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Danno da malattia lungolatente: come si calcola?

11 Novembre 2022 | Autore:
Danno da malattia lungolatente: come si calcola?

I criteri per riconoscere il danno biologico quando la patologia si manifesta a distanza di anni dall’infezione; quali sono le condizioni per ottenere il risarcimento.

Ci sono delle malattie che non hanno il breve periodo di incubazione, di poche ore o giorni, che è tipico delle comuni infezioni virali, come il raffreddore, l’influenza e le varie forme di Covid. Queste patologie – chiamate in medicina «lungolatenti» – sono più subdole, perché si manifestano a distanza di anni dal momento della loro insorgenza: ad esempio, un’infezione da epatite C o da Hiv può rimanere nascosta a lungo nell’organismo, senza provocare sintomi per molto tempo. E fino a quando rimane asintomatica non viene neppure scoperta se non ci si sottopone ad appositi esami rivelatori.

Quando però uno di questi fenomeni diventa conclamato ed è constatabile a livello clinico, ci si pone un problema, oltre a quello dell’auspicata guarigione: come si calcola il danno da malattia lungolatente? Il punto di partenza è e rimane sempre il cosiddetto danno biologico, cioè la lesione della salute, che l’art. 32 della Costituzione considera come un diritto fondamentale della persona umana; ma in questi casi ci sono delle importanti particolarità che differenziano molto il risarcimento rispetto alle consuete malattie, traumi ed infortuni che hanno una manifestazione immediata, non differita.

Danno biologico: in cosa consiste?

Un errore comune è quello di considerare il danno biologico come una semplice lesione dell’integrità psicofisica della persona: in realtà, ciò che i giudici valutano sono le conseguenze di questi eventi, ossia i cosiddetti postumi invalidanti, che costituiscono i requisiti essenziali del danno risarcibile. Infatti per misurarli esistono apposite “tabelle a punteggio“, che tengono conto del grado di invalidità riscontrata a livello medico-legale, dell’età della vittima e di molti altri fattori.

La giurisprudenza della Cassazione [1] afferma chiaramente questo principio: «Il danno biologico misurato percentualmente è la menomazione all’integrità psicofisica della persona, la quale esplica una incidenza negativa sulle attività ordinarie intese come aspetti dinamico-relazionali comuni a tutti». Potremmo dire, sintetizzando al massimo, che non c’è danno alla salute senza sintomi della malattia: quello che conta davvero è “come sta” la persona.

Insomma, la lesione del diritto alla salute è solo un presupposto, ma per arrivare alla risarcibilità occorre un pregiudizio concreto, una compromissione che si manifesta nella vita di tutti i giorni a causa dell’invalidità riportata. Ma questo è proprio ciò che il malato lungolatente di solito non ha, almeno fino a quando la sua patologia non affiora a livello sintomatico e dunque diventa evidente in termini di sofferenza e di peggioramento della qualità di vita; e a quel punto sorge spesso la necessità di ricoveri, cure, terapie farmacologiche ed interventi chirurgici.

Danni lungolatenti: quando si ravvisano?

Nel caso dei danni lungolatenti, la conseguenza dei principi che abbiamo enunciato è che il risarcimento deve essere verificato con riguardo al momento di manifestazione dei sintomi della patologia, e non a quello, molto più antico, in cui era stata contratta l’infezione.

In altre parole, il diritto alla risarcibilità sorge quando le conseguenze della condotta illecita (come un sinistro stradale, un reato violento, un episodio di malasanità o un’emotrasfusione di sangue infetto) si ripercuotono sulla persona danneggiata: è il medesimo criterio che vige in materia di incidenti stradali, per i quali la legge [2] prevede il risarcimento quando la lesione della salute comporta «un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato».

Come si prova il danno lungolatente?

Il concreto pregiudizio subito dalla vittima di una malattia lungolatente deve essere provato da chi chiede il risarcimento del relativo danno. Da qui sorge il problema della prova del nesso di causalità tra l’evento base – ad esempio, una somministrazione di sangue infetto durante una trasfusione – e le conseguenze dannose. La legge [3] riconosce un indennizzo statale, corrisposto dal ministero della Salute, per i danni derivanti da vaccinazioni e da trasfusioni, e il giudizio sul rapporto di causa-effetto viene espresso da una Commissione medica ospedaliera che esamina l’accaduto alla stregua della documentazione clinica prodotta dal danneggiato, che attesta le patologie da cui è affetto e l’epoca della loro insorgenza.

