fase della crisi coniugale (come si desume dal passo della sentenza in cui si riferisce che “gli stessi coniugi in sede di ricorso per separazione specificavano che l’unione matrimoniale era stata caratterizzata da una apparente serenità familiare”, a pag. 7).
È una motivazione apparente e perplessa, dunque censurabile ex art. 360 c.p.c., n. 5, e viziata in diritto.
L’indagine da compiere ai fini del giudizio delibatorio è volta a dare conto della esistenza (nell’an) di una convivenza in senso oggettivo, protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio, dovendosi valorizzare anche il fatto potenzialmente decisivo (e invece non esaminato) della nascita di una figlia dall’unione coniugale nel 2004. In tal senso la sentenza impugnata è dissonante rispetto al principio secondo cui la Corte d’appello, giudicando sull’eccezione di convivenza quale causa di ordine pubblico ostativa al riconoscimento dell’efficacia nell’ordinamento italiano della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, deve accertare l’esistenza di una stabile convivenza protrattasi per oltre tre anni, oggettivamente intesa, in attuazione degli obblighi assunti con il vincolo del matrimonio (art. 143 c.c.).
È inoltre errata l’affermazione secondo cui l’esistenza di una convivenza effettiva tra i coniugi avrebbe potuto (e dovuto) essere dedotta dalla convenuta solo nel giudizio ecclesiastico per paralizzare l’azione di nullità del matrimonio. La Corte territoriale, laddove imputa alla D. di non avere in quel giudizio contestato l’accertamento della vicenda coniugale compiuto dai giudici ecclesiastici (i quali avevano rilevato una convivenza “contrassegnata da totale assenza di intesa e di dialogo costruttivo”, a pag. 7) poiché solo in quella sede “avrebbe potuto e dovuto rappresentare la propria versione circa la complessiva vicenda coniugale”, entra in collisione con il principio secondo cui, ove la parte deduca la contrarietà all’ordine pubblico della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, invocando la convivenza pluriennale, quale motivo di ordine pubblico ostativo al riconoscimento della sentenza stessa, appartiene al giudizio delibatorio rimesso alla Corte d’appello accertare in autonomia la natura e durata della convivenza mediante adeguata istruttoria (cfr. Cass. n. 17379 del 2020).
In conclusione, la sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte d’appello per un nuovo esame e per le spese.
P.Q.M.
La Corte accoglie i ricorsi, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese. Oscuramento dei dati personali.