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Cane mal custodito: è reato?

18 Gennaio 2022 | Autore:
Cane mal custodito: è reato?

Quando sussiste il delitto di maltrattamenti a carico del proprietario che tiene gli animali in condizioni inadeguate e provoca loro sofferenze.

I cani, come gli altri animali domestici, sono esseri senzienti: soffrono quando i loro bisogni primari non vengono soddisfatti. Tra queste necessità, come tutti i padroni coscienziosi sanno, c’è non solo il nutrimento fisico ma anche quello affettivo. È un benessere psicofisico che va garantito costantemente: servono cibo, spazio, cure e tempo da dedicare al proprio amico a quattro zampe. Chi tiene un animale domestico ha la responsabilità di custodirlo in modo adeguato. Purtroppo, però sono frequenti le incurie, gli abbandoni e i maltrattamenti, e allora esaminiamo le cose da questa prospettiva, verificando cosa succede quando la situazione dell’animale non è quella ideale: tenere un cane mal custodito è reato?

Il padrone deve sempre provvedere alle esigenze dell’animale, fornendogli l’adeguata dose di acqua e cibo, garantendogli uno spazio abitativo sufficiente e la possibilità di frequente movimento all’aria aperta. Se non lo fa incorre in una precisa responsabilità penale: esiste, infatti, il reato di maltrattamento di animali, che si configura in molte situazioni concrete. A seconda dei casi, può essere una catena troppo corta, uno spazio troppo ristretto o condiviso con molti altri cani, la mancanza di una cuccia, le cattive condizioni igieniche e molto altro ancora.

Non occorre essere specialisti di diritto per capire cosa può provocare sofferenza ai cani, e dunque per intuire quali sono i comportamenti vietati; ma quello che conta è che, per configurare il reato di maltrattamenti, non è necessaria la volontà di arrecargli dolore, perché basta la colpa e non è necessario il dolo: lo ha chiarito una nuova sentenza della Cassazione [1]. Esaminiamo nel dettaglio i casi in cui custodire male un cane, cioè in modo inappropriato alle sue esigenze, è un reato e quali sono le conseguenze sanzionatorie a carico di chi trasgredisce le norme di comportamento e di condotta che sono essenziali al benessere dell’animale.

Il reato di maltrattamento di animali

L’art. 544 ter del Codice penale è dedicato al reato di maltrattamento di animali. Questa norma incriminatrice punisce «chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche». Il reato esiste dal 2004, ma nel 2012 la pena è stata inasprita: ai trasgressori ora si applica, alternativamente, la reclusione da tre mesi a un anno o la multa da 3.000 a 15.000 euro.

Il reato è perseguibile d’ufficio e perciò può essere denunciato da chiunque venga a conoscenza dei fatti, anche da un vicino o da un’associazione di tutela degli animali. Il cane vittima di maltrattamenti potrà essere sequestrato dalla polizia giudiziaria, in modo da toglierlo alla disponibilità del proprietario. Per la prova del comportamento illecito tenuto dal padrone leggi “Maltrattamento animali: come dimostrare?“.

Cane mal custodito: è reato di maltrattamenti?

L’ultima sentenza della Corte di Cassazione intervenuta sul tema [1] ha ravvisato il reato di maltrattamenti di animali a carico di un uomo che aveva tenuto dieci cani in condizioni pessime e – come ha affermato il Collegio – «non compatibili con la loro natura» e per questo «produttive di gravi sofferenze» .

Al momento dell’intervento delle guardie zoofile e della polizia giudiziaria, è risultato che gli animali erano stati lasciati privi di acqua e di cibo; erano in cattive condizioni di salute, al punto che qualcuno non riusciva ad alzarsi in piedi e presentava visibili ferite; erano detenuti in modo precario, dentro scatoloni di legno o gabbiette; le urine e gli escrementi non venivano rimossi da tempo e quindi «si percepivano emissioni maleodoranti».

I giudici di piazza Cavour hanno respinto la tesi difensiva dell’imputato, secondo cui mancavano «la coscienza e volontà di maltrattare gli animali»: le loro evidenti e gravi sofferenze bastano ad integrare il reato, a prescindere dalle intenzioni dell’agente.

Con l’occasione la Suprema Corte ha richiamato alcuni precedenti in materia [2], specificando che: «assumono rilievo non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali per la loro manifesta crudeltà, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità psicofisica dell’animale, procurandogli dolore e afflizione». Puoi leggere la pronuncia per esteso nel box “sentenza” sotto questo articolo.

