Corte di Cassazione Sezione Lavoro Civile Sentenza 26 aprile 2022 n. 13063
Data udienza 2 febbraio 2022
Integrale
Licenziamento – Dipendente assente per malattia – Assenza alla visita di controllo – Omessa comunicazione di cambio di domicilio – Sanzione conservativa per il dipendente
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAIMONDI Guido – Presidente
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere
Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere
Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere
Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 19115-2019 proposto da:
(OMISSIS), in persona del legale PU rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 834/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 15/04/2019 R.G.N. 1444/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/02/2022 dal Consigliere Dott. AMENDOLA FABRIZIO;
il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA’ STEFANO visto il Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137, articolo 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 15 aprile 2019, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, in riforma della pronuncia di primo grado, ha annullato il licenziamento per giusta causa intimato il 16.2.2018 a (OMISSIS) dalla (OMISSIS), condannando la stessa alle conseguenze sanzionatorie previste dalla L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 4, e successive modif. e integrazioni.
2. In sintesi, la Corte ha, innanzitutto, ritenuto che “l’asserita simulazione della malattia da parte di (OMISSIS)” fosse stata smentita dalla “documentazione medica” prodotta dal medesimo; quanto, poi, all’addebito della Fondazione secondo cui le condotte contestate avrebbero “comunque pregiudicato e rallentato la guarigione del lavoratore”, la Corte ha considerato come di cio’ fosse il datore di lavoro ad essere onerato della prova e che, “ad avviso del Collegio, non appare sufficiente il riferimento alle condotte cosi’ come contestate e documentate dalle foto e dai video tratti da Facebook”, trattandosi di video e foto inerenti ad attivita’ extralavorativa che “non appare di per se’ incompatibile o in grado di aggravare lo stato patologico del (OMISSIS)”; quanto all’ulteriore addebito mosso dalla Fondazione, in base al quale il (OMISSIS) non sarebbe stato reperibile in plurime occasioni all’eventuale visita di controllo, la Corte ha premesso che la contestazione era da intendere non quale “assenza alle visite di controllo” bensi’ come “mancata comunicazione del diverso domicilio”, accertando poi che si erano verificati 8 episodi di mancata comunicazione del domicilio ai fini dell’eventuale visita di controllo; tuttavia la Corte territoriale ha osservato “come il CCNL del settore preveda (articolo 40, lettera n), una mera sanzione conservativa per la piu’ grave ipotesi di assenza alla visita domiciliare” ed il licenziamento per giusta causa solo allorche’ “i fatti siano particolarmente gravi ovvero il lavoratore risulti recidivo in qualunque mancanza quando siano stati comminati due provvedimenti di sospensione disciplinare nell’arco di un anno dall’applicazione della prima sanzione” (lettera c)”; ha quindi argomentato: “tale disciplina sanzionatoria e’ prevista dal CCNL del settore per l’ipotesi piu’ grave della “assenza alla visita di controllo’ e pur volendo applicarla, in considerazione dell’elencazione non esaustiva ed esemplificativa dell’articolo 40 (cfr. ultimo comma) all’ipotesi meno grave di “mancata comunicazione del domicilio’, deve allora concludersi che, secondo le previsioni della contrattazione collettiva, si impone nella fattispecie l’applicazione di una mera sanzione conservativa”.
3. Alla stregua di tali considerazioni, la Corte di Appello ha annullato il licenziamento e condannato la Fondazione a reintegrare il lavoratore e a corrispondere una indennita’ risarcitoria commisurata a 12 mensilita’ dell’ultima retribuzione globale di fatto, dedotto quanto percepito aliunde, oltre al pagamento dei contributi assistenziali e previdenziali.
4. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la soccombente con 10 motivi; ha resistito con controricorso l’intimato, eccependo preliminarmente la radicale inammissibilita’ del ricorso avverso in quanto “notificato al sottoscritto difensore per il tramite della sua PEC” e non presso il domicilio eletto a Milano.
5. In prossimita’ dell’udienza pubblica del 2 febbraio 2022 il P.G. ha comunicato, ai sensi del Decreto Legge n. 137 del 2020, articolo 23, comma 8 bis, inserito nella L. di conv. n. 176 del 2020, le sue conclusioni per l’accoglimento parziale del ricorso, in relazione alle censure contenute nel decimo motivo, respinti i restanti.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Pregiudizialmente deve essere respinta l’eccezione di inammissibilita’ del ricorso per cassazione sollevata dal controricorrente, sull’assunto che l’atto sarebbe stato notificato tramite PEC piuttosto che presso il domicilio eletto a Milano.
