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Quando il datore di lavoro può licenziare per giusta causa?

30 Novembre 2022 | Autore:
Quando il datore di lavoro può licenziare per giusta causa?

Licenziamento disciplinare non solo per la violazione del codice disciplinare, ma anche di norme di legge e di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione.

Potrebbe succedere che il datore di lavoro licenzi in tronco il dipendente per aver commesso dei comportamenti ritenuti assai gravi seppur non espressamente indicati né dal contratto collettivo, né dal codice disciplinare. Tale atto potrebbe ritenersi ugualmente legittimo? Quando il datore di lavoro può licenziare per giusta causa? 

Le condotte che possono comportare l’immediata risoluzione del rapporto di lavoro – senza quindi la concessione del preavviso – non sono un “numero chiuso”: non esiste cioè un elenco tassativo. Fermo solo il divieto che impedisce al datore di sanzionare in modo più severo (ad esempio, con il licenziamento) ciò che il Ccnl sanziona in modo più blando, l’azienda è comunque libera di qualificare autonomamente determinati fatti illeciti come “gravi” pur in assenza di un’esplicita previsione contenuta in una legge, nel contratto di lavoro individuale o in quello collettivo. 

Ed è proprio su tale giudizio, in un primo momento operato dal datore, che si consuma, di solito, il conflitto in sede giudiziale tra quest’ultimo e il dipendente che contesta il licenziamento ritenendolo sproporzionato. Ma è bene sapere che, a seguito del Jobs Act, qualora il giudice dovesse dichiarare illegittimo il licenziamento poiché, al suo posto, doveva essere assunta una sanzione meno severa, al lavoratore spetterà solo il risarcimento del danno. La reintegra sul posto invece può essere accordata solo se il fatto contestato non è mai stato commesso o se non può considerarsi illecito. 

Detto ciò, vediamo, più nel dettaglio, quando il datore di lavoro può licenziare per giusta causa ossia “in tronco”. Fermo restando che qualsiasi elencazione non potrà, come anticipato, essere esaustiva, proveremo innanzitutto a fornire una definizione generale e, in un momento successivo, a fare qualche esempio pratico.

Licenziamento per giusta causa

Il licenziamento per giusta causa, senza cioè preavviso, è una delle due forme di licenziamento disciplinare, quello cioè conseguente a gravi violazioni del lavoratore. 

Il licenziamento per giusta causa si caratterizza per il fatto che il comportamento contestato al lavoratore è ritenuto di gravità massima, tanto da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro neanche per un solo giorno. 

Ecco perché la caratteristica del licenziamento per giusta causa è che esso avviene senza preavviso: ha cioè effetti immediati. Pertanto, già dal giorno successivo al ricevimento della lettera di licenziamento, il dipendente non deve più presentarsi in azienda e perde il diritto allo stipendio. 

La seconda forma di licenziamento disciplinare è il licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Anche in questo caso siamo dinanzi a una grave violazione del dipendente che rompe definitivamente il legame di fiducia con il datore di lavoro ma, a differenza della giusta causa, in tale ipotesi il rapporto di lavoro prosegue fino alla scadenza del periodo di preavviso indicato nel contratto collettivo. Resta ferma la facoltà di rinuncia al periodo di preavviso sia da parte del datore di lavoro (che però dovrà indennizzare il dipendente, nell’ultima busta paga, con il versamento di una indennità sostitutiva) sia da parte del dipendente (in tal caso, non avrà però diritto all’indennità). 

Procedura licenziamento disciplinare 

In entrambi i casi di licenziamento disciplinare – sia quello per giusta causa che per giustificato motivo soggettivo – il datore di lavoro non può comunicare direttamente il provvedimento di risoluzione del rapporto di lavoro al dipendente. Deve prima attivare una procedura che gli consenta di conoscere le accuse che gli vengono mosse e difendersi. Ecco perché la legge stabilisce che il licenziamento disciplinare si articoli nelle seguenti fasi:

