La cassazione chiarisce le differenze: l’attività svolta va confrontata con le qualifiche previste dal contratto collettivo.
Quando si può dire che sussiste la qualifica di un lavoratore subordinato e quando quella di dirigente?A spiegarlo una recente sentenza della Cassazione [1]. Bisogna innanzitutto accertare in concreto le attività lavorative svolte; individuare le qualifiche e i gradi previsti dal contratto collettivo di categoria; raffrontare il risultato della prima indagine e i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda.
Secondo la Corte, per l’attribuzione della categoria dirigenziale il lavoratore deve provare l’avvenuto riconoscimento nei suoi confronti di una vasta area di libertà entro la quale può assumere in prima persona decisioni capaci di indirizzare e influire sull’andamento dell’attività, rispondendo solo ed esclusivamente alle direttive generali dell’imprenditore.
Pertanto, se il lavoratore opera seguendo le direttive costantemente impartite dall’amministratore unico, le quali si rivelavano talmente invasive da permeare e da orientare l’attività dell’azienda in ogni suo settore, egli non può rivendicare il ruolo di dirigente.
Ciò che rileva, secondo la Suprema corte, è unicamente il raffronto tra l’attività svolta in concreto dal dipendente e i criteri distintivi in tema di mansioni e qualifiche previsti dalla contrattazione collettiva.
note
[1] Cass. sent. n. 20949 del 3.10.2014.