Invero, in materia di notificazioni al difensore, in seguito all’introduzione del “domicilio digitale”, previsto dal Decreto Legge n. 179 del 2012, articolo 16 sexies, conv. con modif. dalla L. n. 221 del 2012, come modificato dal Decreto Legge n. 90 del 2014, conv. con modif. dalla L. n. 114 del 2014, e’ valida la notificazione al difensore eseguita presso l’indirizzo PEC risultante dall’albo professionale di appartenenza, in quanto corrispondente a quello inserito nel pubblico elenco di cui al Decreto Legislativo n. 82 del 2005, articolo 6 bis, atteso che il difensore e’ obbligato, ai sensi di quest’ultima disposizione, a darne comunicazione al proprio ordine e quest’ultimo e’ obbligato ad inserirlo sia nei registri INI PEC, sia nel ReGindE, di cui al Decreto Ministeriale 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della Giustizia (v. Cass. SS.UU. n. 23620 del 2018; specificamente per le impugnazioni v. Cass. n. 13224 del 2018; tra altre, Cass. n. 33806 del 2021).
2. Con il primo motivo si denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 116 c.p.c. e dell’articolo 2697 c.c., nonche’ omesso esame di un fatto decisivo ai fini del giudizio oggetto di discussione tra le parti, criticando la sentenza impugnata per aver ritenuto che la contestata simulazione della malattia fosse smentita dalla documentazione medica prodotta dal reclamante.
Il motivo e’ inammissibile, atteso che la valutazione in ordine alla sussistenza o meno della malattia nella concretezza della vicenda storica, sulla base del compendio probatorio, costituisce chiaramente un accertamento di fatto che non puo’ essere riesaminato in questa sede di legittimita’, tanto piu’ con l’invocazione del vizio di cui all’articolo 360 c.p.c., n. 5 senza il rispetto degli enunciati posti da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014, ovvero con l’improprio riferimento all’articolo 116 c.p.c. e all’articolo 2697 c.c.
La violazione dell’articolo 2697 c.c. e’, infatti, censurabile per cassazione ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), mentre nella specie parte ricorrente critica l’apprezzamento operato dai giudici del merito circa l’esistenza della malattia, opponendo una diversa valutazione.
Per l’altro aspetto, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli articoli 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimita’, sicche’ la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme, bensi’ un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei ristretti limiti consentiti dall’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (tra le altre v. Cass. n. 23940 del 2017).
Come di recente ribadito dalle Sezioni unite di questa Corte (cfr. Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020), per dedurre la violazione dell’articolo 115 c.p.c. e’ necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioe’ abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioe’ dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioe’ giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (mentre detta violazione non si puo’ ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre). Parimenti la pronuncia rammenta che la violazione dell’articolo 116 c.p.c. e’ riscontrabile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonche’, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento.
Nella specie la doglianza si pone al di fuori delle ipotesi indicate ed e’ chiaramente volta a fornire una lettura diversa delle risultanze istruttorie.
3. Per le stesse ragioni e’ inammissibile il secondo mezzo di gravame, con cui si denuncia ancora la violazione e falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. e dell’articolo 2697 c.c., oltre che degli articoli 2110 e 2119 c.c., lamentando che la Corte territoriale abbia ritenuto provata l’incompatibilita’ tra l’asserito stato morboso e le mansioni di manutentore elettrico, senza verificarne l’incapacita’ totale al lavoro.
Non vi e’ dubbio, infatti, che il ritenere la prova della sussistenza di uno stato patologico che precludesse al (OMISSIS) la prestazione lavorativa di manutentore elettrico costituisce, inevitabilmente, una questione di merito, il cui apprezzamento esorbita dai poteri di controllo di questa Corte.
4. Col terzo motivo si denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c. per avere la Corte di Appello ritenuto che sul datore di lavoro gravasse la prova che la condotta del lavoratore compromettesse o ritardasse la ripresa dell’attivita’ lavorativa.
A sostegno della tesi secondo cui, invece, graverebbe sul lavoratore tale onere probatorio si richiamano taluni precedenti di legittimita’ (Cass. n. 3647 del 1999; Cass. n. 17625 del 2014; Cass. n. 26841 del 2017).
La censura non puo’ trovare accoglimento.
4.1. In materia di licenziamento disciplinare intimato per lo svolgimento di altra attivita’ – lavorativa ma anche extralavorativa – durante l’assenza per malattia del dipendente, taluni principi espressi da questa Corte possono dirsi consolidati.
