Compenso amministratore Srl senza busta paga


L’amministratore che non richiede il pagamento del compenso, se non è un lavoratore subordinato, ha comunque diritto ad essere pagato.
Il rapporto di lavoro tra l’amministratore e la sua società si presume a titolo oneroso. Il fatto che l’amministratore non abbia mai chiesto il pagamento del proprio compenso non fa venir meno il diritto ad essere pagato, salvo abbiamo espresso una chiara rinuncia in tal senso, anche se con un comportamento concludente.
Queste sono le istruzioni fornite dalla Cassazione in merito al compenso dell’amministratore di una Srl senza busta paga. La pronuncia [1] può chiaramente estendersi a qualsiasi altro tipo di società, non solo la Srl: così ad esempio per le società in nome collettivo (Snc), le società in accomandita semplice (Sas) o per azioni (Sapa) e, infine, anche le società per azioni (Spa).
La pronuncia è particolarmente interessante; non sono rare infatti le ipotesi in cui l’amministratore di una società, in virtù della propria qualità di socio e dei rapporti con il resto della compagine sociale, ma soprattutto allo scopo di non aggravare il bilancio di ulteriori costi, rinuncia per diverso tempo al pagamento del proprio compenso per poi, quando si rompe il clima di collaborazione, pretendere anche gli arretrati. In questi casi, secondo la Cassazione, il silenzio o l’inerzia dell’amministratore, anche se prolungati nel tempo, da soli non sono sufficienti a integrare un’effettiva rinuncia al compenso per la carica sociale svolta.
Il fatto che l’amministratore non abbia mai chiesto il pagamento degli emolumenti durante l’incarico non è sufficiente per trasformare quello che per natura è un incarico a titolo oneroso in uno a titolo gratuito.
Il legame che si instaura tra amministratore e società ha natura peculiare, è cioè un rapporto societario: non può pertanto essere un rapporto di lavoro (nemmeno parasubordinato). Dunque, è legittima l’ipotesi dell’amministratore di società senza busta paga.
La Cassazione ha affermato la legittimità sia dell’eventuale clausola statutaria che preveda la gratuità della carica sia dell’eventuale atto di rinuncia, espressa o tacita, al compenso. Tuttavia, prosegue la Suprema Corte, affinché si possa parlare di un atto di rinuncia tacita al proprio compenso è necessario che l’amministratore compia un comportamento concludente, tale cioè che riveli, in modo univoco, l’effettiva e definitiva volontà di rinunciare al proprio diritto.
Pertanto, il semplice silenzio o l’inerzia dell’amministratore, anche se prolungata, non possono essere interpretati come manifestazione (tacita) della volontà abdicativa, anche perché la rinuncia non può essere oggetto di mere presunzioni.
C’è tuttavia da tenere conto della prescrizione: il diritto al compenso per le attività pagate con cadenza annuale o inferiore all’anno (ad esempio mensile, bimestrale, trimestrale, semestrale) si prescrive in 5 anni. Dunque, il fatto che l’amministratore non abbia richiesto il proprio compenso gli consente solo di recuperare le somme dell’ultimo quinquennio e non oltre.
In conclusione, la rinuncia al compenso da parte dell’amministratore può certamente essere integrata da un comportamento concludente che riveli in modo univoco la volontà dismissiva, non essendo tuttavia sufficiente la mera inerzia o il silenzio. Per accertare l’avvenuta rinuncia è pertanto necessario desumere l’atto abdicativo non dalla semplice mancata richiesta dell’emolumento, ma da ulteriori circostanze di fatto che conferiscano un preciso significato negoziale al contegno tenuto.