Diritto all’oblio: ora è più facile farlo valere


La deindicizzazione di una notizia è dovuta nel caso in cui chi la chiede dimostri che le notizie in essa contenute siano manifestamente inesatte.
Da quando Internet è prepotentemente entrato nelle nostre vite ha cambiato anche il nostro modo di conoscere le persone e la realtà che ci circonda. Quante volte, durante una chiacchierata, viene fatto il nome di un conoscente e qualcuno afferma «non lo conosco, cercalo su Instagram o su Facebook e fammelo vedere». Allo stesso modo, prima di acquistare un prodotto andiamo su Internet e cerchiamo le recensioni, come facciamo prima di prenotare la cena in un locale o di acquistare un servizio di un’agenzia. Insomma, ormai funziona così.
Se si guarda questo mondo perennemente online da un’altra prospettiva, però, ci si accorge che quando su Internet una persona, un’azienda, una realtà viene bollata come «negativa» difficilmente riuscirà ad uscirne, e la cosa peggiore è che Internet non dimentica, anche quando si è sbagliato. Per questo esiste il diritto all’oblio, il diritto ad essere dimenticati, il diritto a richiedere ed ottenere la deindicizzazioni di notizie ritenute lesive che interessano la propria persona. E per attuarlo, ha recentemente chiarito la Corte di Giustizia europea, non serve necessariamente un legale di fiducia che, ottenuta una decisione giudiziaria, la fa valere per il proprio cliente, ma è sufficiente che i contenuti di cui si richiede la deindicizzazione siano inesatti.
I giudici internazionali hanno chiarito l’importante principio secondo cui il gestore di un motore di ricerca deve deindicizzare le informazioni, rendendole di fatto invisibili, se chi ne richiede la deindicizzazione dimostra che sono manifestamente inesatte. Lo ha stabilito la Corte di Giustizia dell’Ue, in una sentenza [1] relativa ad una causa che coinvolge Google e una società di investimenti, che si era rivolta alla società californiana affinché deindicizzasse alcuni contenuti che criticavano il modello di business fornito, tramite articoli e immagini che alludevano a stili di vita dissoluti, e che la stessa società riteneva inesatti e lesivi per la propria attività.
Per tutta risposta Google si era rifiutata di deindicizzarli, affermando che ignorava se i contenuti riportati fossero inesatti o meno. La Corte federale di giustizia della Germania, investita della questione, si è rivolta alla Corte di Giustizia dell’Ue per ottenere alcuni chiarimenti in merito alla tutela del diritto all’oblio nel regolamento europeo sulla protezione dei dati.
I giudici di Lussemburgo hanno stabilito che il motore di ricerca deve deindicizzare contenuti ritenuti inesatti, se chi ne fa richiesta ne dimostra l’inesattezza: la prova, aggiungono i giudici, non deve necessariamente risultare da una decisione giudiziaria ottenuta nei confronti dell’editore del sito.
note
[1] Causa C-460/20/Google