A partire dalla risalente affermazione che non sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente di prestare altra attivita’, anche a favore di terzi, in costanza di assenza per malattia, sicche’ cio’ non costituisce, di per se’, inadempimento degli obblighi imposti al prestatore d’opera (ab imo, Cass. n. 2244 del 1976, con un postulato mai smentito dalla giurisprudenza successiva; tra molte: Cass. n. 1361 del 1981; Cass. n. 2585 del 1987; Cass. n. 381 del 1988; Cass. n. 5833 del 1994; Cass. n. 15621 del 2001; piu’ di recente, v. Cass. n. 6047 del 2018, la quale osserva che il lavoratore assente per malattia “non per questo deve astenersi da ogni altra attivita’, quale in ipotesi un’attivita’ ludica o di intrattenimento, anche espressione dei diritti della persona”).
L’assunto trova fondamento nella nozione di malattia rilevante a fini di sospensione della prestazione lavorativa e che ricomprende le situazioni nelle quali l’infermita’ abbia determinato, per intrinseca gravita’ e/o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale – sebbene transitoria – incapacita’ al lavoro del medesimo (cfr., tra tutte, n. 14065 del 1999), per cui, anche laddove la malattia comprometta la possibilita’ di svolgere quella determinata attivita’ oggetto del rapporto di lavoro, puo’ comunque accadere che le residue capacita’ psico-fisiche possano consentire al lavoratore altre e diverse attivita’.
4.2. Tuttavia, la stessa giurisprudenza prima citata ha, da subito, precisato che il compimento di altre attivita’ da parte del dipendente assente per malattia non e’ circostanza disciplinarmente irrilevante ma puo’ anche giustificare la sanzione del licenziamento, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifichi obblighi contrattuali di diligenza e fedelta’, sia nell’ipotesi in cui la diversa attivita’ accertata sia di per se’ sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermita’ addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione, sia quando l’attivita’ stessa, valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermita’ denunciata ed alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore.
Tale principio puo’ dirsi consolidato nel diritto vivente (tra molte: Cass. n. 1747 del 1991; Cass. n. 9474 del 2009; Cass. n. 21253 del 2012; Cass. n. 17625 del 2014; Cass., n. 24812 del 2016; Cass. n. 21667 del 2017; Cass. n. 13980 del 2020). Invero, durante il periodo di sospensione del rapporto determinato dalla malattia permangono in capo al lavoratore tutti gli obblighi non inerenti allo svolgimento della prestazione; tra gli altri, anche gli obblighi di diligenza e fedelta’ di cui agli articoli 2104 e 2105 c.c., oltre che gli obblighi di correttezza e buona fede ex articoli 1175 e 1375 c.c. (cfr. Cass. n. 7915 del 1991).
Complesso di obbligazioni che riverbera i suoi effetti anche sulle condotte non direttamente concernenti l’adempimento della prestazione lavorativa ma che devono essere ispirate all’esigenza di salvaguardare l’interesse creditorio del datore di lavoro all’effettiva esecuzione della prestazione dovuta.
E’ stato evidenziato, infatti, che l’articolo 2110 c.c., in deroga ai principi generali, riversa entro certi limiti sul datore di lavoro il rischio della temporanea impossibilita’ lavorativa dovuta a infermita’ (Cass. n. 10706 del 2008; Cass. n. 14046 del 2005; Cass. n. 15916 del 2000). Ne consegue che tale deroga deve essere armonizzata con i principi di correttezza e buona fede che devono presiedere all’esecuzione del contratto, i quali assumono rilevanza non solo sotto il profilo del comportamento dovuto in relazione a specifici obblighi di prestazione ma anche sotto il profilo delle modalita’ di generico comportamento delle parti ai fini della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritti e obblighi (Cass. n. 9141 del 2004), imponendo a ciascuna di esse il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, anche a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge (cfr. Cass. n. 14726 del 2002; secondo Cass. SS.UU. n. 28056 del 2008, nell’osservanza degli obblighi di correttezza e buona fede le parti del rapporto obbligatorio hanno il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra; per una recente applicazione del principio v. Cass. n. 6497 del 2021).
Pertanto si e’ affermato che il lavoratore deve comunque astenersi da comportamenti che possano ledere l’interesse del datore di lavoro alla corretta esecuzione dell’obbligazione principale dedotta in contratto, argomentando che la mancata prestazione lavorativa in conseguenza dello stato di malattia del dipendente in tanto trova tutela nelle disposizioni contrattuali e codicistiche in quanto non sia imputabile alla condotta volontaria del lavoratore medesimo che operi scelte idonee a pregiudicare l’interesse datoriale a ricevere regolarmente detta prestazione (per tutte, v. Cass. n. 1699 del 2011).
