Insulti ai politici: dire “parassita” è diffamazione o diritti di critica?


Il confine tra diritto di critica e la diffamazione è sempre molto labile quando si ha a che fare con i giornalisti o, peggio, come nel caso qui deciso dalla Cassazione, con i politici: secondo la Suprema Corte, però, si può chiamare “parassita” il politico purché vengano spiegati i motivi.
Chiamare “parassita” un personaggio politico costituisce diffamazione [1] a meno che si argomentino le ragioni dalle quali l’insulto è scaturito.
Così si è pronunciata la Cassazione [2] sul caso di un giornalista accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver offeso, in un articolo di giornale, due parlamentari definendoli “parassiti” [3].
I giudici hanno ritenuto che l’epiteto “parassita”, in quanto rientrante nel diritto di critica, può essere liberamente espresso e considerato espressione di “folklore giornalistico” a patto che, però, vengano spiegate le ragioni di fatto su cui si fonda tale giudizio negativo (per esempio, riportando determinati discutibili atteggiamenti o discorsi della persona insultata).
Ciò perché, altrimenti, l’insulto non rappresenta un segno di critica costruttiva – intesa come “valutazione argomentata di condotte, espressioni o idee”-, ma semplicemente occasione e pretesto per sfogare sentimenti ostili verso il destinatario determinando, così, una lesione ingiustificata della reputazione altrui.
In sintesi, perché il comportamento rientri nel diritto di critica, è necessario che il giudizio espresso su una persona, anche se severo e irriverente, sia collegato con i fatti concreti dai quali il criticante prende spunto, al termine di un ragionamento logico e coerente.
Sempre la Cassazione [4], in un caso simile, ha confermato la sanzione disciplinare [5] a carico del presidente del Tribunale dei minori di Genova, reo di aver insultato, nel corso di una riunione dell’Associazione Nazionale Magistrati, l’ex presidente del consiglio S. Berlusconi e l’ex ministro della giustizia A. Alfano, chiamandoli “gaglioffi” (come sinonimo di “inetti”).
I giudici della Suprema Corte hanno sottolineato l’offensività del termine “gaglioffo”, utilizzato come sinonimo di “cialtrone, imbroglione, manigoldo, delinquente, avvezzo alla sopraffazione“.
Tale espressione, è stata ritenuta del tutto gratuita e non necessaria, nonostante i toni accesi e aspri che hanno caratterizzato la lotta politica-magistratura in materia di riforma della giustizia.
note
[1] Art. 595 c.p.
[2] Cass., sez. V pen., sent. n. 48553 del 2011.
[3] Per completezza di esposizione si informa il lettore che nel caso di specie l’imputato, nonostante la sussistenza del reato di diffamazione, non è stato condannato a causa della prescrizione del reato, intervenuta dopo la pronuncia della sentenza di secondo grado.
[4] Cass., sez. V pen., sent. n. 28813 del 2011.
[5] La sanzione inflitta, nel caso di specie, era sta la “censura”: essa rientra nell’ambito delle sanzioni disciplinari irrogabili al giudice dal Consiglio Superiore della Magistratura e consiste in una dichiarazione formale di biasimo.