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Infarto per troppo lavoro: come si prova?

1 Dicembre 2022 | Autore:
Infarto per troppo lavoro: come si prova?

Cosa deve dimostrare il lavoratore e cosa può opporre l’azienda: la Cassazione detta i criteri di riparto dell’onere probatorio ai fini del risarcimento danni.

Ti abbiamo già spiegato che in caso di infarto per superlavoro c’è risarcimento: oltre all’indennizzo dovuto dall’Inail, il datore di lavoro che ha preteso dal dipendente carichi eccessivi e umanamente insostenibili ha sicuramente commesso un illecito, e perciò deve pagare i danni al malato o, in caso di morte, ai suoi familiari superstiti. Ma c’è un aspetto essenziale da considerare per arrivare a questo risultato: come si prova l’infarto per troppo lavoro?

Bisogna ricollegare l’evento dannoso – nel nostro caso l’infarto – al fatto che lo ha prodotto, cioè la condotta illecita del datore di lavoro che ha imposto, preteso o anche soltanto tollerato l’esecuzione di prestazioni esorbitanti. Ma dimostrare l’esistenza di questo legame non è facile. L’attacco cardiaco spesso colpisce quando il dipendente si trova fuori dalla sede di lavoro e in un momento in cui non sta svolgendo le sue mansioni, e magari mentre si trova a casa a riposare o è immerso nel sonno. Eppure, quell’infarto può essere riconducibile proprio a quei ritmi lavorativi intollerabili e che a lungo andare hanno compromesso la salute psico-fisica del lavoratore o della lavoratrice.

Gli studi scientifici mostrano un inequivocabile legame di correlazione tra l’intensità dei ritmi ai quali i lavoratori moderni sono sottoposti, in tutti i settori produttivi compreso l’ufficio, e lo sviluppo di malattie cardiovascolari, tra cui l’infarto. Ma questo ancora non basta per arrivare alla dimostrazione specifica che lega i due eventi al caso concreto. La risposta alla domanda su come si prova che l’infarto dovuto al troppo lavoro si trova in una nuova e interessante sentenza della Corte di Cassazione [1]: un dipendente di una Pubblica Amministrazione era stato colpito da infarto e lo aveva attribuito proprio agli eccessivi ritmi di lavoro tenuti nel corso degli anni, che gli avevano provocato prima una depressione, poi un malore e, infine, l’infarto. La sua domanda risarcitoria era stata respinta nei primi due gradi di giudizio, ma gli Ermellini hanno valutato la vicenda in una prospettiva diversa. Vediamo qual è stato il responso della Suprema Corte.

Il  datore di lavoro deve prevenire l’infarto?

L’art. 2087 del Codice civile impone ad ogni datore di lavoro, pubblico o privato di «adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore».

In una prospettiva giuridica, possiamo dire che la violazione di questa norma può ravvisarsi quando, per i più vari fattori e motivi, la prestazione lavorativa, anche in relazione all’ambiente in cui si svolge, è caratterizzata da «nocività» per la salute umana, tenendo però conto che un certo grado di usura psico-fisica è connaturato all’attività svolta e dunque è inevitabile [2].

Quando il superlavoro provoca l’infarto?

La nuova pronuncia della Suprema Corte ha affermato che il superlavoro si verifica quando c’è una prestazione lavorativa «eccedente la tollerabilità, per eccessiva durata o per eccessiva onerosità dei ritmi». E allora si integra l’illecito compiuto dal datore di lavoro, che non ha preservato e garantito adeguatamente la salute dei suoi dipendenti: è un inadempimento contrattuale, che fonda la richiesta risarcitoria del dipendente infortunato o ammalato.

Ma gli Ermellini ribadiscono che il lavoratore colpito da infarto, ai fini del risarcimento, deve «allegare rigorosamente tale inadempimento, evidenziando i relativi fattori di rischio (ad es. modalità qualitative improprie, per ritmi o quantità di produzione insostenibili etc., o secondo misure temporali eccedenti i limiti previsti dalla normativa o comunque in misura irragionevole».

Infarto per superlavoro: come si prova?

