Violenza sessuale: basta la testimonianza della vittima


Per la prova della colpevolezza basta la dichiarazione di chi ha subito il reato sessuale previo vaglio di attendibilità da parte del giudice.
In tema di reati sessuali, quando i soli protagonisti della vicenda sono il violentatore e la vittima e non c’è nessun altro testimone a vedere l’episodio, la testimonianza della persona offesa – sebbene abbia minor valore di quella di un terzo estraneo – può essere sufficiente, anche da sola, come prova della colpevolezza. Le dichiarazioni della vittima, però, non possono essere assunte dal giudice in modo “puro e semplice”, ma vanno sempre sottoposte a un’indagine circa la credibilità di chi l’ha resa. Infatti, il più delle volte l’accertamento del reato dipende dalla valutazione del contrasto delle opposte versioni: quella dell’imputato da un lato e quella della vittima dall’altro.
La testimonianza della persona offesa
La testimonianza della persona offesa, perché possa essere legittimamente utilizzata come ricostruzione del crimine, non necessita di altri elementi di prova, cosicché potrebbe essere da sola sufficiente. E ciò per l’ovvia considerazione secondo cui, altrimenti, tutta una serie di reati che si consumano di norma “a tu per tu” (la violenza sessuale, la concussione, ecc.) non verrebbero altrimenti mai puniti.
Al pari di qualsiasi altra testimonianza, anche quella della vittima si presume vera: il che vuol dire che il giudice, pur essendo tenuto a valutare criticamente le affermazioni a lui rese, verificandone l’attendibilità, non può ritenere, senza darne giustificazioni, che il teste riferisca scientemente il falso [2].
È necessario, comunque, che il magistrato verifichi l’attendibilità della vittima, per accertarsi se questa dice il vero o sta mentendo [3]: analisi che potrà fare mettendo a confronto i fatti che essa sostiene con le eventuali documentazioni mediche e le dichiarazioni dell’imputato.
note
[1] Cass. sent. n. 37840/14 del 16.09.2014. Cfr. anche Cass., sent. n. 44644/11.
[2] Cass., Sez. IV, n. 6777/13.
[3] Cass., SS.UU., sent. n. 41461/12.
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