In tale prospettiva assume peculiare rilievo l’eventuale violazione del dovere di osservare tutte le cautele, comprese quelle terapeutiche e di riposo prescritte dal medico, atte a non pregiudicare il recupero delle energie lavorative temporaneamente minate dall’infermita’, affinche’ vengano ristabilite le condizioni di salute idonee per adempiere la prestazione principale cui si e’ obbligati, sia che si intenda tale dovere quale riflesso preparatorio e strumentale dello specifico obbligo di diligenza, sia che lo si collochi nell’ambito dei piu’ generali doveri di protezione scaturenti dalle clausole di correttezza e buona fede in executivis, evitando comportamenti che mettano in pericolo l’adempimento dell’obbligazione principale del lavoratore per la possibile o probabile protrazione dello stato di malattia.
4.3. Corredano il principio cardine enunciato dalla giurisprudenza di legittimita’ consolidata altri arresti che fungono da corollario.
Innanzitutto e’ persuasivo l’assunto per il quale la valutazione del giudice di merito, in ordine all’incidenza sulla guarigione dell’altra attivita’ accertata, ha per oggetto il comportamento del dipendente nel momento in cui egli, pur essendo malato e (per tale causa) assente dal lavoro cui e’ contrattualmente obbligato, svolge un’altra attivita’ che puo’ recare pregiudizio al futuro tempestivo svolgimento di tale lavoro; in questo modo, la predetta valutazione e’ costituita da un giudizio ex ante, riferito al momento in cui il comportamento contestato si e’ tenuto ed ha per oggetto la potenzialita’ del pregiudizio, con la conseguenza che, ai fini di questa potenzialita’, la tempestiva ripresa del lavoro resta irrilevante (per tutte, v. Cass. n. 14046 del 2005; conf., Cass. n. 24812 del 2016; Cass., n. 21667 del 2017; Cass. n. 3655 del 2019; Cass. n. 9647 del 2021; secondo Cass. n. 16465 del 2015 lo svolgimento di attivita’ in periodo di assenza dal lavoro per malattia, costituisce illecito di pericolo e non di danno, il quale sussiste non soltanto se quell’attivita’ abbia effettivamente provocato un’impossibilita’ temporanea di ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa sia stata posta in pericolo, ossia quando il lavoratore si sia comportato in modo imprudente; in proposito v. pure Cass. n. 27104 del 2006).
Ovviamente la valutazione di tipo prognostico circa l’idoneita’ della condotta contestata, indice di scarsa attenzione del lavoratore per la propria salute e per i relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, a pregiudicare, anche solo potenzialmente, il rientro in servizio non potra’ che essere effettuata ex post in giudizio, eventualmente con l’ausilio di una consulenza di tipo medico-legale (cfr. Cass. n. 4237 del 2015).
In secondo luogo, e’ incontrastata da lungo tempo la constatazione che l’accertamento in ordine alla sussistenza
o meno dell’inadempienza idonea a legittimare il licenziamento, sia essa la fraudolenta simulazione della malattia ovvero l’idoneita’ della diversa attivita’ contestata a pregiudicare il recupero delle normali energie psico fisiche, si risolve in un giudizio di fatto, che dovra’ tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, come tale riservato al giudice del merito, con i consueti limiti di sindacato in sede di legittimita’ (ad ex., Cass. n. 3142 del 1983; Cass. n. 2585 del 1987; piu’ di recente, ex multis, Cass. n. 17625 del 2014; Cass. n. 21667 del 2017).
4.4. Nel quadro stabile cosi’ delineato, si registrano nella giurisprudenza di questa Corte posizioni diverse circa il criterio di riparto degli oneri probatori in ipotesi di licenziamento intimato in vicende siffatte.
Secondo un certo orientamento, nel caso di un lavoratore assente per malattia il quale sia stato sorpreso nello svolgimento di altre attivita’, spetta al dipendente dimostrare la compatibilita’ di esse con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa e quindi la loro inidoneita’ a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche (oltre i precedenti citati da parte ricorrente, sulla stessa linea si pongono: Cass. n. 11142 del 1991; Cass. n. 6047 del 2018; Cass. n. 9647 del 2021).
Per altro indirizzo, invece, la prova dell’incidenza della diversa attivita’ lavorativa o extralavorativa nel ritardare
o pregiudicare la guarigione ai fini del rilievo disciplinare e’ comunque a carico del datore di lavoro (Cass. n. 6375 del 2011; Cass. n. 15476 del 2012; Cass. n. 4869 del 2014; Cass. n. 1173 del 2018; Cass. n. 13980 del 2020).
Opportuno precisare che il piu’ delle volte la questione e’ affrontata in via incidentale, richiamando precedenti, senza che emerga – come nella controversia in esame – un motivo di gravame specificamente indirizzato a censurare un’affermazione in diritto della sentenza impugnata che attribuisca l’onere probatorio all’una piuttosto che all’altra parte del rapporto di lavoro.
