Quando lasciare la casa dei genitori?


Quando il figlio è tenuto ad andare via dalla casa del padre e della madre o da quella avuta in comodato da questi ultimi stessi.
In Italia, i figli lasciano la casa dei genitori mediamente a 30 anni. C’è chi lo fa molto prima e chi invece, nonostante i quarant’anni suonati, continua a vivere con la madre e il padre. E quand’anche avvenga il distacco, spesso il figlio va a vivere in un altro immobile di proprietà degli stessi genitori, non avendo soldi a sufficienza né per acquistarne uno per sé, né per pagare l’affitto.
Al di là della generosità e solidarietà che, nell’ambito di una famiglia, è normale che vi sia, da un punto di vista legale è bene tuttavia chiedersi quando lasciare la casa dei genitori, ossia quando il padre e la madre possono obbligare il figlio ad andare via.
Di tanto si è occupata più volte la giurisprudenza sotto un duplice aspetto: quello dell’abbandono del tetto familiare (ove cioè il figlio è cresciuto sin dalla sua tenera età) e quello invece dello sgombero dell’appartamento ricevuto in comodato quando le esigenze abitative siano finite. Ne parleremo qui di seguito.
Indice
Quando i genitori possono mandare via di casa il figlio
Il diritto dei figli di restare a restare a casa dei genitori è legato al dovere dei genitori stessi – previsto dalla Costituzione – di mantenerli fino a quando, divenuti ormai maggiorenni, non raggiungono l’autosufficienza economica.
Dunque non si può mai mandare via di casa un minorenne, anche se lavora. Del resto, fino a 18 anni, i genitori sono responsabili civilmente per le sue azioni (cioè, anche se non rispondono dei suoi reati o altri illeciti, devono comunque risarcire i danni all’eventuale vittima).
Al contrario, per il maggiorenne bisogna fare un vaglio caso per caso: il figlio che ancora si sta formando – ossia studia con profitto – oppure sta cercando attivamente opportunità lavorative ha diritto a rimanere a casa dei genitori.
Quando però il figli rimane inerte, nel senso cioè che né studia, né cerca lavoro, i genitori possono “sfrattarlo”.
Anche se avviene di rado, i genitori possono – volendo – ricorrere al giudice per mandare via di casa il figlio quando questi, pur potendo mantenersi da solo, non lo fa. E ciò non succede solo quando il figlio acquista l’indipendenza economica perché ha ottenuto un lavoro che gli consente di rendersi autonomo. Ma anche quando, pur disoccupato, questi ha acquisito la potenzialità per farlo, ha cioè tutte le carte in regola per mantenersi da solo. Il che avviene quando, terminato o interrotto volontariamente il percorso di studi, il figlio giovane e in salute non si dà da fare per cercare un’occupazione.
Sotto il primo profilo – quello cioè del figlio occupato – c’è da fare alcune precisazioni:
- non è necessario un lavoro stabile e remunerativo: può rilevare anche un lavoro precario, a tempo determinato e non perfettamente in linea con le aspirazioni del giovane;
- il figlio che viene licenziato anche dopo poco tempo dall’ottenimento del posto, ha ormai perso ogni diritto al mantenimento; non rilevano quindi i successivi mutamenti della sua condizione economica. Il diritto ad essere sostenuto dalla madre e dal padre è ormai cessato e non può tornare in vita. Il che significa che non può tornare a bussare alla porta del padre e della madre.
Sotto il secondo profilo – quello cioè del figlio “neet” (acronimo di Not (engaged) in Education, Employment or Training, ossia un giovane che non studia, non frequenta corsi di formazione e non lavora), a detta della Cassazione si può presumere che una persona di 30 anni ancora disoccupata debba attribuire il proprio stato non già all’assenza di offerte da parte del mercato occupazionale ma alla propria inerzia. E ciò perché, superata una certa età, il figlio deve sapersi accontentare di ciò che viene, senza fare troppo lo schizzinoso.
Rispondiamo alla domanda iniziale: quando bisogna lasciare la casa dei genitori? Al massimo dopo 30 anni, almeno per la legge.
L’allontanamento del figlio pericoloso
La legge prevede un particolare strumento per tutti i casi in cui il comportamento del figlio possa essere pericoloso per gli altri conviventi (madre, padre, fratelli e sorelle): si tratta dell’ordine di protezione previsto sia dalla legge civile che penale. Il dovere di allontanarsi dalla casa viene impartito dal giudice tutte le volte in cui vi sono ripetuti episodi di violenza domestica, non solo fisica ma anche psicologica, su ricorso della vittima.
Sul punto leggi gli approfondimenti in:
Ordine di protezione familiare: cos’è?
Quando si può mandare via di casa un figlio?
Quando lasciare la casa dei genitori avuta in prestito
Veniamo ora al caso in cui il figlio, pur abbandonando la casa dei genitori, vada a vivere in un altro immobile avuto in prestito da questi stessi. Il prestito di un bene si definisce comodato. Il comodato di un immobile non richiede un contratto scritto, ben potendo quindi avvenire verbalmente. Ma attenzione: la redazione di un documento scritto, anche senza l’assistenza del notaio, è necessaria per dare al comodato un termine di scadenza. E, senza scadenza, come vedremo a breve, è più difficile mandare via il figlio dalla casa concessagli in comodato.
Difatti la giurisprudenza ha stabilito due casi in cui i genitori, pur volendo, non possono riprendersi la casa.
Partiamo dal presupposto che i genitori diano al figlio un immobile in comodato affinché questi possa soddisfare le proprie esigenze abitative. Il contratto non viene redatto per iscritto e, dunque, non viene fissata una data di scadenza.
Ebbene, se il figlio vive nell’immobile con una donna e con questa ha un figlio, il giudice, in caso di separazione tra i due, può assegnare la casa a quest’ultima. I suoceri quindi non potranno mandarla via finché il figlio non diventa autonomo o comunque è in grado di trovare da sé un’occupazione.
Sul punto leggi Scadenza contratto comodato a tempo indeterminato.
Il secondo caso è quello del figlio che, prima sposato con una donna, poi divorzi da questa e si risposi con un’altra. Anche in tale ipotesi i genitori che gli hanno dato l’immobile per soddisfare le esigenze abitative non potranno riavere indietro il proprio bene. E ciò perché tale esigenza non è appunto cessata, nonostante la modifica del nucleo familiare [1].
note
[1] Secondo infatti il Tribunale di Mantova (sentenza del 21 novembre 2022) il contratto di comodato ancorato nella sua durata al soddisfacimento delle esigenze del figlio comodatario, può continuare a dispiegare la sua efficacia fino a quando tali esigenze persistano, indipendentemente dalla diversa composizione, che successivamente possa assumere, il nucleo familiare, a seguito dello scioglimento del matrimonio.
Nel caso in esame, una madre aveva concesso in comodato al figlio coniugato, un immobile per le sue esigenze familiari, senza stabilire alcuna durata. Sopravvenuta la cessazione degli effetti civili del matrimonio del figlio comodatario ed avendo egli contratto un nuovo matrimonio, con la conseguente costituzione di un nuovo nucleo familiare, la madre chiedeva la risoluzione del contratto di comodato, sul presupposto della intervenuta modifica del nucleo familiare del figlio rispetto a quello esistente all’atto della conclusione del contratto.