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Regalare fiori: quando è stalking?

24 Novembre 2021 | Autore:
Regalare fiori: quando è stalking?

Frasi d’amore, appostamenti e pedinamenti: in quali casi la persona oggetto di attenzioni non gradite può sporgere querela per atti persecutori?

A volte si commette reato anche senza volerlo o senza rendersene conto. È quanto succede a chi non si rassegna alla fine di una relazione e tenta in tutti i modi di riallacciare i rapporti, oppure a chi non si arrende davanti a un rifiuto e insiste pur di raggiungere l’obiettivo desiderato. Ebbene, una condotta eccessivamente ostinata, financo assillante, rischia di tramutarsi in un reato vero e proprio. Con questo articolo vedremo quando regalare fiori è stalking.

Secondo una recente sentenza della Corte di Cassazione, commette il reato di atti persecutori (cioè, di stalking) l’uomo che non desiste dal corteggiare una donna nonostante costei gli abbia fatto capire di non gradire le sue attenzioni. Appostamenti, regali e frasi d’amore possono dunque valere una condanna per stalking. Vediamo in quali casi.

Quando c’è stalking?

Secondo la legge, c’è stalking tutte le volte in cui una persona molesta o minaccia ripetutamente un’altra, così da provocarle un perdurante stato di ansia, timore per la propria incolumità o per quella dei suoi familiari ovvero da costringerla a modificare le proprie abitudini di vita [1].

Così descritto, lo stalking sembrerebbe non c’entrare nulla con rose, corteggiamenti e frasi d’amore; invece non è così. Prosegui nella lettura per sapere quando regalare fiori è stalking.

Stalking: caratteristiche del reato

Per aversi stalking non è necessario usare la violenza o le minacce: come visto nel precedente paragrafo, è sufficiente una condotta molesta, cioè non gradita dalla vittima, purché:

  • sia ripetuta nel tempo, almeno due volte;
  • provochi concretamente una delle conseguenze stabilite dalla legge, cioè lo stato d’ansia, il timore per l’incolumità oppure il cambiamento obbligato delle proprie abitudini di vita.

Secondo la giurisprudenza [2], per la sussistenza del reato di stalking è sufficiente che gli atti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, non essendo richiesto che il turbamento così determinato integri gli estremi dello stato patologico.

Dunque, secondo i giudici, il grave turbamento cagionato alla vittima non deve necessariamente sfociare in una malattia vera e propria; la vittima non deve perciò fornire prova dei medicinali che sta assumendo per curarsi oppure della certificazione medica che provi il danno alla salute.

Regali e corteggiamento: quando è stalking?

Secondo una recente sentenza della Suprema Corte [3], appostamenti, regali e frasi d’amore rivolti a una persona che ha chiaramente manifestato di non gradire la presenza ossessiva del corteggiatore garantiscono una condanna per stalking.

Nel caso di specie, la vittima aveva fornito i dettagli dell’assillante comportamento dell’uomo, ponendo in evidenza non solo i regali a lei sgraditi e le frasi d’amore, ma anche gli appostamenti e i pedinamenti subiti, sino all’obbligato cambio di numero dell’utenza cellulare.

Regalare fiori: quando è stalking?

La sentenza appena richiamata si pone nel solco della precedente giurisprudenza: già in passato, infatti, la Corte di Cassazione [4] aveva stabilito che anche regalare fiori può essere molesto, se si tratta di gesto chiaramente non gradito dal destinatario e inserito all’interno di una cornice fatta di altre condotte sgradevoli e insistenti, come ad esempio lettere, messaggi, telefonate e appostamenti.

Stalking: come tutelarsi?

La vittima di stalking può tutelarsi sporgendo immediatamente querela alle forze dell’ordine (carabinieri, polizia, ecc.). Per questo tipo di reato la legge prevede una particolare procedura d’urgenza denominata codice rosso.

Ricevuta la denuncia/querela, la polizia deve immediatamente comunicare la notizia di reato alla Procura competente, anche oralmente (ad esempio, con una telefonata).

Il magistrato del pubblico ministero, ricevuta la querela dalla polizia giudiziaria, ha tre giorni di tempo per assumere informazioni direttamente dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di reato.

Così facendo, il pm potrà valutare fin da subito se sussistono gli estremi per chiedere al giudice l’emissione di una misura cautelare (tipo l’allontanamento da casa o il divieto di avvicinamento, di cui parleremo tra un istante).

Divieto di avvicinamento alla vittima: cos’è?

La misura cautelare più efficace per tutelare la vittima di stalking è sicuramente il divieto di avvicinamento. Con questo provvedimento il giudice proibisce all’autore del reato di avvicinarsi alla persona perseguitata, stabilendo anche la distanza minima da osservare (ad esempio, 400 o 500 metri).

Il giudice potrebbe inoltre stabilire il divieto di avvicinamento a determinati luoghi frequentati dalla vittima. Ad esempio, è possibile ordinare allo stalker di tenersi lontano dal luogo di lavoro della persona offesa.


note

[1] Art. 612-bis cod. pen.

[2] Cass., sent. n. 8832 del 7 marzo 2011.

[3] Cass., sent. n. 42659 del 22 novembre 2021.

[4] Cass., sent. n. 18559/2016.

