La Cassazione e quel refuso sul «caz..»


La Corte di Cassazione, a causa di un comune refuso, ha cancellato una parolaccia di troppo da una precedente sentenza: ecco cos’è successo.
È possibile scrivere parolacce in una sentenza? Capita spesso di trovare in una pronuncia il riassunto di discorsi fatti da parti o testimoni, o stralci delle stesse testimonianze, contenenti parolacce. La giurisprudenza non si scompone di certo per qualche piccola parola poco garbata qua e là. Ma il caso di oggi, che non ha nulla a che vedere con particolari reati, evidenzia come anche i giudici della Suprema Corte di Cassazione, e chi per loro mette nero su bianco il testo della sentenza, possa sbagliare. Così come nelle scorse ore ha detto nel suo discorso per dare le dimissioni la leader neozelandese Jacinda Ardern, non solo i politici sono umani, ma anche i membri di una delle Corti più importanti d’Italia. E capita anche a loro di fare qualche errore.
Con un’ordinanza la Corte di Cassazione ha l’imbarazzante svista in cui era incorsa in una sentenza del 3 giugno 2022, quando, nell’incipit del dispositivo, dopo la locuzione P.Q.M. (per questi motivi) che appunto introduce la decisione finale della Corte, era stato riportato il termine ‘cazzo’, presumibilmente per un errore nato dall’utilizzo di un programma di dettatura vocale del quale tuttavia non si erano accorti né il consigliere estensore né il presidente della sezione che hanno firmato il provvedimento.
Nell’ordinanza, emessa il 13 gennaio 2023, la Suprema Corte parla di un «refuso estraneo al corpo della decisione e del tutto irrilevante rispetto al contenuto della stessa che, pertanto, deve essere espunto mediante la procedura dell’oscuramento».
Anche questa pronuncia, alla fine, ci insegna un importante principio: sbagliare è umano, ciò che conta davvero – anche agli occhi di chi la legge la interpreta e applica quotidianamente – è ammettere di averlo fatto e correggere l’errore.