  • comunicazione per iscritto della lettera di contestazione disciplinare in cui, in modo chiaro e circostanziato, il datore informa il dipendente delle condotte illecite attribuitegli. Tale contestazione deve essere “immediata”, nel senso che non può giungere dopo troppo tempo dai fatti in contestazione, pena la sua illegittimità. E ciò perché il decorso del tempo può far perdere la memoria dei fatti e la possibilità di raccogliere le prove in proprio favore;
  • concessione di 5 giorni di tempo per presentare memorie scritte. In aggiunta o in sostituzione a tali memorie, il dipendente può chiedere di essere sentito personalmente dal datore di lavoro o da un suo delegato. Il lavoratore, in questa fase, può presentarsi da solo o farsi assistere da un sindacalista. È invece escluso il diritto a farsi accompagnare dal proprio avvocato. Il datore di lavoro, anche se riceve immediatamente la lettera di risposta del dipendente, non può assumere alcuna decisione prima dello scadere del quinto giorno;
  • comunicazione della decisione definitiva con l’adozione dell’eventuale sanzione disciplinare. Le sanzioni disciplinari possono essere di due tipi: conservative (rimprovero scritto, multa, sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, trasferimento) o non conservative (licenziamento). 

Quando c’è licenziamento per giusta causa?

Si è detto che il licenziamento per giusta causa viene adottato per le violazioni più gravi commesse dal dipendente: quelle cioè che fanno ritenere ormai definitivamente incrinato il rapporto di fiducia tra le parti tanto da potersi presumere che il dipendente non svolgerà più correttamente la propria prestazione. Ecco perché il licenziamento disciplinare ha effetto immediato. Esso cambia in modo definitivo il rapporto di stima che c’era prima tra datore e lavoratore.

Il licenziamento per giusta causa scatta non solo per le condotte dolose, commesse cioè in malafede, con la consapevolezza di ledere il datore di lavoro, ma anche per quelle colpose, che cioè derivano da comportamenti imprudenti, negligenti o imperiti.

Ciò che rileva ai fini del licenziamento per giusta causa è la gravità della condotta e non necessariamente la gravità del danno per l’azienda. Tanto per fare qualche esempio è ammesso il licenziamento per tentativo di furto poi scoperto, quindi senza conseguenze economiche per l’azienda; ed è ammesso nei confronti della guardia giurata che abbandona il posto di controllo, anche se poi il cliente non subisce alcun pericolo concreto.  

Per la violazione di quali norme scatta il licenziamento per giusta causa?

Di solito, è il contratto collettivo nazionale di categoria (CCNL) a indicare i comportamenti la cui violazione implica il licenziamento per giusta causa. Esso può poi essere integrato dal regolamento aziendale. Ma attenzione: non sono elencazioni esaustive. Ben può il datore di lavoro ritenere giustificabile il licenziamento per giusta causa anche per la violazione di norme di legge (ad esempio lo spaccio di droghe, il riciclaggio o il prestito usurario: attività queste che danneggerebbero l’immagine dell’azienda).

Non in ultimo, il dipendente può subire il licenziamento per la violazione dei generali obblighi che incombono su di lui ai sensi del Codice civile: dovere di fedeltà (si pensi al dipendente che pubblica un post su un social con cui deride la propria azienda), obbedienza (si pensi al dipendente che pone un atto di insubordinazione rifiutandosi di compiere le mansioni che gli vengono attribuite) e di non concorrenza (si pensi a un dipendente che svolga un secondo lavoro per un concorrente del proprio datore). 

C’è solo un limite, come anticipato in apertura: il datore di lavoro non può comminare il licenziamento a fronte di una condotta sanzionata meno severamente dal Ccnl.

Per consolidata giurisprudenza [1], ai fini della validità del licenziamento disciplinare non è necessaria la preventiva affissione del codice disciplinare laddove i fatti contestati integrino una violazione di norme di legge o di doveri fondamentali incombenti sul lavoratore e riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione [2].  

