Cosa rischia il datore che paga il dipendente senza utilizzarlo?


Quando scatta il mobbing? Quali sono le conseguenze dell’inerzia forzata del lavoratore? C’è diritto al risarcimento? Quando c’è reato?
Essere pagati per non fare nulla è il sogno di tanti; per i giudici, però, si tratta di una condotta illegale, non per chi riceve il compenso bensì per chi lo percepisce. A tale conclusione è giunta la Corte di Appello di Bari con una sentenza piuttosto interessante. La decisione può stupire ma, in realtà, si pone perfettamente nel solco tracciato dalla precedente giurisprudenza. Cosa rischia il datore che paga il dipendente senza utilizzarlo?
Come diremo nel prosieguo nel presente articolo, si può avere mobbing anche senza porre in essere condotte vessatorie: è infatti sufficiente che il lavoratore si senta degradato affinché il comportamento del datore sia illecito. Le conseguenze sono gravi: non solo il dipendente deve essere reintegrato, ma anche risarcito. Se l’argomento t’interessa e vuoi saperne di più, prosegui nella lettura: vedremo insieme cosa rischia il datore che paga il dipendente senza utilizzarlo.
Indice
Inerzia forzata del dipendente: è mobbing?
Secondo la sentenza sopra richiamata della Corte d’Appello di Bari [1], l’inerzia forzata del dipendente può costare l’accusa di mobbing al datore che, pur pagando regolarmente la retribuzione, l’ha costretto a non fare nulla durante l’orario di lavoro, svilendo il dipendente sia come uomo che come lavoratore.
Insomma: il dipendente obbligato a stare fermo senza fare niente subisce mobbing, con le conseguenze che a breve vedremo.
Mobbing: in cosa consiste?
Il mobbing consiste in una molteplicità dei comportamenti ostili, che si devono ripetere per un congruo periodo di tempo.
Sia che provenga dal datore di lavoro (mobbing verticale o “bossing) sia che provenga dai colleghi (mobbing orizzontale), il mobbing deve sempre porsi come una persecuzione nei confronti del dipendente, con lo scopo di emarginarlo e umiliarlo.
Non può quindi essere mobbing una condotta isolata, oppure più condotte che si ripetono a distanza di molto tempo; ugualmente, non costituiscono mobbing i rimproveri e richiami del datore, quando sono giustificati dagli inadempimenti del dipendente.
Possiamo quindi definire il mobbing come un comportamento di costante e ingiustificata vessazione nei riguardi del lavoratore dipendente.
Ad esempio, costituiscono mobbing le continue maldicenze sul posto di lavoro, le mortificazioni, gli insulti, ma anche altri comportamenti più subdoli, come ad esempio l’emarginazione, il demansionamento ingiustificato oppure lo svuotamento di mansioni, con conseguente inerzia forzata del dipendente.
Datore paga il dipendente senza impiegarlo: cosa rischia?
Secondo la sentenza citata in premessa e all’interno del primo paragrafo, il datore di lavoro che costringe a un’inattività forzata il proprio dipendente può essere condannato per mobbing.
La conseguenza è che al dipendente emarginato spetta:
- il risarcimento pari a metà stipendio per tutto il tempo dell’ozio forzato, oltre i danni per la lesione alla salute, all’immagine e alla dignità personale;
- la reintegra nel posto di lavoro, in quanto il licenziamento conseguente al mobbing è nullo.
Secondo i giudici, è mobbing costringere il dipendente all’inattività, anche se il datore continua a pagarlo. E ciò perché l’ozio forzoso si è configurato come una vendetta dell’azienda, visto che il datore aveva anche proibito agli altri dipendenti di parlare con “l’emarginato”, cioè con la vittima.
Pertanto, il prestatore emarginato è vittima di una condotta vessatoria e va risarcito dei danni, patrimoniali e non: i primi, pari a metà dello stipendio, per la dequalificazione professionale, i secondi per la lesione alla salute, all’immagine e alla dignità personale.
Nel caso di specie, la vittima mobbizzata era un dipendente specializzato costretto a sedere in un corridoio insieme al pubblico, senza computer né telefono, con una scrivania occupata da fascicoli e carte. Il dipendente era rimasto di fatto senza mansioni per oltre cinque anni.
Davanti a tale condotta illecita del datore che, pur continuando a retribuire il proprio dipendente, lo utilizzava come “soprammobile”, va risarcito, accanto alla lesione alla salute, anche il danno relazionale, consistente nella lesione all’immagine professionale oltre che alla dignità dell’individuo.
Mobbing: come si prova in giudizio?
Il mobbing può essere provato in giudizio con ogni mezzo di prova: testimonianze, registrazioni audio e video, fotografie, documenti (email, messaggi, ecc.).
Mobbing: quando è reato?
Il mobbing diventa reato quando le condotte vessatorie poste nei confronti del dipendente trascendono il contesto lavorativo per sfociare in delitti veri e propri.
Ad esempio, il datore di lavoro che minaccia di licenziamento il dipendente nel caso in cui non obbedisca a tutte le sue richieste commette il reato di minacce o perfino di estorsione.
Il reato scatta se il datore vuole imporre, dietro minaccia di licenziamento, ingiuste condizioni di lavoro al dipendente, quali una paga più bassa o straordinari non pagati. Per non parlare dei casi in cui le richieste siano del tutto avulse dall’ambito lavorativo: pensa al datore che chiede prestazioni sessuali.
Il mobbing è reato anche se diventa stalking: si pensi al datore o al collega che chiami continuamente il dipendente anche quando è a casa oppure durante le ferie, ovvero si faccia trovare presso la sua abitazione o cominci a pedinarlo.
Il mobbing è reato se si trasforma in diffamazione: è il caso dei lavoratori che, per mettere in cattiva luce il collega agli occhi del datore, diffondano notizie false che ledono il decoro e la dignità della vittima.