4.5. Il Collegio reputa debba essere data continuita’ al secondo orientamento.
4.5.1. In materia di licenziamento, la L. n. 604 del 1966, articolo 5, detta la regola generale in base alla quale: “L’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro”.
Al riguardo deve rilevarsi che, a mente della disposizione richiamata, l’onere della prova deve interessare la sussistenza di un evento che giustifica la cessazione del rapporto in relazione alla singola fattispecie in considerazione, ossia, secondo la sintesi adottata pacificamente dalla giurisprudenza di questa Corte a proposito dei licenziamenti aventi natura disciplinare, la sussistenza “di una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, con riferimento agli aspetti concreti di esso, afferenti alla natura ed alla qualita’ del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente nella organizzazione dell’impresa, nonche’ alla portata soggettiva del fatto stesso, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all’intensita’ del fatto volitivo” (cfr., tra le innumerevoli, Cass. n. 3395 del 1991; Cass. n. 9590 del 2001; Cass. n. 13188 del 2003).
Tale onere probatorio gravante, per espressa previsione di legge, sul datore di lavoro e’ tradizionalmente inteso con rigore.
Si e’ cosi’ chiarito che il criterio empirico di vicinanza alla fonte di prova deve ritenersi comunque interdetto quando il legislatore stabilisca esplicitamente a priori l’onere probatorio, proprio come nel caso dell’articolo 5 citato. Si e’ osservato che “ogni diversa esegesi importerebbe una vera e propria sostituzione della valutazione operata dal legislatore con quella dell’interprete e un sostanziale abbandono di ogni regola certa, la cui importanza e’ invece particolare proprio sul terreno processuale” (in termini Cass. n. 17108 del 2016, secondo cui il ricorso al criterio empirico de quo puo’ essere consentito solo per dirimere un’eventuale sovrapposizione tra fatti costitutivi e fatti estintivi, impeditivi o modificativi, oppure allorquando, assolto l’onere probatorio dalla parte che ne sia onerata, l’altra possa (per vicinanza, appunto, alla fonte di prova) dimostrare fatti idonei ad inficiare la portata di quelli ex adverso dimostrati; conf. Cass. n. 7830 del 2018).
Si e’ pure argomentato come il datore di lavoro abbia l’onere di provare l’inadempimento del lavoratore senza potersi limitare a fornire “indizi” delle asserite violazioni, imponendo al lavoratore di fornire la prova contraria, poiche’ cio’ darebbe luogo ad un’ingiustificata inversione dell’onere probatorio (Cass. n. 13380 del 2015).
Non va poi sottaciuto che, nel contiguo campo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nel quale opera la medesima regola prefissata dalla L. n. 604 del 1966, articolo 5, questa Corte, rimeditando un risalente orientamento che richiedeva al lavoratore che impugnava il licenziamento l’allegazione dell’esistenza di altri posti nei quali egli potesse essere utilmente ricollocato, si e’, invece, sancito, a partire da Cass. n. 5592 del 2016, che l’impossibilita’ di repe’chage costituisce elemento costitutivo della fattispecie del recesso per motivo oggettivo, il quale deve essere interamente provato dal datore di lavoro proprio per non alterare surrettiziamente l’onere sancito dall’articolo 5 in discorso (criterio ormai consolidato: Cass. n. 12101 del 2016; Cass. n. 160 del 2017; Cass. n. 24882 del 2017).
4.5.2. Cio’ posto, in ossequio al canone di fonte legale che accolla al datore di lavoro il peso di provare tutti gli elementi di fatto che integrano la fattispecie che giustifica il licenziamento, tale parte deve fornire in giudizio la prova di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, idonee a connotare l’illecito disciplinare contestato. Ne discende coerente che, avuto riguardo alle ipotesi prefigurate nella contesa in esame, chi licenzia non puo’ limitarsi a fornire la prova che il lavoratore abbia svolto in costanza di malattia altra attivita’, perche’, per quanto detto innanzi, non sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente di prestare altra attivita’, anche a favore di terzi, durante la malattia, sicche’ essa non costituisce, di per se’, inadempimento degli obblighi imposti al prestatore d’opera.
Il datore di lavoro, quindi, deve anche provare, in relazione alla contestazione disciplinare, o che la malattia era simulata ovvero che la diversa attivita’ posta in essere dal dipendente fosse potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio. Solo in tal modo non potra’ realizzarsi una surrettizia inversione dell’onere probatorio stabilito per legge in caso di licenziamento.