Esempi licenziamento per giusta causa

Ecco alcuni dei più frequenti comportamenti che, negli ultimi anni, sono stati ritenuti dalla giurisprudenza causa di licenziamento in tronco, ossia per giusta causa:

  • falsa certificazione medica di malattia;
  • simulazione di malattia;
  • furto in azienda;
  • minacce al datore di lavoro;
  • rifiuto di svolgere mansioni presso la nuova sede di lavoro ove il dipendente è stato trasferito;
  • assenza ingiustificata per più giorni;
  • divulgazione di segreti aziendali;
  • attività in concorrenza con il datore di lavoro a titolo personale o di dipendente di altra azienda;
  • spaccio di droga;
  • altri gravi reati;
  • critiche e ingiurie rivolte sul social nei confronti del datore di lavoro;
  • rifiuto di svolgere mansioni;
  • uso personale di strumenti aziendali.

Approfondimenti

Casi di licenziamento per giusta causa

Licenziamento per giusta causa: esempi


note

[1] Cass. Sez. Lav., 21 ottobre 2022, n. 31150 

[2] Cass. 6893/2018.

Autore immagine: depositphotos.com

Corte di Cassazione Sezione Lavoro Civile Sentenza 21 ottobre 2022 n. 31150

Data udienza 8 giugno 2022

Integrale

Impiego privatizzato – Licenziamento – Ricorso per cassazione – Censure inammissibili

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere

Dott. PICCONE Valeria – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 31131-2018 proposto da:

(OMISSIS), domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);

– ricorrente –

contro

(OMISSIS) S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS);

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 408/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 31/10/2017 R.G.N. 689/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/06/2022 dal Consigliere Dott. PICCONE VALERIA;

il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA MARIO visto il Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137, articolo 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza n. 408 del 2017, la Corte di appello di Venezia, definitivamente pronunziando nel giudizio di rinvio conseguente alla sentenza di questa Corte n. 8236 del 2016, ha respinto l’appello di (OMISSIS) avverso la decisione del Tribunale di Tolmezzo che aveva ritenuto la legittimita’ del licenziamento intimato al ricorrente per giusta causa dalla societa’ (OMISSIS) s.r.l. con lettera del 27 giugno 2008.

1.1. In particolare, il giudice di secondo grado, adito in sede di rinvio, ha ritenuto di condividere l’iter motivazionale del primo giudice e, nell’effettuare un nuovo esame con riferimento ai profili oggettivi e fattuali dell’episodio oggetto di illecito disciplinare ascritto al lavoratore, come richiesto in sede di legittimita’, ha ritenuto giustificata l’adozione della massima sanzione disciplinare nei confronti del ricorrente cui era stato contestato di aver eseguito, durante l’orario di lavoro, attivita’ personali, allontanandosi dalla propria postazione di lavoro senza permesso ed utilizzando attrezzature cui non era stato preventivamente addestrato.

2. Per la cassazione della sentenza propone ricorso (OMISSIS), affidandolo a quattro motivi.

2.1. Resiste, con controricorso, (OMISSIS) s.r.l..

2.3. Entrambe le parti hanno presentato memorie.

3. Il Procuratore Generale, nella propria requisitoria, ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, articoli 384 e 116 c.p.c., articolo 2697 c.c., L. n. 604 del 1966, articolo 5 e articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4, parte ricorrente censura la decisione impugnata per aver omesso di esaminare e motivare sulle risultanze documentali e testimoniali circa la “natura della pressa” manuale, la “pericolosita'” della stessa il “tempo” necessario a piegare i pezzi ovvero i “profili oggettivi e fattuali oggetto di addebito disciplinare” come richiesto dalla Suprema Corte nel disporre il rinvio.

1.1. Con il secondo motivo si allega ancora la violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4, articoli 116 e 384 c.p.c., L. n. 604 del 1966, articoli 2, 3 e 5 in relazione all’articolo 360, comma 1, n. 3, nonche’ vizio logico circa la durata dell’allontanamento dalla postazione di lavoro, la facolta’ di utilizzare la pressa e la piegatura di 4, 5 piccoli pezzi, fatti tutti da ritenersi non provati per la falsita’ delle dichiarazioni rese dal teste (OMISSIS), l’omesso esame delle risultanze documentali e in particolare lettera di assunzione, raccomandata di impugnazione del licenziamento, verbali di udienza.

