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Risarcimento danno da super lavoro

2 Marzo 2023 | Autore:
Risarcimento danno da super lavoro

Se il lavoratore è sottoposto per molti anni a turni di lavoro particolarmente intensi e prolungati, viene in rilievo la responsabilità contrattuale del datore di lavoro

Se sei un lavoratore e hai subito danni fisici o psicologici a causa di un carico di lavoro eccessivo e intollerabile, è possibile ottenere un risarcimento del danno da superlavoro. Questa tipologia di danno, infatti, viene riconosciuta dalla giurisprudenza come un evento invalidante per il quale il datore di lavoro può essere ritenuto responsabile in base all’articolo 2087 del Codice civile. Tale norma infatti impone al datore di lavoro di salvaguardare la salute di ogni dipendente. 

In questo articolo, analizzeremo nel dettaglio le condizioni per ottenere il risarcimento, il nesso dei causa-effetto tra il danno subito e il lavoro svolto, e quali sono le prove che devono essere fornite in tribunale.

Stress da lavoro: in cosa consiste?

Il diritto al risarcimento del danno biologico è un tema di grande importanza per la tutela dei lavoratori in Italia. In particolare, la questione della responsabilità contrattuale del datore di lavoro in caso di superlavoro è al centro di numerose controversie giuridiche.

Secondo l’articolo 2087 del Codice civile, il datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte le misure necessarie per preservare l’integrità psico-fisica dei lavoratori in un determinato ambiente. 

Il datore di lavoro, pertanto, ha l’obbligo di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori, evitando l’imposizione di turni di lavoro eccessivi e ritmi intollerabili che potrebbero compromettere la salute dei lavoratori.

Questo implica che, se un lavoratore è sottoposto per molti anni a turni e orari particolarmente intensi e prolungati, ben al di sopra della norma, il datore di lavoro potrebbe essere chiamato a rispondere in sede civile per il danno da superlavoro.

Come ottenere il risarcimento del danno da super lavoro

Il lavoratore che ha subito un danno da super lavoro e che voglia ottenere un risarcimento danni, deve fare ricorso al tribunale con il proprio avvocato e, in quella sede, dimostrare di aver subito un danno e che tale danno dipende dalla protratta esposizione a turni di lavoro “eccedenti la tollerabilità”. A tal fine, è sufficiente che il lavoratore fornisca la prova di essere stato sottoposto a prestazioni oltre la soglia della tollerabilità e provi il nesso causale tra tale situazione e l’infortunio.

Spetta invece al datore di lavoro dimostrare che i carichi di lavoro erano congrui e rientravano nella norma, o che una causa diversa recideva il nesso causale con il rapporto di lavoro.

giurisprudenziali di risarcimento danni per danno da super lavoro e come il giudice valuta il nesso causale tra la prolungata esposizione a turni di lavoro intollerabili e l’evento invalidante subito dal lavoratore.

Risarcimento da stress lavorativo: sentenze dalla Cassazione

La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza [1], ha ribadito che il danno da cosiddetto «superlavoro» si realizza quando il lavoratore è sottoposto per molti anni a turni e orari «particolarmente intensi e prolungati, ben al di sopra della normalità».

Secondo la Corte, ai fini della domanda risarcitoria da superlavoro, basta che il lavoratore alleghi di essere stato sottoposto a prestazioni oltre la soglia della tollerabilità e provi il nesso causale con l’infortunio. In tal caso, per escludere la sua responsabilità, il datore è chiamato a dimostrare che i carichi di lavoro erano congrui e rientravano nella norma, o che una causa diversa recideva il nesso causale con il rapporto di lavoro.

In pratica l’onere della prova in questi casi si inverte: è il datore di lavoro che deve dimostrare di avere adottato ogni cautela per impedire l’evento dannoso ossia il danno alla salute.

La Suprema Corte afferma dunque che, al fine di poter suffragare una richiesta risarcitoria collegata alla imposizione per anni di condizioni intollerabili di lavoro, il dipendente si deve limitare a dimostrare il danno sofferto. L’onere della prova si inverte, in questo caso, ed è il datore a dover dimostrare di avere adottato ogni cautela per impedire l’evento dannoso. La dimostrazione del protratto svolgimento di attività oltre la normale soglia di tollerabilità sul piano dei turni di lavoro è sufficiente per dare conferma di un ambiente di lavoro nocivo e ricollegarvi la responsabilità del datore per l’infortunio.


note

[1] Cass. ord. n. 6008/2023.