L’ordinanza della Cassazione che stiamo analizzando spiega anche cosa fare in termini di prova, e come si ripartisce l’onere tra le due parti coinvolte nella causa risarcitoria, quindi il lavoratore dipendente ed il suo datore di lavoro.

Prova a carico del lavoratore

Il lavoratore colpito da un infarto che ritiene dovuto al superlavoro, e perciò chiede il risarcimento dei danni al datore, deve dimostrare due cose: lo svolgimento di prestazioni che, per intensità o durata protratta, sono andate oltre i limiti della «normale tollerabilità», e il collegamento tra questo superlavoro e l’infarto che ne è derivato (ciò che la giurisprudenza definisce come «nesso causale» tra l’evento dannoso ed il fattore che lo ha provocato).

Prova a discarico del datore di lavoro

Dal canto suo, il datore di lavoro può opporsi alla domanda risarcitoria avanzata dal dipendente, e per farlo con successo ha l’onere di dimostrare che le prestazioni lavorative si erano svolte «secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, con modalità normali, congrue e tollerabili per l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore». Solo in questo modo il datore di lavoro potrà fornire una valida controprova a quanto affermato e sostenuto dal lavoratore, riuscendo a dimostrare di aver adempiuto – spiega la Corte – «il suo dovere di assicurare che l’attività di lavoro sia condotta senza che essa risulti in sé pregiudizievole per l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore». Puoi leggere l’intera pronuncia nel riquadro “sentenza” qui sotto.


note

[1] Cass. ord. n. 34968 del 28.11.2022.

[2] Cass. sent. n. 3028/2013.

Cass. civ., sez. lav., ord., 28 novembre 2022, n. 34968
Presidente Tria – Relatore Bellè

Rilevato in fatto che:

1. T.O. ha agito presso il Tribunale di Roma nei confronti del Ministero della Giustizia esponendo di avere lavorato dapprima presso l’Amministrazione penitenziaria e poi, dal 1981, presso l’Ufficio automezzi di Stato della Direzione Affari Civili, ove il personale era carente, al punto che i ritmi di lavoro cui egli era stato sottoposto risultavano insostenibili, mancando qualsiasi pianificazione e distribuzione dei carichi e dovendosi svolgere, in ambiente disagiato, mansioni inferiori e superiori ed al punto che, a partire dall’anno 2002 aveva maturato sintomi depressivi finendo per essere ritrasferito nel novembre 2000, in esito ad un accentuato malore, all’Amministrazione penitenziaria, patendo poi un infarto nel gennaio del 2001;
il T. aveva quindi agito nei confronti del Ministero per il risarcimento del danno biologico subito per violazione dell’art. 2087 c.c. e delle pertinenti norme del D.Lgs. n. 626 del 1994, oltre ai danni alla professionalità, insistendo in subordine per il riconoscimento dell’ascrivibilità della patologia cardio-vascolare a causa di servizio con accertamento del diritto al pagamento del c.d. equo indennizzo;
2. il Tribunale ha riconosciuto solo il diritto all’equo indennizzo, mentre ha rigettato la domanda risarcitoria, con pronuncia poi confermata dalla Corte d’Appello di Roma;
in assenza di gravame rispetto al tema dell’equo indennizzo, la Corte territoriale riteneva che il ricorrente avesse omesso di contestare la violazione di “una specifica norma, nominata o innominata”, condividendo la motivazione del giudice di prime cure che aveva constatato “la mancanza di un documento attestante il numero dei lavoratori”, necessario per “apprezzare oggettivamente le condizioni di sottodimensionamento” nè la materiale assenza della pianta organica era stata dedotta come “violazione in sé”;
ne concludeva quindi per l’assenza di prova delle violazioni che il T. assumeva essere imputabili al Ministero, essendovi necessità di dimostrazioni dell’elemento soggettivo della colpa, non potendosi ipotizzare una responsabilità oggettiva e dovendosi considerare come il nesso etiologico proprio del riconoscimento del c.d. equo indennizzo si basasse su presupposti differenti rispetto a quelli propri del risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., i quali presuppongono anche la dimostrazione dell’elemento soggettivo, rispetto al quale il ricorrente non aveva fornito elementi probatori sufficienti;
3. T.O. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, resistiti da controricorso del Ministero;
il ricorrente ha depositato memoria.

