Articolo 30 Costituzione: spiegazione e commento


Cosa dice e cosa significa l’art. 30 sul diritto e dovere dei genitori di mantenere, educare e istruire i figli.
È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio.
Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti.
La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima.
La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità.
Indice
Il diritto-dovere di fare i genitori
L’articolo 30 della Costituzione esordisce con un principio di forte impatto: «È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio». Da questa affermazione derivano una serie di conseguenze.
Per il nostro ordinamento avere un figlio è un diritto di ciascuno. Tant’è che la legge pone i cittadini nelle condizioni di formarsi una famiglia, sia attraverso l’assistenza medica che economica (si pensi ai sostegni per le famiglie che vogliono ricorrere alla fecondazione assistita e ai bonus fiscali per i figli a carico). Ma da questo diritto discende anche il dovere di farsene poi carico e di mantenerli fino all’indipendenza economica: indipendenza che non coincide necessariamente con la maggiore età. I genitori non possono sbattere fuori di casa i figli se questi sono minorenni o, se maggiorenni, non ancora autosufficienti. Né possono negare loro i soldi per studiare o per mantenere una normale vita di relazione con i propri coetanei: il tutto in proporzione alle possibilità reddituali del padre e della madre. Tanto più questi sono facoltosi, tanto più agiata deve essere la vita del figlio. Non si può tenere il bambino in ristrettezze solo per “fortificarne l’animo” se i genitori, nel contempo, mantengono un tenore di vita elevato.
Il diritto del figlio ad essere mantenuto non dura però in eterno: anche lui deve fare la propria parte, studiando e, al termine della formazione post-scolastica, cercando di raggiungere una propria indipendenza economica attraverso la ricerca di un lavoro. Il figlio perde il mantenimento dei genitori non solo quando non vuol studiare o bighelloneggia all’università, senza dare esami o ritardando in modo inaccettabile i tempi della laurea, ma anche quando, completato il percorso formativo, non si dà da fare per trovare un’occupazione.
Al crescere dell’età, sostiene la Cassazione, si può presumere che lo stato di disoccupazione dipenda da una condizione di inerzia del giovane e non dalla crisi del mercato occupazionale. Anche perché, seppur è corretto che i figli debbano seguire le proprie aspirazioni, ogni ambizione deve comunque contemperarsi con il particolare momento storico ed economico in cui viviamo. Pertanto, una volta raggiunti i 30/35 anni, al di là del percorso formativo prescelto dal giovane, si stacca definitivamente il cordone ombelicale con i genitori e ci si deve mantenere da soli.
«Essere genitori» è quindi un diritto, ma «fare i genitori» è anche un dovere. Un dovere a cui non ci si può sottrarre neanche con il consenso dell’altro genitore, visto che il titolare del correlato diritto è solo il figlio. Se una donna dovesse accordare al compagno la possibilità di scappare pur dinanzi alla nascita del proprio figlio, quest’ultimo un giorno – anche al raggiungimento della maggiore età – potrebbe agire contro il padre affinché lo riconosca e lo risarcisca. Lo risarcisca sia dei danni patrimoniali sofferti (ossia l’aver vissuto con i soli redditi della madre), sia dei danni morali (per essere cresciuto senza la figura affettiva paterna).
Di qui un’importante conseguenza: esiste, in capo ai genitori, un vero e proprio dovere di voler bene ai figli. Padre e madre non possono solo preoccuparsi di dare ai propri bambini di che vivere, studiare e crescere. Devono anche partecipare alla loro vita quotidiana, garantire loro l’affetto che necessitano, rispettarli, aiutarli materialmente.
Il dovere dei genitori si estende anche in termini di responsabilità. Difatti i genitori, seppur non rispondono dei reati commessi dai figli, siano essi maggiorenni o minorenni (in forza del principio della responsabilità penale personale (sancito dall’articolo 27 della Costituzione), sono comunque tenuti a risarcire i danni conseguenti alle loro azioni: dagli atti di bullismo alla pallonata contro un vetro. Proprio per questo alcuni giudici hanno ritenuto che, seppur la privacy dei minori va tutelata, il genitore che abbia il sospetto di una fonte di pericolo per il figlio o di eventuale commissione di reati, ha il potere di controllare il suo cellulare e le chat da questi intrattenute.
Questo dovere non si estende sino a privare il figlio di qualsiasi libertà: anche il diritto di correggere ed educare trova un limite nel rispetto della personalità del figlio, pena la commissione di reati come quello di «abuso dei mezzi di correzione» (si pensi ad un forte schiaffo, ad un pugno o a una padellata in testa) o di «maltrattamenti in famiglia» (le reiterate vessazioni e mortificazioni, le punizioni corporali esagerate, le limitazioni della libertà di movimento). Ciò significa che i genitori non possono arrivare a comprimere la libera formazione e lo sviluppo della personalità dei giovani.
