Discriminazione al lavoro per motivi di sesso: cosa fare?


Il fatto di essere uomo o donna può comportare delle disparità di trattamento in azienda: quando succede e come reagire?
La legge [1] vieta qualsiasi tipo di discriminazione al lavoro fondata sul sesso del dipendente e consente a quest’ultimo di avviare un tentativo di conciliazione o un’azione giudiziaria per difendere i propri diritti. Parallelamente, prevede per il datore delle sanzioni in caso di violazione di tale divieto. In caso di discriminazione al lavoro per motivi di sesso, cosa fare?
La disparità di trattamento non è tollerata per quanto riguarda:
- l’accesso al mondo del lavoro, compresi i criteri di selezione, le condizioni di assunzione e la promozione, qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale;
- la retribuzione: lo stesso lavoro, o uno di valore professionale equivalente, deve essere retribuito allo stesso modo, a meno che la differenza sia obiettivamente giustificata;
- la classificazione professionale, l’attribuzione di qualifiche e mansioni, la progressione nella carriera, l’accesso alle prestazioni previdenziali e le forme pensionistiche complementari.
Per quanto riguarda l’accesso al lavoro, il divieto di discriminazione comprende anche:
- qualunque riferimento allo stato matrimoniale, di famiglia o di gravidanza, nonché di maternità o paternità (anche adottive);
- i meccanismi di preselezione a mezzo stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l’appartenenza all’uno o all’altro sesso;
- le iniziative in materia di orientamento, formazione, perfezionamento e aggiornamento professionale per quanto concerne sia l’accesso sia i contenuti;
- l’affiliazione e l’attività in un’organizzazione di lavoratori o datori di lavoro o in qualunque organizzazione i cui membri esercitano una particolare professione e alle prestazioni erogate dalle stesse.
Vediamo quando è rilevabile la discriminazione al lavoro per motivi di sesso e cosa fare se si ritiene di essere vittima di disparità.
Indice
Discriminazione al lavoro: cosa si intende?
Secondo la legge, un lavoratore o una lavoratrice sono vittime di discriminazione al lavoro quando, per motivi legati al sesso, un dipendente o un candidato se si è in fase di selezione subisce un pregiudizio o viene trattato in modo meno favorevole rispetto ad un altro che si trova in situazione analoga. In questo caso, si parla di discriminazione diretta.
È indiretta, invece, quando una disposizione, un comportamento, una prassi o un patto apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa e purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento appropriati e necessari.
È discriminatorio, inoltre, ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso:
- mette il lavoratore in posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori;
- ne limita le opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali;
- ne limita l’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera.
Sono, infine, da considerare discriminazioni:
- le molestie, vale a dire quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso o a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale allo scopo o con l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, offensivo o umiliante;
- i trattamenti meno favorevoli subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di aver rifiutato le molestie o di esservi sottomessi;
- i trattamenti sfavorevoli da parte del datore che costituiscono una reazione ad un reclamo o ad un’azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne.
Discriminazione al lavoro per motivi di sesso: quali sanzioni?
La legge ritiene nullo ogni atto del datore o ogni patto diretto a discriminare per motivi di sesso un lavoratore o una lavoratrice. Disciplina, inoltre, alcune ipotesi particolari presumendone la natura discriminatoria. Si tratta del licenziamento e delle dimissioni non convalidate collegate ad eventi come la maternità, il matrimonio o l’unione civile.
Non è possibile, in sostanza, lasciare a casa una lavoratrice perché incinta o non assumerla perché si è sposata da poco e da lì a breve potrebbe avere una gravidanza. Non è nemmeno lecito licenziare un dipendente perché intende sposarsi o creare un’unione civile.
Ecco le sanzioni previste in caso di violazione del divieto:
- discriminazione relativa all’accesso al lavoro, alla formazione professionale, alla parità retributiva, alle qualifiche, alle mansioni e alla carriera, all’età del pensionamento: sanzione amministrativa da 5.000 a 10.000 euro, non diffidabile;
- inottemperanza alla diffida a trasmettere il rapporto sulla situazione del personale in termini di parità: sanzione amministrativa da 103 a 516 euro;
- rapporto sulla situazione del personale mendace o incompleto: sanzione amministrativa da 1.000 a 5.000 euro;
- inottemperanza al decreto o alla sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione a seguito di azione individuale: arresto fino a sei mesi o ammenda fino a 50.000 euro;
- inosservanza di quanto stabilito dal giudice a seguito di azione collettiva: arresto fino a sei mesi o ammenda fino a 50.000 euro.
Discriminazione al lavoro per motivi di sesso: come reagire?
Il dipendente che ritiene di aver subìto discriminazioni sul lavoro per motivi di sesso può esercitare un’azione individuale per la tutela dei propri diritti.
Inoltre, quando il consigliere di parità competente rileva l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, diretti o indiretti, che coinvolgono più lavoratori, è prevista la possibilità di promuovere un’azione collettiva.
Chi si rivolge al tribunale deve fornire elementi di fatto relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare in termini precisi e concordanti la presunzione dell’esistenza di una discriminazione in ragione del sesso. In tal caso, sarà il datore di lavoro a dover provare che il suo comportamento è dipeso non da ragioni discriminatorie, bensì da altre motivazioni connesse al corretto funzionamento dell’impresa, oppure che l’appartenenza ad un sesso costituisce requisito essenziale per la natura del lavoro o della prestazione.
La lavoratrice o il lavoratore che agisce in giudizio per accertare una discriminazione per molestia non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa con effetti negativi diretti o indiretti sulle condizioni di lavoro, determinati dalla denuncia stessa. Significa che il dipendente non può subire:
- un licenziamento ritorsivo o discriminatorio del denunciante;
- il mutamento di mansioni;
- qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria.
note
[1] D.lgs. n. 198/2006.