1.2. Con il terzo motivo si deduce ancora la violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4, articoli 116 e 384 c.p.c., L. n. 604 del 1966, articoli 2, 3 e 5 in relazione all’articolo 360, comma 1, n. 3, nonche’ vizio logico circa la lettera di assunzione e l’impugnativa del licenziamento con riguardo alle mansioni ed alla autonomia del ricorrente circa le attrezzature complesse.

1.3. Con il quarto motivo si allega la violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4, articoli 116 e 384 c.p.c., L. n. 604 del 1966, articoli 2, 3 e 5, della L. n. 300 del 1970, articolo 7 con riguardo alla mancata affissione del codice disciplinare e alla mancata pubblicita’ circa il divieto di utilizzazione della pressa.

2. I quattro motivi, da esaminarsi congiuntamente per ragioni logico sistematiche, oltre ad essere inammissibilmente formulati in modo promiscuo, tale da rendere impossibile l’operazione di interpretazione e sussunzione delle censure denunciando violazioni di legge o di contratto e vizi di motivazione senza che nell’ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, determinando una situazione di inestricabile promiscuita’ (v., in particolare, sul punto, Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 17931 del 2013; Cass. n. 7394 del 2010; Cass. n. 20355 del 2008; Cass. n. 9470 del 2008), nella sostanza contestano l’accertamento operato dalla Corte territoriale in ordine alla ritenuta legittimita’ del licenziamento, criticando sotto vari profili la valutazione dalla stessa compiuta con doglianze intrise di circostanze fattuali, mediante un pervasivo rinvio a deposizioni testimoniali e documenti.

2.1. Giova premettere che ogni qualvolta si rinviene, nell’atto introduttivo del presente giudizio, quale motivo di ricorso, la deduzione concernente l’omesso esame o il vizio logico – da riqualificarsi ex articolo 360, comma 1, n. 5 anziche’ ex articolo 360, comma 1, n. 4 – si verte nell’ambito di una valutazione di fatto totalmente sottratta al sindacato di legittimita’, in quanto in seguito alla riformulazione dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, al di fuori dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti, il controllo del vizio di legittimita’ rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’articolo 111 Cost., comma 6, ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorieta’; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4) e che determinano la nullita’ della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validita’ (fra le piu’ recenti, Cass. n. 13428 del 2020; Cass. n. 23940 del 2017).

2.1.1. In particolare va ricordato che l’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal Decreto Legge n. 83 del 2012, conv. dalla L. n. 143 del 2012, prevede l'”omesso esame” come riferito ad “un fatto decisivo per il giudizio” ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico – naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilita’ delle censure irritualmente formulate (cfr. sul punto, Cass. n. 2268 del 2022).

2.2. Occorre poi, evidenziare che, secondo quanto statuito recentemente dalle Sezioni Unite, per la violazione delle disposizioni che presiedono all’ammissione delle prove, e’ necessario denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione delle relative norme, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilita’ di ricorrere al notorio), mentre e’ inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (cfr., SU n. 20867 del 20/09/2020).

Inoltre, anche una violazione dell’articolo 116 c.p.c., non puo’ porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo allorche’ si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960).

2.3. Relativamente, quindi, alla denunziata violazione dell’articolo 2697 c.c., va osservato che, per consolidata giurisprudenza di legittimita’, (explurimis, Cass. n. 18092 del 2020) la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’articolo 2697 c.c. e’ configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma e che tale ipotesi non ricorre nel caso di specie, in particolar modo in quanto, pur veicolando parte ricorrente la richiama o di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero di criteri n. V desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali ma anche dalla disciplina particolare, collettiva, come nel caso in esame, in cui si colloca la fattispecie. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro errata individuazione e’ deducibile in sede di legittimita’ come violazione di legge (explurimis, Cass. n. 13453 del 2019 cit., Cass. n. 6901 del 2016; Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 6498 del 2012; Cass. n. 25144 del 2010).