I diritti dei figli in caso di separazione e divorzio dei genitori
I doveri dei genitori non vengono meno in caso di separazione o divorzio. Tant’è che, in tali casi, è loro obbligo mantenere solidi legami con i figli. La legge riconosce infatti ai minori il cosiddetto diritto alla bigenitoritalità, ossia a vivere sia con il padre che con la madre, compatibilmente con la collocazione prevalente presso la dimora di uno dei due. Il genitore che impedisce all’altro di vedere il figlio può essere sanzionato dal giudice e, nei casi più gravi, perdere la collocazione e l’affidamento del minore.
Stessa parità riguarda l’aspetto economico. Entrambi i genitori devono provvedere al mantenimento del figlio finché questi non è autonomo. Il giudice pone così a carico del genitore che non vive con il figlio un assegno che copre solo parzialmente le esigenze di quest’ultimo dovendo per il resto provvedere l’altro genitore. Il tutto in proporzione alle rispettive capacità reddituali.
Le scelte sull’educazione dei figli spettano solo ai genitori
La prima parte dell’articolo 30 della Costituzione stabilisce che è anche «diritto» dei genitori – oltreché dovere – istruire ed educare i figli. Lo Stato quindi non può entrare nelle scelte formative della prole (scelte ideali, morali, politiche, religiose, ecc.) che competono esclusivamente al padre e alla madre.
Tant’è che, in caso di contrasto tra i genitori, ciascuno dei due può ricorrere al giudice affinché, senza adottare una propria decisione (terza e ulteriore rispetto a quelle prospettategli), si limiti ad indicare quale delle volontà contrapposte sia la più conforme agli interessi del minore. Si pensi al caso di un genitore che, in quanto Testimone di Geova, non voglia sottoporre il figlio alla trasfusione di sangue: in casi del genere i giudici hanno sempre favorito la decisione contraria, propugnata dall’altro genitore, nell’interesse del diritto alla salute del minore. Ed è sempre a tutela della salute che, tra un genitore no-vax e un altro favorevole al vaccino, le aule dei tribunali ne hanno quasi sempre autorizzato la somministrazione.
L’adozione dei figli
Qualora il tribunale dovesse ritenere i genitori incapaci di svolgere il proprio ruolo (ad esempio, per alcolismo, tossicodipendenza, prostituzione sistematica, trascuratezza, violenze e vessazioni), possono essere adottati provvedimenti per allontanare i figli minori dall’ambiente familiare. Per i casi più gravi, ossia quelli di abbandono dei figli, è previsto l’affidamento dei minori a coppie estranee, in via provvisoria o definitiva (con la cosiddetta adozione speciale).
L’intervento dello Stato costituisce comunque l’extrema ratio per evitare la pronuncia di decadenza dalla protesta genitoriale.
Tutti i figli sono “piezz’e core”
L’articolo 30 della Costituzione sancisce la parità di diritti tra figli nati dentro e fuori dal matrimonio, quelli che un tempo si chiamavano rispettivamente figli legittimi (quelli cioè nati da una coppia sposata) e figli naturali (quelli nati da persone non sposate o frutto di tradimenti). Ad essi sono ormai equiparati anche i figli incestuosi, quelli cioè nati dall’unione di parenti o affini. Non sono ammesse discriminazioni neanche in sede di testamento: tanto i figli nati da un’unione di fatto che da un matrimonio hanno pari diritti sull’eredità del genitore.
In forza di tale equiparazione, il padre ha sempre l’obbligo di riconoscere il figlio nato fuori dal matrimonio.
Il padre che si rifiuti di riconoscere il figlio può essere citato in tribunale dalla madre del bambino e dal figlio stesso, una volta divenuto maggiorenne, affinché venga formalmente stabilita la paternità. Il che avviene tramite prove genetiche, ematologiche, ecc. Il metodo più comunemente richiesto è il test del Dna, il cui risultato è difficilmente contestabile.
Il rifiuto ingiustificato a sottoporsi alle analisi del sangue e al test del Dna è suscettibile, secondo la Cassazione, di essere valutato come ammissione di paternità. Quindi, sia che il test del Dna dia esito positivo, sia che il padre non voglia sottoporvisi, senza una valida ragione, il risultato è lo stesso: l’accertamento giudiziale della paternità.
Se l’uomo risultasse essere il padre del bambino, sarebbe tenuto a pagare tutti gli alimenti al figlio mai pagati alla madre, dal giorno della nascita fino a quello della sua definitiva indipendenza economica.
Se al padre però non è consentito rifiutare il riconoscimento del figlio, alla madre è invece consentito partorire in anonimato e abbandonare il figlio in ospedale, affidandolo alle cure dei medici che hanno assistito al parto. Questa apparente discriminazione si giustifica per tutelare il diritto alla vita del figlio: difatti, avendo la madre il diritto di abortire, se non le fosse data questa opportunità, potrebbe essere tentata all’interruzione volontaria della gravidanza.