A tal fine il datore potra’ avvalersi di ogni mezzo di prova utilizzabile in giudizio per l’accertamento dei fatti, anche sollecitando il giudice ad esperire una consulenza tecnica d’ufficio ovvero ad attivare poteri officiosi ex articolo 421 c.p.c.
Simmetricamente il giudice sara’ chiamato a ricostruire i fatti con accurata indagine probatoria onde esprimere all’esito il proprio convincimento su come si sia svolta la vicenda concreta, osservando anche in tale caso il criterio per cui costituisce carattere tipico del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verita’ materiale, di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove gia’ acquisite, non puo’ limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti (cfr. Cass. SS.UU. n. 11353 del 2004); sicche’ solo nel caso residuale in cui perduri una non superabile incertezza probatoria, operera’ la regola dell’articolo 2697 c.c. (per un’applicazione del principio, di recente, Cass. n. 3822 del 2019).
In particolare, occorrera’ valutare modalita’, tempi e luoghi della diversa attivita’ svolta dal dipendente in costanza di malattia, attribuendo rilievo, anche ai fini dell’elemento soggettivo, alla circostanza che si tratti di attivita’ ricreativa o ludica ovvero prestata a favore di terzi; occorrera’ poi esaminare le caratteristiche della patologia diagnosticata per certificare l’assenza per malattia; infine, occorrera’ verificare se da tali elementi, eventualmente con l’ausilio peritale, scaturisca la prova che la malattia fosse fittizia ovvero che la condotta tenuta dal lavoratore fosse potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro al lavoro.
4.6. Alla stregua delle considerazioni esposte, il terzo motivo di ricorso deve essere respinto perche’ correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che l’onere probatorio, nel caso di specie, gravasse sul datore di lavoro.
5. Il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. per avere la Corte territoriale “ritenuto che non vi fossero sufficienti elementi per dimostrare l’idoneita’ delle condotte tenute dal Sig. (OMISSIS) ad aggravare il suo stato di salute”.
Il quinto lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo ai fini del giudizio, concernente la prova che l’attivita’ svolta dal (OMISSIS) fosse idonea ad aggravare il suo stato di salute, rappresentato dalla circostanza che, “rispetto ad una diagnosi iniziale di soli 3 giorni, il lavoratore – per la medesima asserita patologia – e’ rimasto assente dal servizio per svariati mesi, anche in seguito a molteplici ricadute”, talune verificatesi proprio nei giorni successivi alle condotte extralavorative tenute dallo stesso.
Il sesto motivo denuncia ancora violazione e falsa applicazione dell’articolo 116 c.p.c. e omesso esame di un fatto decisivo lamentando la “erronea valutazione delle prove”.
I motivi, da valutarsi congiuntamente per evidente connessione, sono tutti inammissibili, perche’ anche laddove denunciano pretese violazioni di legge con il consueto inappropriato riferimento agli articoli 115 e 116 c.p.c., nella sostanza criticano gli apprezzamenti di merito svolti dalla Corte territoriale in ordine alla potenzialita’ della condotta extralavorativa del licenziato di pregiudicare il rientro al lavoro, investendo chiaramente una quaestio facti il cui accertamento e’ devoluto alla competenza esclusiva dei giudici del merito; ne’ risulta evidenziato l’omesso esame di fatti realmente decisivi, che avrebbero, cioe’, condotto ad un esito diverso della controversia con un giudizio prognostico di certezza e non di mera probabilita’, non potendo, in ogni caso, concretare il vizio di cui al novellato articolo 360 c.p.c., n. 5, una pretesa errata valutazione del materiale probatorio.
6. Parimenti inammissibile il nono mezzo di impugnazione, con cui si denuncia che la Corte milanese, contrariamente al primo giudice, avrebbe trascurato che il licenziato, con il suo contegno, aveva promosso un modello disincentivante dell’osservanza della normativa sulla reperibilita’ e sulle regole di correttezza e buona fede.
La censura e’, infatti, formulata sicuramente al di fuori dei limiti imposti dal novellato articolo 360 c.p.c., n. 5, che invoca, senza rispettare gli enunciati posti dalle Sezioni unite della Corte che ha rigorosamente interpretato la disposizione (cfr. Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014). In particolare, la parte ricorrente non indica adeguatamente – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e all’articolo 369 c.p.c., comma 2, n 4), – il “fatto storico” (e non un modello di comportamento), il cui esame sarebbe stato omesso, il “dato”, testuale o extra testuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisivita'” del fatto stesso.