Risarcimento danno da malattia lungolatente

Tutto ciò non preclude la possibilità di vedersi riconosciuta una somma ulteriore in caso di danni maggiori, perché l’indennizzo è cosa diversa e, di solito, di entità molto più ridotta rispetto al risarcimento vero e proprio (leggi qui qual è la differenza tra risarcimento e indennizzo). Però se l’indennizzo è già stato erogato, la cifra versata deve essere scomputata da quella, maggiore, che verrà riconosciuta a titolo risarcitorio. Questo accorgimento (tecnicamente chiamato: «divieto di compensatio lucri cum damno») è necessario per evitare che il danneggiato lucri indebitamente sulla stessa malattia, come afferma costantemente la giurisprudenza [4].

In concreto, nella liquidazione del danno da malattia lungolatente bisogna considerare l’età del danneggiato al momento di presentazione della richiesta risarcitoria anziché quella che aveva quando aveva contratto la malattia in forma asintomatica: lo ha affermato una nuova sentenza della Corte di Cassazione [5], in una vicenda in cui il paziente aveva 47 anni quando ha presentato la domanda di indennizzo per un’infezione riportata all’epoca in cui ne aveva 25, dunque molti anni prima.

Morte del malato lungolatente: risarcimento agli eredi

In caso di morte del malato lungolatente, il risarcimento del danno biologico va corrisposto ai suoi eredi (di norma, i familiari più stretti: coniuge, figli e genitori) che diventano i titolari del cosiddetto danno parentale, derivante dalla perdita irrimediabile del loro congiunto. Qui, oltre il danno biologico, diventa risarcibile anche la rottura del legame affettivo esistente tra il malato ed i suoi familiari superstiti, e l’entità della cifra riconosciuta dipenderà essenzialmente dall’intensità di tale rapporto.

Di recente, la Corte di Cassazione [6] ha chiarito che la quantificazione del danno biologico spettante agli eredi del defunto per una malattia lungo latente (nella vicenda decisa si trattava di un epatocarcinoma causato dall’epatite C, a sua volta riconducibile a pregresse emotrasfusioni) va parametrata alla vita effettiva del paziente e non alla sua speranza di vita in base alle statistiche: questo elemento probabilistico può essere preso in considerazione ai fini del risarcimento solo quando la vittima è deceduta per una causa non ricollegabile alla menomazione patita in conseguenza dell’illecito. Puoi leggere per intero la pronuncia della Suprema Corte nel box “sentenza”  riportato qui sotto.


note

[1] Cass. ord. n. 19153/2018.

[2] Art. 138 D.Lgs. n. 209/2005 (Codice delle assicurazioni private).

[3] L. n. 210/1992.

[4] Cass. sent. n. 32030/2021, n. 2778/2 019 e n. 9434/2016.

[5] Cass. sent. n. 25887/2022.

[6] Cass. sent. n. 32916 del 09.11.2022.

Cass. civ., sez. III, ord., 9 novembre 2022, n. 32916
Presidente Spirito – Relatore Scarano

Svolgimento del processo

Con sentenza del 12/3/2019 la Corte d’Appello di Napoli, in accoglimento del gravame in via principale interposto dalla Regione Campania nonché in parziale accoglimento di quello in via incidentale spiegato dai sigg. M.V. ed M.A. -in proprio e nella qualità di eredi della defunta sig. C.A. – e in conseguente parziale riforma della pronunzia Trib. Napoli 15/12/2015, ha rigettato la domanda da questi ultimi proposta nei confronti della prima nonché della Gestione liquidatoria ex Usl Napoli n. 36, e ha condannato il Ministero della salute al pagamento di somma a titolo di risarcimento dei danni dai M. subiti -in proprio e nella qualità- in conseguenza del decesso della C. dovuto ad “epatocarcinoma a sua volta cagionato” dall’epatite C contratta all’esito di emotrasfusioni cui era stata sottoposta durante il ricovero dal 17/6/1987 al 3/7/1987 presso l’Ospedale Civile di (omissis) .

Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito il Ministero della salute propone ora ricorso per cassazione, affidato a 2 motivi.

Resistono con separati controricorsi la Regione Campania e il M.V. -in proprio e nella qualità di erede della defunta sig. C.A. -.

Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Con il 1 motivo il ricorrente denunzia violazione degli artt. 2697,2699,2700 c.c., 115, 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si duole che la corte di merito abbia erroneamente ritenuto essere stata data dalla Regione Campania la “prova liberatoria della responsabilità contrattuale ascritta alla struttura ospedaliera sulla sola base della provenienza della sacca di sangue utilizzata dall’Avis e della sufficienza dei controlli solo dalla medesima effettuati, laddove anche in tal caso residuava la responsabilità contrattuale per non avere la struttura allo stato della normativa vigente comunque assicurato la tracciabilità del sangue dal donatore, e comunque per non avere proceduto direttamente ai controlli sul sangue pervenutole dall’Avis”.

Con il 2 motivo denunzia “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1223,1243,2043,2056 c.c., 2 ss. L. n. 210 del 1992, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si duole che la corte di merito abbia “rideterminato il danno non patrimoniale iure hereditatis” senza limitare la corresponsione alla durata di vita effettiva della vittima primaria e senza scomputare “per intero”, e cioè con riferimento “anche ai ratei futuri non ancora percepiti”, l’indennizzo ex L. n. 210 del 1992.

Lamenta che a tale stregua la corte di merito “non ha tenuto conto nel riliquidare il danno patrimoniale del lucro che nel periodo di vita stimato in più la vittima primaria avrebbe ottenuto continuando a percepire l’indennizzo”, laddove “in coerenza… avrebbe dovuto detrarre non già la sola somma… quale percepito stimato alla data del decesso, ma l’ulteriore somma che avrebbe percepito sino all’epoca di stimata vita media”, in quanto “ai fini della scomputabilità dell’indennizzo già riconosciuto e soggetto nella sua material erogazione a periodicità… lo scomputo deve essere per intero (come pure in S.U. del 2008: “integralmente scomputato”), cioè riferiti anche ai ratei futuri non ancora percepiti, in quanto solo così si assicura l’omogeneità dei termini del raffronto tra poste risarcitorie liquidate anche in relazione alle conseguenze dannose prevedibili per la aspettativa futura e le poste indennitarie in detrazione la cui attribuzione patrimoniale è causalmente e funzionalmente collegata all’illecito”.

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.

È rimasto nel giudizio di merito accertato che la C. è deceduta in conseguenza di “epatocarcinoma a sua volta cagionato” dall’epatite C contratta all’esito di emotrasfusioni cui era stata sottoposta durante il ricovero dal 17/6/1987 al 3/7/1987 presso l’Ospedale Civile di (OMISSIS) “, e in particolare il 22/6/1987.

Orbene, va anzitutto osservato, con particolare riferimento al 1 motivo, che nell’accogliere la censura mossa dall’allora appellante ed odierna controricorrente Regione Campania (secondo cui “la sacca di sangue n. 680 utilizzata per la trasfusione del 22.6.1987 presso l’Ospedale civile di (OMISSIS) somministrata a C.A. , proveniente dall’Avis di Napoli era stata sottoposta a tutti i controlli ai sensi della normativa vigente all’epoca… pertanto il personale sanitario aveva proceduto a verificare la compatibilità per la trasfusione e riportato gli estremi nella cartella clinica adempiendo a tutte le prescrizioni di legge e di diligenza professionale”), nell’impugnata sentenza la corte di merito ha al riguardo espressamente affermato che “nel caso di specie… risulta pacifico che la trasfusione sia avvenuta con una sacca di sangue, proveniente dall’Avis, regolarmente tracciata e i cui estremi e provenienza sono stati regolarmente riportati nella cartella clinica”, e che l'”impossibilità di rintracciare successivamente il destinatario determinata dalla avvenuta distruzione dei nominativi dopo un certo numero di anni non è addebitabile all’ente regionale (e la stessa normativa evolutiva dell’obbligo di conservazione dei dati è successiva alla trasfusione in questione”, in quanto come dalla Regione al riguardo dedotto “solo nel 1990 era stato introdotto l’obbligo di conservare il nominativo del donatore per cinque anni e pertanto non era stato possibile risalire al donatore pur essendo ciò astrattamente possibile dal tracciamento della sacca”.

