Le offese contro le opinioni politiche e sindacali, se rientrano nei limiti della pacatezza, sono lecite e non costituiscono reato.
In generale, il confine tra il diritto di critica e la diffamazione sta nella portata delle parole dette o scritte: se queste si risolvono in un attacco personale all’altrui moralità o professionalità si cade nell’illecito penale. Diversamente, il giudizio sull’operato o sulle opinioni altrui, se manifestato in modo pacato e composto, non costituisce reato. Di recente, la Cassazione ha risposto a un interessante quesito, postosi a seguito della pubblicazione di un post su Facebook: è diffamazione la critica alle opinioni politiche altrui?
È noto che, in Italia, quando si parla di politica, lavoro e calcio gli animi si scaldano con facilità. È normale, in questi casi, chiudere un occhio e ammettere un dibattito più forte e pungente? Oppure, anche in tali occasioni, è necessario mantenere una compostezza “inglese”?
La sentenza in commento affronta appunto l’interessante questione della “critica politica e sindacale” sui social network e sui blog. Secondo la Suprema Corte, se attentamente contestualizzati, possono essere ammessi anche toni molto aspri o persino “taglienti”. Non esistono infatti limiti alla libera manifestazione del pensiero se non il fatto che l’oggetto della critica non deve essere rivolto alla persona in quanto tale.
Indice
Quando è diffamazione?
In buona sostanza, il confine tra il lecito e l’illecito sta nel fatto che, nel primo caso, le parole sono rivolte a criticare il pensiero altrui, le azioni e i risultati di una condotta; nel secondo caso, invece, l’invettiva diventa “personale”, volta a mettere in discussione la moralità o la professionalità di una persona.
Dire a un tale “sei un imbecille” solo perché manifesta opinioni politiche diverse è diffamazione. E lo stesso quando si usano espressioni come “burattino”, “pagliaccio”, “venduto”, mafioso”.
Diverso è il caso di chi, ad esempio, dica a una persona che “non ne capisce nulla di politica”, che le sue idee non stanno né in cielo, né in terra.
Su queste basi persino parole come “letamaio” – nella vicenda usate su un blog – se inserite nel contesto di un contrasto di idee ed opinioni e quindi non riferite alla persona in quanto tale, non costituiscono reato.
Quando scatta la diffamazione?
Ricordiamo che la diffamazione scatta quando una persona parla male di un’altra in sua assenza e dinanzi ad almeno due persone, anche attraverso un post su un social. Se però si tratta di una discussione in cui è presente la vittima – ad esempio in una chat – allora si ricade nell’ingiuria che non è più un reato ma un semplice illecito civile a fronte del quale si può tutt’al più sperare in un risarcimento (previa azione giudiziaria).
Il reato di diffamazione è volto a tutelare l’onore di una persona e la sua reputazione pubblica, intesa quale patrimonio di stima, di fiducia, di credito accumulato dal singolo nella società e, in particolare, nell’ambiente in cui quotidianamente vive e opera. Ecco perché la condotta diffamatoria deve essere posta in pubblico o comunque deve essere comunicata almeno a due persone (anche in momenti tra loro separati).
Quando non è diffamazione ma critica
Il “diritto di critica” si inserisce nell’ambito della libertà di manifestazione del pensiero, garantita dalla Costituzione e dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. E proprio in ragione della sua natura di diritto di libertà, esso costituisce una scriminante rispetto al reato di diffamazione.
Ma affinché si possa parlare di critica e non di diffamazione è necessario che la manifestazione del pensiero venga esercitata nel rispetto dei seguenti limiti:
- veridicità dei fatti;
- pertinenza degli argomenti;
- pacatezza espressiva (la cosiddetta continenza).
La critica costituisce quindi la manifestazione di un’opinione o di un giudizio valutativo che non può però essere necessariamente oggettivo. Difatti, nonostante il limite della verità dei fatti, è indubbio che il giudizio critico sia influenzato, e non potrebbe essere altrimenti, dall’opinione personale di chi parla o scrive, ossia dal filtro con il quale la realtà viene percepita da chi agisce. Dunque l’espressione, per sua natura, è parziale, ideologicamente orientata e tesa ad evidenziare proprio quegli aspetti o quelle concezioni del soggetto criticato che si reputano deplorevoli e che si intende stigmatizzare e censurare.
Come non commettere diffamazione
Per non cadere nella diffamazione bisogna essere “pacati”, bisogna cioè rispettare la cosiddetta “convenienza” delle espressioni utilizzate. Il che significa che le modalità espressive attraverso cui si estrinseca il proprio pensiero richiedono una forma espositiva “corretta” della critica; rivolta sì alla “disapprovazione” ma senza trasbordare nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione. Insomma, la critica non deve essere diretta a una invettiva personale volta ad aggredire il destinatario solo per metterlo in cattiva luce e demolirne l’immagine e la persona.
Si può parlare di critica anche in caso di uso di termini che, pure oggettivamente offensivi, siano “insostituibili” nella manifestazione del pensiero critico, in assenza di altre parole volte a esprimere il concetto.
Infine, per stabilire se siamo nell’ambito della critica o meno, occorre “contestualizzare” le espressioni ingiuriose, ossia valutarle in relazione al momento e al luogo in cui sono state proferite, e verificare se i toni utilizzati dal presunto responsabile, pur forti e sferzanti, siano pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere.
La connotazione politica della critica svolta su un blog dal suo autore può quindi rientrare pacificamente nel diritto di critica. Viene così in rilievo non un’offesa rivolta, senza alcuna ragione alla sua sfera privata, ma la “forte” critica di un atteggiamento politico e sindacale.
note
[1] Cass. sent. n. 17784/2022.