7. Con il settimo motivo di ricorso si lamenta che la Corte territoriale non avrebbe valutato il fatto accertato e pacifico in causa che il (OMISSIS) non era risultato reperibile presso il suo domicilio per almeno otto volte. Con l’ottavo si argomenta che in tal modo non avrebbe neanche tenuto conto che la ripetuta irreperibilita’ presso il domicilio in costanza di malattia denotava “un’ evidente scarsa inclinazione del Sig. (OMISSIS) al rispetto degli obblighi contrattuali che ricadono in capo al dipendente”. Le censure, scrutinabili congiuntamente per reciproca inferenza, non sono meritevoli di accoglimento. Infatti, esse non si misurano adeguatamente con la ratio che sorregge la decisione sul punto della Corte territoriale, cosi’ come ricordata nello storico della lite.
Avuto riguardo all’ultimo addebito per il quale il (OMISSIS) era stato licenziato, infatti, nella motivazione qui impugnata si argomenta che “la contestazione non e’ da intendersi quale ‘assenza alle visite di controllo’ ma quale `mancata comunicazione del diverso domicilio’ da parte del (OMISSIS) ai fini delle eventuali visite di controllo”, tanto che – sottolinea la Corte milanese – “l’istruttoria orale svolta dal giudice di prime cure e’ stata svolta infatti per accertare se (OMISSIS) abbia o meno sempre comunicato a quel fine il nuovo domicilio”. Cio’ spinge la Corte a “correggere” l’inciso del Tribunale secondo cui si sarebbero verificati “ben otto episodi di mancata reperibilita'”, perche’ non di “mancata reperibilita'” si tratta, quanto piuttosto di “mancata comunicazione del nuovo domicilio ai fini dell’eventuale visita di controllo”. Si aggiunge, infine, che nell’audizione tenuta nel corso del procedimento disciplinare il lavoratore aveva affermato “di aver sempre comunicato i suoi spostamenti durante la malattia”.
Cio’ posto, non colgono nel segno i motivi in esame che pongono la questione della “irreperibilita'” del (OMISSIS) in costanza di malattia, quando la Corte di Appello ha ritenuto che l’addebito riguardasse fatti diversi, sebbene – in ipotesi – connessi, con un apprezzamento di merito che non puo’ essere oggetto di riesame innanzi a questa Corte di legittimita’ e che non risulta neanche adeguatamente confutato dalla Fondazione.
8. Con l’ultimo motivo la parte ricorrente denuncia: “violazione e falsa applicazione dell’articolo 40 del CCNL ARIS e degli articoli 1362, 2104, 2105 e 2119 c.c.”. Si lamenta che la Corte territoriale, nonostante il (OMISSIS) non fosse reperibile presso la sua residenza per numerose volte, abbia ricondotto tali molteplici comportamenti alle ipotesi della mera “mancata comunicazione del domicilio” o, in subordine, della mera “assenza alla visita di controllo”, punibili con sanzioni conservative; si eccepisce che nella disciplina collettiva viene utilizzata la formulazione del singolare (“assenza”), con cio’ manifestando l’intenzione di punire con una sanzione conservativa il lavoratore che, in una sola occasione, risultasse assente alla visita di controllo, mentre, nel caso di specie, gli episodi di mancata reperibilita’ risultavano essere almeno otto; si aggiunge che nel contratto collettivo applicabile veniva contemplato il licenziamento in tronco per le infrazioni punite con una sanzione conservativa che presentasse “carattere di particolare gravita'”, mentre la Corte territoriale non avrebbe spiegato il motivo per cui il complesso dei comportamenti addebitati e accertati non fossero qualificabili come “particolarmente gravi”.
Ribadito in premessa che non puo’ essere oggetto di riesame in questa sede di legittimita’ la questione della “irreperibilita'” del (OMISSIS) in costanza di malattia, posto che la Corte di Appello ha ritenuto che l’addebito disciplinare, secondo quanto era stato contestato, riguardasse fatti diversi, anche tale doglianza non puo’ trovare accoglimento.
8.1. Avuto riguardo alle previsioni della contrattazione collettiva che graduano le sanzioni disciplinari, essendo quella della giusta causa e del giustificato motivo una nozione legale, si e’ piu’ volte espresso il generale principio che tali previsioni non vincolano il giudice di merito (ex plurimis, Cass. n. 8718 del 2017; Cass. n. 9223 del 2015; Cass. n. 13353 del 2011).
Il principio generale subisce, tuttavia, eccezione ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa: in tal caso il giudice e’ vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (L. n. 604 del 1966, articolo 12). Pertanto, ove alla mancanza sia ricollegata una sanzione conservativa, il giudice non puo’ estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti (cfr., in particolare, Cass. n. 15058 del 2015; Cass. n. 4546 del 2013; Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 19053 del 1995), dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravita’ di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall’autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari (cfr. ex multis Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 14555 del 2000; Cass. n. 6165 del 2016; Cass. n. 11860 del 2016; Cass. n. 17337 del 2016).