Considerato in diritto che:

1. il primo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) degli artt. 1218, 2087 e 2697 c.c., nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c., sostenendo che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente giudicato rispetto alle norme che regolano la responsabilità contrattuale del datore di lavoro (art. 2087 c.c.) ed ai principi che governano il riparto degli oneri probatori in tale materia (art. 2697 c.c., e artt. 115 e 116 c.p.c.), in quanto, avendo il ricorrente denunciato l’evento dannoso come ascrivibile alla condotta datoriale di mancato approntamento delle cautele organizzative necessarie a preservare l’integrità dei lavoratori addetti all’ufficio, spettava al Ministero dimostrare l’avvenuta adozione di tutte le misure, nominate ed innominate, utili a tal fine; analoga violazione, sempre ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 2087 e 2697 c.c., è altresì addotta con il secondo motivo sul presupposto che, una volta dimostrata la sussistenza dell’inadempimento e del nesso causale tra inadempimento e danno, non occorre che il lavoratore dimostri anche la colpa in concreto del datore di lavoro, spettando a quest’ultimo la prova della non imputabilità dell’inadempimento;
infine, il terzo motivo denuncia ancora la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) con riferimento agli artt. 2043 e 2697 c.c., ed agli artt. 115 e 116 c.p.c., sostenendo che anche a voler riportare l’ipotesi ad una responsabilità aquiliana, vi sarebbe comunque prova concreta della colpa datoriale;
2. i motivi, da esaminare congiuntamente data la loro connessione,
sono complessivamente fondati nei termini di cui si va a dire;
3. è indubbio che l’azione dispiegata dal ricorrente si riporti ad una fattispecie di responsabilità contrattuale, con essa essendosi inteso denunciare l’inadempimento datoriale rispetto all’assicurazione di condizioni di lavoro idonee a preservare la salute degli addetti, sicché il richiamo della Corte territoriale all’art. 2043 c.c. è in sé errato (v., per i criteri distintivi nella presente materia, Cass., S.U. 8 luglio 2008, n. 18623);
4. l’assetto degli oneri di allegazione e prova in ambito di responsabilità contrattuale ai sensi dell’art. 2087 c.c., è consolidato nella ricorrente massima di questa S.C. secondo cui il lavoratore che agisca ai sensi dell’art. 2087 c.c. ha l’onere di provare l’esistenza del danno subito, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro;
4.1 tale assetto va peraltro calibrato rispetto ai casi, come quello di specie riguardante il verificarsi di un c.d. “superlavoro” ed in cui la nocività addotta consiste nello svolgimento stesso della prestazione;
infatti, lo svolgimento di un lavoro che non sia in sé vietato dalla legge rende fisiologico – e quindi non imputabile a responsabilità datoriale – un certo grado di usura o pregiudizio, variabile sotto il profilo fisio-psichico a seconda del tipo di attività (Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028);
le conseguenze negative che il lavoratore subisce per effetto di un’attività consentita, ma pregiudizievole per la salute sono coperte in via indennitaria dalla sola assicurazione pubblica, per la cui attivazione è sufficiente, come è noto, il mero ricorrere di una “occasione” di lavoro;
se tuttavia il lavoratore assuma che un’attività in sé legittima (qui, l’impiego in un ufficio pubblico) si sia in concreto svolta secondo modalità devianti da quelle ordinariamente proprie di essa e che proprio da ciò sia derivato a lui un danno, egli persegue un risarcimento del danno dalla sua controparte;
non può poi esservi dubbio che, quando si persegue un siffatto risarcimento quale conseguenza non di fattori “esogeni”, ma proprio per effetto in sé dell’attività lavorativa, quello che viene addotto è l’inadempimento datoriale all’obbligo di garantire che lo svolgimento del lavoro non sia fonte di pregiudizio indebito, nel senso di eccedente l’usura psicofisica connaturata all’esecuzione di quell’attività;