Cass. pen., sez. V, ud. 17 settembre 2021 (dep. 22 novembre 2021), n. 42659

Presidente Pezzullo – Relatore De Marzo

Ritenuto in fatto

Con sentenza del 30/10/2019 la Corte d’appello di Bari, nel confermare la decisione di primo grado, che aveva ritenuto sussistente la responsabilità di A.M. in relazione al reato di atti persecutori, ha rideterminato la pena in senso migliorativo per l’imputato. 2. Nell’interesse dell’imputato viene proposto ricorso per cassazione affidato ai seguenti motivi. 2.1. Con il primo motivo si lamentano vizi motivazionali e violazione di legge, in relazione alla ritenuta sussistenza del delitto di cui all’art. 612 bis c.p., anziché della contravvenzione di cui all’art. 660 c.p.. Si rileva: a) che lo stesso giudice di appello, nel riconoscere la mancanza di prova dell’evento di danno richiesto dalla fattispecie incriminatrice contestata, era stato costretto a valorizzare vicende oggetto di un distinto procedimento; b) che l’imputato aveva solo tentato di riavvicinarsi alla persona offesa, senza mai porre in essere atti persecutori o minacciosi; c) che le condotte meramente petulanti dell’imputato, contenute in un circoscritto arco temporale, non avevano provocato alcun perdurante e grave stato di ansia nè avevano in alcun modo leso la capacità della vittima di autodeterminarsi. 2.2. Con il secondo motivo si lamentano vizi motivazionali e violazione di legge, censurando l’assenza di un vaglio rafforzato dell’attendibilità della parte civile, costituente l’unica fonte di prova posta a base della decisione, con particolare riguardo all’accertamento degli effetti prodotti dalle condotte sulla persona offesa. 2.3. Con il terzo motivo si lamentano vizi motivazionali in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, contraddittoriamente negate nonostante la disposta riduzione della pena, in dipendenza della brevità del periodo nel quale si erano realizzate condotte di obiettiva contenuta gravità.

Considerato in diritto

  1. Il primo motivo è inammissibile per assenza di specificità e manifesta infondatezza. Sotto il primo profilo va ribadito che la mancanza di specificità del motivo deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio indicato, conducente, a mente dell’art. 591 c.p.p., comma 1 lett. c), all’inammissibilità (Sez. 4, 29/03/2000, n. 5191, Barone, Rv. 216473; Sez. 1, 30/09/2004, n. 39598, Burzotta, Rv. 230634; Sez. 4, 03/07/2007, n. 34270, Scicchitano, Rv. 236945; Sez. 3, 06/07/2007, n. 35492, Tasca, Rv. 237596). Ora, il ricorso, insistendo in termini manifestamente infondati sull’assenza di comportamenti minacciosi (ossia, trascurando l’autonoma e alternativa rilevanza, nel quadro della fattispecie incriminatrice della quale si discute, delle molestie), trascura del tutto l’apparato motivazionale, che ha sottolineato l’escalation delle condotte – tanto più significativa in quanto manifestatasi in un breve arco temporale -, con un grado crescente di invasione della sfera psichica della vittima. Soprattutto, l’impugnazione dimentica che il comportamento dell’imputato non si è limitato a frasi d’amore o a regali (in ogni caso, indesiderati), ma ha compreso appostamenti e un insistente seguire la persona offesa nei luoghi nei quali ella si doveva recare. Proprio il carattere sempre più assillante delle condotte è il profilo che la Corte territoriale ha razionalmente interpretato – per coglierne gli effetti gravemente destabilizzanti sulla vittima – anche alla luce delle precedenti condotte persecutorie, la cui sussistenza è solo genericamente contestata dal ricorso attraverso il richiamo alla pendenza dell’appello – in vista dell’accertamento dell’evento di danno. Quanto poi alla rilevanza – come significativo mutamento di abitudini – del cambio del numero dell’utenza cellulare, le affermazioni del ricorrente sono del tutto assertive nel proporre la tesi della spontanea comunicazione da parte della donna. Del tutto infondata è poi la critica che sottolinea l’assenza di un certificato medico, dal momento che, ai fini della integrazione del reato di atti persecutori, non si richiede l’accertamento di uno stato patologico ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612 bis c.p., non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 c.p.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica (Sez. 5, n. 18646 del 17/02/2017, Rv. 270020 – 01). Proprio la dimostrata esistenza dell’evento di danno giustifica la conclusione circa l’impossibilità di qualificare le condotte poste in essere dall’imputato nei termini auspicati in ricorso. 2. Il secondo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza e assenza di specificità. Al riguardo, deve ribadirsi che le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214). In ogni caso, la verifica attraverso indici esterni delle dichiarazioni della persona offesa non si deve tradurre nell’individuazione di prove dotate di autonoma efficacia dimostrativa, dal momento che ciò comporterebbe la vanificazione della rilevanza probatoria delle prime. Per questa ragione, razionalmente la Corte territoriale ha valorizzato anche le dichiarazioni della teste M. e un’annotazione dei carabinieri, pur essendo sufficiente considerare la linearità delle dichiarazioni della persona offesa. 3. Il terzo motivo è inammissibile poiché la scelta di ridurre la pena non comporta alcun automatismo nel riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Secondo il risalente e consolidato orientamento di questa Corte, la ragion d’essere dell’art. 62 bis c.p., è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile; ne discende che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza. Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio (Sez. 1, n. 46568 del 18/05/2017, Lamin, Rv. 2713150; Sez. 2, n. 38383 del 10/07/2009, Squillace, Rv. 245241; Sez. 1, n. 3529 del 22/09/1993, Stelitano, Rv. 195339). Ne discende che, già su un piano generale – in disparte la questione dei limiti di sindacabilità dell’apprezzamento discrezionale del giudice di merito -, è del tutto aspecifico un atto di impugnazione che non indichi elementi positivi di valutazione o si limiti a riproporre dati già posti a base della riduzione del trattamento sanzionatorio. 4. Alla pronuncia di inammissibilità consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, in ragione delle questioni dedotte, appare equo determinare in Euro 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. In caso di diffusione del presente provvedimento, si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52. Motivazione Semplificata.


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