8.2. Da ultimo questa Corte, ribadito quanto innanzi, ha anche precisato (Cass. n. 11665 del 2022) che laddove la fattispecie punita con una sanzione conservativa sia delineata dalla norma collettiva mediante una clausola generale o elastica, “graduando la condotta con riguardo ad una sua particolare gravita’ ed utilizzando nella descrizione della fattispecie espressioni che necessitano di essere riempite di contenuto”, sicuramente “rientra nel compito giudice riempire di contenuto la clausola utilizzando standard conformi ai valori dell’ordinamento ed esistenti nella realta’ sociale in modo tale da poterne definire i contorni di maggiore o minore gravita'”, perche’ “all’interprete e’ demandato di interpretare la fonte negoziale e verificare la sussumibilita’ del fatto contestato nella previsione collettiva anche attraverso una valutazione di maggiore o minore gravita’ della condotta”.
Cio’ ha fatto questa Corte avuto riguardo alla graduazione della “Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo” introdotta dalla L. n. 92 del 2012, enunciando il seguente principio di diritto: “In tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, articolo 18 commi 4 e 5, come novellata dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, e’ consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa anche laddove sia espressa attraverso clausole generali o elastiche. Tale operazione di interpretazione e sussunzione non trasmoda nel giudizio di proporzionalita’ della sanzione rispetto al fatto contestato, restando tale operazione di interpretazione nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalita’ come gia’ eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo” (Cass. n. 11665/2022 cit.).
Si e’ argomentato, tra l’altro, che “la tecnica dell’individuazione di fattispecie generali poi specificate in via esemplificativa attraverso l’individuazione di casi esplicativi, o ancora la catalogazione di una serie di condotte tipizzate accompagnata da una previsione piu’ generale e di chiusura, non preclude al giudice di svolgere quell’attivita’ di interpretazione integrativa del precetto normativo”, atteso che “l’utilizzazione nei contratti collettivi di norme elastiche o di previsioni di chiusura e’ connessa all’impossibilita’ pratica di tipizzare tutte le condotte di rilievo disciplinare oltre che all’indeterminatezza degli obblighi che fanno capo al lavoratore”.
8.3. Orbene, l’articolo 40 del contratto collettivo applicabile nella specie indica le ipotesi per le quali sono previste le sanzioni conservative “esemplificativamente”, quindi senza elencazioni tassative, “a seconda della gravita’ della mancanza e nel rispetto del principio di proporzionalita'”; in tal caso il giudice ben puo’ effettuare una valutazione in concreto per ritenere che la condotta tenuta dal lavoratore sia riconducibile, per contiguo disvalore disciplinare, alla fattispecie aperta che prevede le infrazioni punibili con sanzione conservativa. Non si tratta di estendere la sanzione conservativa ad ipotesi non previste, quanto piuttosto di prendere atto che le parti sociali hanno inteso descrivere le fattispecie suscettibili di una sanzione non risolutiva del rapporto di lavoro mediante una elencazione di casi, che pero’, per espressa previsione, ha una valenza meramente esplicativa; pertanto, e’ consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata, pur se non direttamente ascrivibile a una di quelle oggetto di elencazione, nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa attraverso siffatta tecnica di individuazione della fattispecie disciplinare, valutando che la mancanza accertata sia di gravita’ omologabile a quella che connota le infrazioni esplicitamente menzionate nel catalogo.
E’ quanto accaduto nella controversia all’attenzione del Collegio, laddove la Corte territoriale, preso atto della “elencazione non esaustiva ed esemplificativa” dell’articolo 40 citato, ha considerato che all’ipotesi della “mancata comunicazione del domicilio”, esclusa dal catalogo, fosse applicabile la sanzione conservativa, essendo la stessa prevista anche per l’ipotesi, ritenuta “piu’ grave” ed inclusa nel catalogo, di “assenza alla visita domiciliare”, con cio’ chiaramente escludendo, peraltro, che l’infrazione avesse quel carattere di “particolare gravita'” richiesto dalla disciplina collettiva per procedere al licenziamento.
Trattasi di percorso motivazionale metodologicamente corretto in diritto e in fatto commisurato alle circostanze del caso concreto che compete al giudice del merito apprezzare e che e’ sottratto al controllo di legittimita’, per cui la diversa opinione della parte soccombente non e’ idonea a determinare la cassazione della sentenza impugnata.
9. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto e le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte, riconvocatasi nella medesima composizione in data 30 marzo 2022, rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 6.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, rimborso spese generali al 15% e accessori secondo legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis, se dovuto.