4.2 d’altra parte, in tema di demansionamento, che appunto consiste in un’attribuzione di mansioni inadeguate rispetto a quelle contrattualmente dovute, si è consolidato l’indirizzo, mutuato dall’originario e generale impianto di Cass., S.U., 30 ottobre 2001, n. 13533, per cui il lavoratore “allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o venga dedotto un demansionamento riconducibili ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro… è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio generale risultante dall’art. 1218 c.c., da un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile” (Cass. 6 marzo 2006, n. 4766, e più di recente Cass. 20 aprile 2018, n. 9901; Cass. 18 gennaio 2018, n. 1169; Cass. 3 marzo 2016, n. 4211);
è ben vero che, secondo Cass., S.U., 13533/2001, cit., un tale assetto probatorio vale solo per le obbligazioni di “fare”, mentre rispetto a quelle di “non fare” l’onere di provare l’inadempimento grava sul creditore;
peraltro, l’art. 2087 c.c., stabilisce che il datore di lavoro è “tenuto ad adottare”, “nell’esercizio dell’impresa”, vale a dire dell’attività rispetto alla quale egli dirige e controlla le prestazioni del lavoratore, “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e le tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore”;
è poi evidente che il potere direttivo, in cui si manifesta “l’esercizio dell’impresa” o la diversa attività considerata (qui, il lavoro in un pubblico ufficio) si esprime, rispetto agli obblighi di sicurezza, sia con componenti positive, nel senso che il datore può dover positivamente intervenire con forme di prevenzione o impedimento di situazioni dannose, sia attraverso componenti lato sensu negative, vale a dire che il datore di lavoro deve evitare di richiedere l’esecuzione della prestazione con modalità improprie;
in realtà l’obbligazione di sicurezza si materializza in un intreccio indissolubile di fattori “di fare” e di “non fare”, ma essa va colta nella sua unitarietà come dovere di garantire che lo svolgimento del lavoro non sia fonte di pregiudizio per il lavoratore e quindi come obbligazione di fare consistente nell’obbligo di attribuire, pretendere e ricevere dal lavoratore una qualità e quantità di prestazione che sia coerente “con la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica”, in modo che non derivi pregiudizio alli “integrità fisica” ed alla “personalità morale del lavoratore” (così, esplicitamente, proprio l’art. 2087 c.c.);
il caso del “superlavoro”, che viene qui in evidenza e che è stato più volte affrontato da questa S.C. fin dall’originaria Cass. 14 febbraio 1997, n. 8267, manifesta in modo evidente tale intreccio, in quanto esso può intercettare profili violativi di obblighi di astensione (dal richiedere prestazioni eccessive), ma anche di obblighi positivi (non avere impedito lo svolgimento del lavoro con quelle modalità ed averne anzi ricevuto – v. Cass. 8 maggio 2014, n. 9945 – gli effetti produttivi utili, di rilievo specie in organizzazioni complesse in cui la scala gerarchica sia plurima ed il potere di impartire direttive ai lavoratori di un certo preposto conviva con quello di chi si collochi ancora al disopra e sia tenuto ad impedire che siano pretese eventuali lavorazioni incongrue);
da ciò deriva pianamente, secondo i principi di cui a Cass., S.U., 13533/2001 cit., che il lavoratore a cui sia stato richiesto un lavoro eccedente la tollerabilità, per eccessiva durata o per eccessiva onerosità dei ritmi, lamenta un inesatto adempimento altrui rispetto a tale obbligo di sicurezza, sicché egli è tenuto ad allegare rigorosamente tale inadempimento, evidenziando i relativi fattori di rischio (ad es. modalità qualitative improprie, per ritmi o quantità di produzione insostenibili etc., o secondo misure temporali eccedenti i limiti previsti dalla normativa o comunque in misura irragionevole, spettando invece al datore dimostrare che i carichi di lavoro erano normali, congrui e tollerabili o che ricorreva una diversa causa che rendeva l’accaduto a sé non imputabile;
5. nel caso di specie, la Corte territoriale, asserendo che mancherebbe la prova delle violazioni che il ricorrente assume essere imputabili al Ministero, lo fa con affermazioni non del tutto univoche, ma che appaiono riconducibili, per un verso, alla mancata indicazione “di una specifica norma, nominata o innominata” a fondamento dell’inadempimento;