Cattiva custodia di cani: cosa si rischia?

Oltre al delitto di maltrattamento di animali che abbiamo esaminato, esiste anche un’altra fattispecie penale che si applica per le ipotesi più lievi che come tali non rientrano nella precedente, ma non possono essere lasciate prive di tutela giuridica. Si tratta del reato contravvenzionale di abbandono di animali, previsto e punito dall’art. 727 del Codice penale.

La condotta vietata è duplice e riguarda chiunque:

  • «abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività»;
  • «detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze»

La pena è, in entrambi i casi, l’arresto fino ad un anno o l’ammenda da 1.000 a 10.000 euro. Anche qui basta la colpa del proprietario o del custode nel lasciare il cane senza cure, e dunque in uno stato di abbandono e di incapacità di provvedere da solo a sé stesso. È decisiva la sofferenza arrecata all’animale dalla cattiva custodia, mentre l’ipotesi di abbandono è punita per la sola condotta posta in essere, senza necessità di indagare sulle conseguenze psicofisiche riportate dal cane abbandonato. Leggi anche: “Mancata cura del cane: cosa rischia il padrone?“.


note

[1] Cass. sent. n. 780 del 13.01.2022.

[2] Cass. sent. n. 46560 del 10.07.2015.

Cass. pen., sez. III, ud. 28 ottobre 2020 (dep. 13 gennaio 2022), n. 780
Presidente Aceto – Relatore Gai

Ritenuto in fatto

1. Con l’impugnata sentenza, il Tribunale di Bologna ha condannato R.A. , alla pena di Euro 2.000,00 di ammenda, in relazione al reato di cui all’art. 727 c.p., per avere detenuto n. 10 cani in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze. In (omissis) .
2. L’imputato ha presentato appello, a mezzo del difensore, con cui ha chiesto l’assoluzione per mancanza dell’elemento soggettivo del reato e per violazione di legge e vizio di motivazione sulla dosimetria della pena e sul diniego di concessione della sospensione condizionale della pena. Eccepisce la prescrizione del reato.
Il difensore, in data 22 ottobre 2021, ha depositato memoria scritta con cui ha insistito nella declaratoria di prescrizione del reato.

