Lavoro subordinato del dipendente: per la legge contano solo i fatti


Conta il principio di effettività nell’ambito del rapporto di lavoro: le parti non possono qualificare il rapporto di lavoro secondo la loro volontà, eludendo la disciplina legislativa.
Per stabilire se un soggetto abbia svolto lavoro subordinato o meno, ciò che conta sono il contenuto e le modalità di esecuzione del rapporto stesso. Pertanto, se il datore di lavoro e il lavoratore si sono accordati, “sulla carta”, per formalizzare un determinato tipo di contratto, mentre invece, nei fatti, se ne è realizzato un altro, il giudice deve dare prevalente valore al comportamento tenuto dalle parti. Detto in termini ancora più pratici: se il contratto di lavoro reca, come intestazione “Contratto di collaborazione professionale” o ancora “co.co.pro.” o sigle simili, ma nella sostanza il lavoratore è trattato come un normale dipendente, il rapporto va qualificato dal giudice come un normalissimo lavoro subordinato, con tutti gli effetti che ne conseguono in termini di retribuzione, TFR, licenziamento ed eventuale indennità sostitutiva del preavviso per il licenziamento.
A ripetere questo principio (che i giuristi sono soliti definire con il termine “principio dell’effettività nel diritto del lavoro”) è stata una recente sentenza della Cassazione [1].
Il giudice, quindi, non può negare la qualificazione di contratti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, anche se formalmente sono stati qualificati dalle parti in diverso modo, magari al fine di evadere la normativa lavoristica, ridurre il carico fiscale e previdenziale. In pratica, le parti non sono affatto libere, con le loro dichiarazioni inserite nel contratto, di evitare l’applicabilità della disciplina inderogabile prevista a tutela dei lavoratori a rapporti che, invece, abbiano contenuto e modalità di esecuzione propri del rapporto subordinato.
note
[1] Cass. sent. n. 21824/14 del 15.10.2014.
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