No profilo Facebook dello studio legale: così la nuova deontologia forense


Nuovo codice deontologico: vietato utilizzare siti web se il dominio non è proprio e reindirizzi a sé o al proprio studio.
Forse a non tutti gli avvocati sono apparse immediate le conseguenze che avrà l’entrata in vigore (schedulata per il prossimo 16 dicembre) del nuovo codice deontologico forense (per scaricare il nuovo codice, clicca su questo link). In particolare, mi riferisco alle norme che disciplinano la presenza del legale su internet.
La genericità e il grado di indeterminatezza di alcune disposizioni e, in particolare, del nuovo articolo 35, fa pensare a una vera e propria mannaia per chiunque abbia un minimo di “socialità virtuale”, sia dotato di un profilo Linkedin, di una pagina Facebook dello studio (individuale o associato) o, ancora, abbia provato a utilizzare quei famosi 75 euro di pubblicità gratuita che, in questo periodo, Google Adwords sta offrendo a fini autopromozionali.
Ma vediamo più nel dettaglio i singoli aspetti di questa catena che ci lega, ancora una volta, a un passato preistorico.
Il nuovo articolo 35, al nono comma, stabilisce che:
“L’avvocato può utilizzare, a fini informativi, esclusivamente i siti web con domini propri senza reindirizzamento, direttamente riconducibili a sé, allo studio legale associato o alla società di avvocati alla quale partecipi, previa comunicazione al Consiglio
dell’Ordine di appartenenza della forma e del contenuto del sito stesso”.
Questo significa che il dominio deve essere di proprietà del legale e non di terzi. Un profilo Facebook o Linkedin o ancora Twitter, al contrario, si appoggia sempre su un dominio appartenente ad una società esterna, quella cioè titolare del social network.
Detto in parole povere, per i non-tecnici del settore informatico, ciò significa che l’indirizzo del sito (anche detto url), ossia quell’insieme di caratteri che leggete sulla barra alta del browser (Explorer, Chrome, Firefox, Safari, ecc.), non deve indicare altri nomi se non quelli dell’avvocato stesso o del suo studio. Pertanto, sarà lecito un sito come www.avvangelogreco.it, ma non una pagina Facebook o, ancora, pagine-gruppo intestate a “Studio Legale Avv.to Marmocchio”.
Anche una pagina come https://www.facebook.com/avvocatoangelogreco/ dove, appunto, nell’url è presente il nome dell’avvocato, non è un “dominio proprio” dell’avvocato, ma resta sempre di proprietà di Zuckerberg.
Diverso, a mio avviso, il caso in cui il profilo di Facebook venga usato per scopi personali o familiari – nel qual caso, di certo, il codice deontologico non potrà intervenire, non potendo toccare la sfera extraprofessionale. Ma, nella gran parte delle ipotesi, gli avvocati sono soliti chiamare il proprio profilo con denominazioni tipo “Studio Legale Marmocchi” o “Consulenza legale matrimoniale”, ecc. e così fare informazione (diretta o indiretta) circa l’attività professionale praticata.
Insomma, a leggere il testo della nuova norma, tutto questo sarà vietato. Dovranno chiudere o essere rinominati (se Facebook ancora lo consentirà) migliaia di profili e di pagine e finirà – prima ancora della sua nascita – la figura dell’avvocato telematico.
Saranno – come già lo sono – vietate le offerte di prestazioni in omaggio. Scrivere “Prima consulenza gratuita” sul sito internet o sulla pagina Facebook costituisce, già da oggi, illecito deontologico secondo le ultime sentenze della giurisprudenza [1]. Un accorgimento a cui dovranno fare attenzione molti legali se non vorranno ricevere una sanzione dall’ordine.
Ma i divieti “a largo spettro” non finiscono qui. Il nuovo codice recita ancora:
“[il sito dell’avvocato] non può contenere riferimenti commerciali o pubblicitari sia mediante l’indicazione diretta che mediante strumenti di collegamento interni o esterni al sito”.
Sembra che, nello scrivere questa norma, il CNF abbia pensato a tutti quegli avvocati che abbiano utilizzato le pagine di Google per promuovere la propria pubblicità attraverso il servizio Google Adwords. Google infatti consente di pubblicare il link di collegamento al sito, sulle proprie pagine, dietro pagamento di un prezzo parametrato a delle keywords (parole chiave). Per esempio, si può acquistare una campagna pubblicitaria con un’inserzione che appaia quando vengono digitate le parole “consulenza legale” oppure “avvocato matrimonialista”.
Stupisce che la stessa possibilità di “informazione” circa la propria attività, pienamente lecita se effettuata su giornali, riviste o finanche sugli autobus, cessi di esserlo quando si passa su internet. Il ragionamento del nuovo codice deontologico, in materia di correttezza professionale, è dunque questo: ciò che conta davvero non è ciò che si scrive o come lo si scrive, ma “dove” o attraverso quale canale lo si dice. Il che ricorda quel romanzo di un certo Eco, dove si narrava delle pagine avvelenate di un libro. Ma quello era medioevo. Noi, invece, siamo nel XXI secolo, in piena società dell’informazione.
L’esperienza purtroppo insegna che si combatte ciò che si teme. E si teme ciò che non si conosce (o non si sa utilizzare).
note
[1] Cass. sent. n. 23287/2010
Secondo il Consiglio Nazionale Forense (Parere 27 aprile 2011, n. 49 – Rel. Piacci) la condotta dell’avvocato che abbia pagine sui social network è legittima.
Difatti “Ciò che va distinto a fini deontologici non è quindi il mezzo in sé e per sé, bensì l’uso che ne viene fatto e la cerchia di destinatari che, volontariamente o meno, vengano a contatto con l’utente titolare del profilo personale online.”.
Dunque “Se l’avvocato utilizza il network per scopi di comunicazione professionale dovrà comunicare tale intendimento in via previa al Consiglio di appartenenza”.
Grazie Alberto per il tuo contributo. Che tuttavia si riferisce a un parere del 2011, prima quindi che la nuova norma fosse scritta (la quale peraltro entrerà in vigore a dicembre).
Il riferimento alla proprietà del dominio è contenuto nell’art. 17 del codice deontologico attualmente in vigore. Quindi il parere espresso dal Cnf nel 2011 potrebbe considerarsi valido anche con riferimento alla disposizione del nuovo Codice.
Ma quindi l’avvocato/studio in questione dovrebbe anche bloccare QUALSIASI indicizzazione da parte di ogni motore di ricerca, dato che anche solo eseguendo una ricerca su google, di fatto, esce il “redirect” al proprio sito all’interno di un sito che non è di proprietà dell’avvocato/studio (il motore di ricerca, in questo caso)?
Di questi tempi una norma del genere mi sembra, oltre che esagerata, anche fatta senza alcuna cognizione di quale sia la realtà sulla quale mira ad intervenire.
Scusate l’intromissione, non sono un avvocato, ma lavoro nel web.
I nomi a dominio non sono MAI di proprietà, ma sempre dati in concessione per un determinato periodo di tempo a privati e/o persone giuridiche.
Dal punto di vista tecnico, la frase “esclusivamente i siti web con domini propri senza reindirizzamento” può essere interpretata in moltissimi modi, visto che è stata palesemente scritta prima di consultare un qualsivoglia esperto del settore web.
Di fatto, comunque, è il termine “propri” che rende il tutto assurdo e inapplicabile, in quanto è una condizione che non potrà mai essere vera.
Cioè spiegatemi meglio, quindi i siti internet che fanno consulenza legale online non hanno ragione d’esistere… o meglio sarebbero “illegali”?