Ratio decidendi che è rimasta dall’odierno ricorrente non (quantomeno idoneamente) censurata quanto alla dedotta tracciabilità della sacca di sangue nella specie utilizzata, a fortiori in ragione della mancata osservanza del requisito a pena d’inammissibilità richiesto all’art. 366 c.p.c., 1 co. n. 6, relativamente agli atti e ai documenti e alle circostanze del giudizio di merito (in particolare con riferimento alla “confezione… consegnata sterile e sigillata al personale sanitario che ne verificava (solo) la compatibilità rispetto al donatario”, ai controlli effettuati dalla “struttura sanitaria”) su cui fonda le proprie censure, altresì comportanti accertamenti di fatto invero preclusi a questa Corte di legittimità, e una rivalutazione delle emergenze probatorie, laddove solamente al giudice di merito spetta individuare le fonti del proprio convincimento e a tale fine valutare le prove, controllarne la attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, non potendo in sede di legittimità riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, atteso il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte Suprema di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. in particolare Cass., 14/3/2006, n. 5443).

Quanto al 2 motivo, va in particolare osservato che il principio secondo cui l’ammontare del danno biologico spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato e non già a quella probabile, in quanto la durata della vita futura in tal caso non costituisce più un valore ancorato alla mera probabilità statistica ma è un dato noto (v. Cass., 29/12/2021, n. 41933; Cass., 26/5/2016, n. 10897; Cass., 18/1/2016, n. 679), si applica invero, come nell’impugnata sentenza posto correttamente in rilevo, solo nel caso in cui la persona offesa sia deceduta per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito, e non anche allorquando come nella specie la morte sia stata viceversa direttamente cagionata dall’illecito, essendo la persona deceduta proprio in conseguenza della patologia contratta all’esito della subita trasfusione con sangue infetto, e non già per cause da essa indipendenti.

Trova in tal caso infatti applicazione il principio affermato da questa Corte in base al quale la menomazione non reversibile dell’integrità della persona (idonea, cioè, ad incidere stabilmente e continuativamente sull’esplicazione della personalità lungo il presumibile arco della vita futura del soggetto che la patisce) presuppone che la persona sopravviva almeno temporaneamente al fatto lesivo e, presentandosi con i connotati del danno permanente, va risarcita con le corrispondenti tecniche di valutazione probabilistica (v. Cass., 11/7/2003, n. 10942; Cass., 25/2/2002, n. 2741; Cass., 7/4/1998, n. 3561; Cass., 2/3/1995, n. 2450).

Orbene, di tale principio la corte di merito ha nell’impugnata sentenza fatto invero piena e corretta applicazione là dove ha affermato non essere nel caso applicabile il principio in tema di “risarcimento del danno non patrimoniale da liquidare in favore degli eredi” secondo cui qualora al momento della liquidazione del danno biologico la persona offesa sia deceduta per una causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito, alla valutazione probabilistica va sostituita quella del concreto danno effettivamente prodottosi e richiesto dagli eredi iure successionis, in quanto la morte della persona sopravvenuta prima della liquidazione del risarcimento rende misurabile e rapportabile alla durata della vita successiva alla menomazione l’incidenza negativa da questa arrecata (v. Cass., 11/7/2003, n. 10942; Cass., 25/2/2002, n. 2741; Cass., 7/4/1998, n. 3561; Cass., 2/3/1995, n. 2450), giacché la liquidazione del concreto danno effettivamente prodottosi e richiesto dagli eredi iure successionis in luogo della relativa valutazione probabilistica non è “nella specie… possibile”, in quanto “nel caso in esame la morte è stata attribuita (ed in misura assolutamente preponderante) dallo stesso CTU all’epatocarcinoma a sua volta cagionato dalla patologia epatica derivata dalla trasfusione”.

La corte di merito ha pertanto conseguentemente correttamente eliminato “la decurtazione” al riguardo a tale titolo apportata dal giudice di prime cure.

Va per altro verso osservato che, diversamente da quanto richiesto dall’odierno ricorrente non può farsi nella specie luogo al defalco dell’indennizzo ex lege ex L. n. 210 del 1992 con riferimento non solo al “percepito stimato alla data del decesso” ma anche ai percipiendi ratei futuri, giacché con il decesso del beneficiario cessa l’obbligo di relativa corresponsione, e il danneggiante verrebbe in quest’ultimo caso a trarre inammissibilmente vantaggio dal proprio illecito.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo in favore in favore di ciascuna parte controricorrente, seguono la soccombenza.

Non è viceversa a farsi luogo a pronunzia in ordine alle spese del giudizio di cassazione in favore degli alti intimati, non avendo i medesimi svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 5.000,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge, in favore della controricorrente Regione Campania; in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 5.000,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge, in favore del controricorrente M.V. -in proprio e nella qualità di eredi della defunta sig. C.A. .


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