Considerato in diritto

3. Il ricorso, che proviene dalla Settima sezione non essendo stata rilevata una causa di inammissibilità, è fondato con riguardo al secondo motivo di ricorso e il suo accoglimento comporta il rilievo della causa estintiva della prescrizione maturata al (omissis) .
Trattandosi di condanna alla sola pena dell’ammenda e, quindi, di sentenza inappellabile (art. 593 c.p.p., comma 3), l’appello è stato qualificato come ricorso per cassazione e gli atti trasmessi a questa Corte ex art. 568 c.p.p., comma 5.
Ciò posto, occorre preliminarmente osservare che la giurisprudenza consolidata di questa Corte, che il Collegio condivide, ha chiaramente precisato che qualora un provvedimento giurisdizionale sia impugnato con un mezzo di gravame diverso da quello legislativamente stabilito, il giudice che riceve l’atto di gravame deve limitarsi, secondo quanto stabilito dall’art. 568 c.p.p., comma 5, alla verifica dell’oggettiva impugnabilità del provvedimento e dell’esistenza della volontà di impugnare, intesa come proposito di sottoporre l’atto impugnato a sindacato giurisdizionale e, conseguentemente, trasmettere gli atti al giudice competente, astenendosi dall’esame dei motivi al fine di verificare, in concreto, la possibilità della conversione (Sez. 5, n. 7403 del 26/09/2013, P.M. in proc. Bergantini, Rv. 259532; Sez. 1, n. 33782 del 8/4/2013, Arena, Rv. 257117; Sez. 5, n. 21581 del 28/4/2009, P.M. in proc. Mare, Rv. 243888; Sez. 3, n. 2469 del 30/11/2007, Catrini, Rv. 239247; Sez. 4, n. 5291 del 22/12/2003, Stanzani, Rv. 227092 ed altre prec. conf., tra cui Sez. U, n. 45371 del 31/10/2001, Bonaventura, Rv. 220221). Si è peraltro affermato che l’istituto della conversione della impugnazione, previsto dall’art. 568 c.p.p., comma 5, ispirato al principio di conservazione degli atti, determina unicamente l’automatico trasferimento del procedimento dinanzi al giudice competente in ordine alla impugnazione secondo le norme processuali e non comporta una deroga alle regole proprie del giudizio di impugnazione correttamente qualificato. Pertanto, l’atto convertito deve avere i requisiti di sostanza e forma stabiliti ai fini della impugnazione che avrebbe dovuto essere proposta (Sez. 1, n. 2846 del 8/4/1999, Annibaldi R, Rv. 213835. V. anche ex pi. Sez. 3, n. 26905 del 22/04/2004, Pellegrino, Rv. 228729; Sez. 4, n. 5291 del 22/12/2003 (dep.2004), Stanzani, Rv. 227092).
4. Nel caso in esame, dal nomen iuris attribuito all’atto di impugnazione, invero reiterato anche nelle richieste finali alla Corte di Appello, e dal contenuto del gravame, emerge che intenzione indiscutibile dell’interessato è stata appunto quella di proporre appello e non ricorso per cassazione, in quanto il tenore dei prospettati motivi di gravame concerne esclusivamente profili di merito (elemento soggettivo del reato ed eccessività della pena inflitta), insindacabili in sede di legittimità, sulla base dei quali viene fondata la richiesta di assoluzione in virtù di una rilettura del compendio probatorio posto a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale, ovvero una richiesta di riduzione della pena.
In ogni caso, la sentenza impugnata risulta congruamente argomentata anche in punto elemento soggettivo del reato, dedotto dal ricorrente, in ragione della brevità della detenzione degli animali in condizioni etologicamente incompatibili con la loro natura.
Il reato di cui all’art. 727 c.p. è integrato dalla detenzione degli animali con modalità tali da arrecare gravi sofferenze, incompatibili con la loro natura (Sez. 3, n. 6829 del 17/12/2014, Garnero, Rv. 262529).
Si è ripetutamente chiarito che la detenzione impropria di animali, produttiva di gravi sofferenze, va considerata, per le specie più note (quali, ad esempio, gli animali domestici), attingendo al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturali (Sez. 3, n. 37859 del 4/6/2014, Rainoldi e altro, Rv. 260184; Sez. 3, n. 6829 del 17/12/2014, Garnero, Rv. 262529), specificando che assumono rilievo non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali per la loro manifesta crudeltà, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità psicofisica dell’animale, procurandogli dolore e afflizione (Sez. 7, n. 46560 del 10/7/2015, Francescangeli e altro, Rv. 265267), prendendo in considerazioni situazioni quali, ad esempio, la privazione di cibo, acqua e luce (Sez. 6, n. 17677 del 22/3/2016, Borghesi, Rv. 267313) o il trasporto di bovini stipati in un furgone di piccole dimensioni e privo d’aria (Sez. 5, n. 15471 del 19/1/2018, PG. in proc. Galati e altro, Rv. 272851).
Il Tribunale di Bologna, nel richiamare le fonti di prova e la deposizione dei verbalizzanti, ha specificato che gli animali erano custoditi in modalità del tutto precarie e idonee ad infliggere gratuite sofferenze: un cane non riusciva ad alzarsi in piedi, alcuni erano rinchiusi all’interno di uno scatolone in legno, altri erano rinchiusi in gabbiette e alcuni liberi; non era stata rilevata la presenza di cibo e le ciotole dell’acqua erano vuote; taluni animali presentavano ferite; sul posto si percepivano emissioni maleodoranti (per la presenza di urine ed escrementi).
La detenzione degli animali nelle descritte condizioni deve, dunque, ritenersi certamente incompatibile con la loro natura e produttiva di gravi sofferenze, indipendentemente dalla rilevata mancanza della coscienza e volontà di maltrattare gli animali, avuto riguardo alla natura colposa del reato in esame.
4. Viceversa, è fondato il profilo del vizio di motivazione in relazione al diniego di concessione del beneficio di cui all’art. 163 c.p. escluso dal giudice del merito che ritiene che “probabilmente” l’imputato non si asterrà dalla commissione di altri reati. Si tratta di motivazione non congrua sul giudizio negativo di astensione dalla commissione di altri reati.
Il rilevamento in sede di legittimità della sopravvenuta prescrizione del reato unitamente ad un vizio di motivazione della sentenza di condanna impugnata comporta l’annullamento senza rinvio della sentenza stessa (Sez. 3, n. 23259 del 29/04/2015, Richichi, Rv. 263649 01; Sez. 4, n. 29627 del 21/04/2016, Silva, Rv. 267844; Sez. 2, n. 32577 del 27/04/2010, Preti, Rv. 247973).

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il reato è estinto per prescrizione.


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