Cass. civ., sez. lav., ord., 28 febbraio 2023 n. 6008

Presidente Manna – Relatore Zuliani

Fatti di causa

P.P., dirigente medico di primo livello in ortopedia e traumatologia, dipendente della ASL (Omissis), convenne in giudizio l’azienda datrice di lavoro per chiederne la condanna al risarcimento del danno biologico conseguente all’infarto del miocardio subito a causa del sottodimensionamento dell’organico che l’aveva costretto per molti anni a intollerabili ritmi e turni di lavoro. Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale di Lanciano, in funzione di giudice del lavoro, respinse la domanda, escludendo la responsabilità dell’ASL convenuta ai sensi dell’art. 2087 c.c., tenuto conto che essa non aveva il potere di aumentare l’organico e di assumere altri ortopedici, né di rifiutare ricoveri e prestazioni ai pazienti. Il Dott. P. propose appello contro la sentenza del tribunale, che venne respinto dalla Corte d’Appello di L’Aquila. Contro la sentenza d’appello il Dott. P. ha proposto ricorso articolato in cinque motivi. L’ASL (Omissis) si è difesa con controricorso. Il ricorrente ha depositato memoria nel termine di legge anteriore alla data della camera di consiglio fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)”. 1.1. Oggetto di censura e’, in particolare, l’affermazione del giudice a quo secondo cui la domanda del Dott. P. non sarebbe stata accoglibile per la mancata indicazione della “specifica violazione di ben determinate norme di sicurezza”. 2. Con il secondo motivo si denuncia “ancora violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. in relazione alla Cost., artt. 32, 35 e 41 nonché al D.Lgs. n. 502-92, art. 15, comma 6, (art. 360 c.p.c., n. 3)”. 2.1. Con questo mezzo il ricorrente contesta, da un lato, il giudizio della corte d’appello secondo cui all’ASL non sarebbe imputabile, a titolo di colpa, il mancato adeguamento dell’organico alle esigenze di servizio, dato il divieto legale di assumere altri dipendenti senza l’autorizzazione della Regione; dall’altro lato, l’affermazione secondo cui sarebbe stato lo stesso Dott. P., in quanto dirigente medico, ad adottare i provvedimenti organizzativi determinanti le sue condizioni lavorative. 3. Con il terzo motivo si denuncia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 c.c., 41 e 42 c.p. in relazione all’art. 2087 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)”. 3.1. Viene qui censurato l’accertamento negativo, da parte della corte d’appello, del nesso causale tra il mancato esercizio del potere di proposta di ampliamento dell’organico e l’evento infartuale verificatosi. Il ricorrente rileva che il nesso causale che l’attore deve provare, ai fini dell’accoglimento della domanda di condanna al risarcimento del danno, è solo quello tra prestazioni di lavoro rese in condizioni nocive ed evento, mentre spetta al convenuto provare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno e, quindi, l’impossibilità di evitarlo. 4. I tre motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per la loro stretta connessione, sono fondati nei termini di seguito precisati. 4.1. La sentenza impugnata parte dalla corretta premessa che la responsabilità ai sensi dell’art. 2087 c.c. ha natura contrattuale e che, di conseguenza, “incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze – l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo” (pag. 3 della sentenza impugnata, ove si riporta testualmente, per condividerla, la massima ricavata da Cass. n. 4840-2006). Altrettanto corretta è l’affermazione – anch’essa tratta da un precedente di legittimità (Cass. n. 8855-2013) – secondo cui “la disposizione di cui all’art. 2087 c.c. si qualifica alla stregua di norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, ed impone all’imprenditore l’obbligo di tutelare l’integrità fisio-psichica dei dipendenti con l’adozione – e il mantenimento perfettamente funzionale – di tutte le misure di tipo igienico-sanitario o antinfortunistico idonee, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione nell’ambiente o in circostanza di lavoro anche in relazione ad eventi che non sono coperti specificamente dalla normativa antinfortunistica, giustificandosi l’interpretazione estensiva della cennata norma sia in base al rilievo costituzionale del diritto alla salute (Cost., art. 32), sia per il principio di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) cui deve essere improntato e deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro” (ivi). 