si tratta tuttavia di affermazione errata, in quanto oltre a non potersi imporre al lavoratore di individuare la violazione di una specifica norma prevenzionistica (Cass. 25 luglio 2022, n. 23187), ancor meno ciò può essere richiesto quando, adducendo la ricorrenza di prestazioni oltre la tollerabilità, è in sé dedotto un inesatto adempimento all’obbligo di sicurezza, indubbiamente onnicomprensivo e che non necessita di altre specificazioni, pur traducendosi poi esso anche in violazione di disposizioni antinfortunistiche (al tempo, D.Lgs. n. 626/194, art. 3 lett. f, poi trasfuso nel D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 15, lett. e, in ordine al “rispetto dei principi ergonomici… nella definizione dei metodi di lavoro e produzione”; art. 4, comma 5, lett. c, poi art. 18, lett. c, D.Lgs. n. 81 del 2008, secondo cui “nell’affidare i compiti ai lavoratori tiene conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza”);
per altro verso, come si evince dal richiamo alla mancanza di documenti sul numero di lavoratori e sulla esistenza o meno di una pianta organica, la Corte d’Appello ragiona e definisce la causa imputando tali carenze al lavoratore, mentre tali profili attengono in realtà alla prova liberatoria cui è tenuto il datore in ordine all’organizzazione adeguata del lavoro;
non diversamente, anche rispetto all’attribuzione di mansioni inferiori (Cass. 4766/2006, cit.) e rispetto alla deduzione per cui il T. doveva fare tutto, sia al di sopra che al di sotto del suo livello di inquadramento, era il datore di lavoro a dover dimostrare, secondo i principi sopra ampiamente richiamati, di avere osservato le regole proprie che governano l’attribuzione dei compiti al dipendente e non era dunque il ricorrente a doverne fornire la prova ed a sottostare agli effetti dell’eventuale mancato assolvimento del corrispondente onere (art. 2697 c.c.);
5.1 il nesso eziologico tra l’infarto e l’attività lavorativa in concreto svolta è poi pacifico ed attestato dal riconoscimento ormai incontestato dell’equo indennizzo per causa di servizio;
è infatti evidente che, allorquando il danno derivi dalla denuncia di un “superlavoro”, il nesso causale riconosciuto per la causa di servizio non può che essere identico a quello per l’azione di danno, quando le due pretese riguardino la medesima attività che risulti così svolta (v. anche Cass. 23187/2022, cit.), spettando al datore liberarsi dalle istanze risarcitorie attraverso la dimostrazione dell’inesistenza di un suo inadempimento;
6. le ragioni di cui sopra portano de plano a disattendere le eccezioni di inammissibilità del ricorso formulate dal Ministero, non ricorrendo nè l’incoerenza dei motivi rispetto alla giurisprudenza di questa S.C., nè il risalire delle censure ad una pretesa di riesame del merito, fondandosi esse invece principalmente sull’inosservanza delle norme sul riparto degli oneri probatori;
7. con la cassazione della sentenza il giudizio sulla responsabilità datoriale dovrà quindi essere svolto ex novo, tenendo conto dell’assetto degli oneri probatori quale sopra delineato;
8. può anche definirsi il seguente principio: “in tema di azione per risarcimento, ai sensi dell’art. 2087 c.c., per danni cagionati dalla richiesta o accettazione di un’attività lavorativa eccedente rispetto alla ragionevole tollerabilità, il lavoratore è tenuto ad allegare compiutamente lo svolgimento della prestazione secondo le predette modalità nocive ed a provare il nesso causale tra il lavoro così svolto e il danno, mentre spetta al datore di lavoro, stante il suo dovere di assicurare che l’attività di lavoro sia condotta senza che essa risulti in sé pregiudizievole per l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, dimostrare che viceversa la prestazione si è svolta, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, con modalità normali, congrue e tollerabili per l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore”.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione.


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