3.2. Conseguentemente, non si sottrae al controllo di questa Corte il profilo della correttezza del metodo seguito nell’individuazione dei parametri integrativi, perche’, pur essendo necessario compiere opzioni di valore su regole o criteri etici o di costume o propri di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici, “tali regole sono tuttavia recepite dalle norme giuridiche che, utilizzando concetti indeterminati, fanno appunto ad esse riferimento” (per tutte v. Cass. n. 434 del 1999), traducendosi in un’attivita’ di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa (cfr. Cass. n. 13453 del 2019 cit., Cass. n. 5026 del 2004; Cass. n. 10058 del 2005; Cass. n. 8017 del 2006).

Nondimeno, va sottolineato che l’attivita’ di integrazione del precetto normativo di cui all’articolo 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito e’ sindacabile in cassazione a condizione, pero’, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori.

3.3. Sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice del merito, opera l’accertamento della concreta ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e sue specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta causa eli licenziamento; quindi occorre distinguere: e’ solo l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e conserve una censura per violazione di legge; mentre l’applicazione in concreto del piu’ specifico canone integrativo cosi’ ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilita’ del caso concreto nella fattispecie generale e astratta” (in termini ancora Cass. n. 18247/2009 e n. 7838/2005 citate).

Questa Corte precisa, pertanto, che “spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialita’, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilita’ – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa” (cosi’, in motivazione, Cass. n. 15661 del 2001, nonche’ la giurisprudenza ivi citata).

3.4. Tale distinzione, operante per le clausole generali condiziona la verifica dell’errore di sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa, ascrivibile, per risalente tradizione giurisprudenziale (v. in proposito Cass. SS.UU. n. 5 del 2001), al vizio di cui al n. 3 dell’articolo 360 c.p.c., comma 1 (di recente si segnala Cass. n. 13747 del 2018); e’, infatti, solo l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge: l’applicazione in concreto del piu’ specifico canone integrativo cosi’ ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilita’ del caso concreto nella fattispecie generale e astratta” (sul punto, fra le altre, Cass. n. 18247 del 2009 e n. 7838 del 2005).

4. Nel caso di specie, appare evidente che la censura, veicolata per il tramite dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, in realta’ corre lungo i binari della censura fattuale in quanto mira ad una diversa ricostruzione della fattispecie oltre che ad una inammissibile diversa valutazione delle risultanze istruttorie di primo grado.

Parte ricorrente, infatti, pur denunciando, apparentemente, una violazione di legge, chiede in realta’ alla Corte di pronunciarsi sulla valutazione di fatto compiuta dal giudice in ordine alle conclusioni raggiunte con riguardo alla sussistenza della lamentata grave lesione del vincolo fiduciario mentre le argomentazioni da essa sostenute si limitano a criticare sotto vari profili la valutazione compiuta dalla Corte d’Appello, con doglianze intrise di circostanze fattuali mediante un pervasivo rinvio ad attivita’ asseritamente compiute nelle fasi precedenti ed attinenti ad aspetti di mero fatto, tentandosi di portare di nuovo all’attenzione del giudice di legittimita’ una valutazione di merito, inerente il contenuto dell’accertamento compiuto circa il comportamento tenuto dal ricorrente e la rilevanza dello stesso nell’ambito del complessivo assetto contrattuale.

Quanto, in particolare, alla mancata affissione del codice disciplinare, va rilevato che, per consolidata giurisprudenza di legittimita’ (fra le tante, Cass. n. 6893 del 2018) ai fini della validita’ del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non e’ necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessita’ di specifica previsione – come e’ stato ritenuto nel caso di specie – ne’ puo’ assumere rilievo l’assenza di pubblicita’ circa il divieto di utilizzazione della pressa, avendo la Corte argomentato circa la gravita’ dell’illecito in considerazione delle mansioni svelte dal ricorrente nonche’ dell’assenza di addestramento all’uso del macchinari() in questione.

5. Alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve essere respinto.

6. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

6.1. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’articolo 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali, in favore della parte controricorrente, che liquida in Euro 4000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’articolo 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Sommario

Corte di Cassazione|Sezione L|Civile|Sentenza|21 ottobre 2022| n. 31150

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