4.2. Sennonché, a tali corrette premesse il giudice a quo non ha dato seguito là dove, per respingere la domanda (e l’appello), ha affermato che “l’appellante non ha fornito sufficiente prova, il cui onere era su di lui ricadente, della sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno, che siano in concreto esigibili con riferimento agli standard di sicurezza suggeriti dalle conoscenze del tempo, e di normale adozione nel settore” e che “non risulta neanche dedotta dall’appellante la specifica violazione di ben determinate norme di sicurezza” (pag. 4 della sentenza impugnata). In realtà, ciò che il ricorrente ha allegato – e che anche la corte d’appello risulta avere dato per pacifico – è di essere stato sottoposto per molti anni a un superlavoro, ovverosia a turni ed orari particolarmente intensi e prolungati, ben al di sopra della normalità. 4.3. Ebbene, questa Corte ha avuto recentemente occasione di affermare, in un caso del tutto analogo al presente, alcuni principi di diritto cui va qui data continuità: “il lavoratore a cui sia stato richiesto un lavoro eccedente la tollerabilità, per eccessiva durata o per eccessiva onerosità dei ritmi, lamenta un inesatto adempimento altrui rispetto a tale obbligo di sicurezza, sicché egli è tenuto ad allegare rigorosamente tale inadempimento, evidenziando i relativi fattori di rischio (ad es. modalità qualitative improprie, per ritmi o quantità di produzione insostenibili etc., o secondo misure temporali eccedenti i limiti previsti dalla normativa o comunque in misura irragionevole), spettando invece al datore dimostrare che i carichi di lavoro erano normali, congrui e tollerabili o che ricorreva una diversa causa che rendeva l’accaduto a sé non imputabile”; “oltre a non potersi imporre al lavoratore di individuare la violazione di una specifica norma prevenzionistica (Cass. 25 luglio 2022, n. 23187), ancor meno ciò può essere richiesto quando, adducendo la ricorrenza di prestazioni oltre la tollerabilità, è in sé dedotto un inesatto adempimento all’obbligo di sicurezza, indubbiamente onnicomprensivo e che non necessita di altre specificazioni, pur traducendosi poi esso anche in violazione di disposizioni antinfortunistiche” (Cass. n. 34968-2022). La corte d’appello ha dunque errato nel pretendere dall’attore (e appellante) l’indicazione di “ben determinate norme di sicurezza”, essendo idonea e sufficiente a dimostrare la nocività dell’ambiente di lavoro l’allegazione (e la prova) dello svolgimento prolungato di prestazioni eccedenti un normale e tollerabile orario lavorativo. 4.4. Errato è poi l’inserimento del tema della mancanza di autonomia della ASL nella decisione di assumere altro personale medico nell’ambito della motivazione sul mancato assolvimento degli oneri di allegazione e di prova gravanti sull’attore. Si tratta, infatti, di circostanza che potrebbe eventualmente rilevare quale “diversa causa che rendeva l’accaduto a sé non imputabile”, ovverosia di un aspetto che ricade nell’ambito dell’onere della prova liberatoria gravante sul datore di lavoro convenuto, una volta che il lavoratore abbia provato la nocività delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e il nesso causale tra quest’ultima e l’evento dannoso. In tale ottica, ovverosia nell’ambito dell’accertamento sull’allegazione del datore di lavoro di avere fatto “tutto il possibile per evitare il danno”, il giudice di merito avrebbe dovuto valutare i limiti all’autonomia dell’ASL nella decisione di assumere altro personale medico, unitamente a tutte le altre circostanze di fatto rilevanti, ivi compreso il ruolo dirigenziale del ricorrente all’interno dell’ASL; fermo restando che il prudente apprezzamento delle prove disponibili non è di per sé sindacabile in questa sede di legittimità. 5. Il quarto motivo è così rubricato: “Omessa pronuncia (art. 360 c.p.c., n. 4). Violazione e falsa applicazione degli artt. 61 e 116 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4)”. 5.1. Si censura la parte della sentenza impugnata in cui si afferma che “in atti non vi sia prova sufficiente della sussistenza del necessario rapporto di causalità tra l’attività lavorativa espletata e l’evento infartuale” (pag. 6 della sentenza impugnata). Sostiene, in particolare, il ricorrente che, soprattutto in considerazione del fatto che egli aveva ottenuto il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio ai fini della relativa indennità, il rapporto causale non avrebbe potuto essere negato in assenza di un’apposita consulenza tecnica, di cui egli aveva chiesto, sia pure in via subordinata, l’ammissione. 6.1. Connesso al quarto e’, infine, il quinto motivo, con cui il ricorrente denuncia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 414,61,112 e 116 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4)”. 6.1. Oggetto di censura è in questo caso l’affermazione della corte d’appello secondo cui l’appellante non avrebbe “allegato, né tanto meno provato, quali concreti svantaggi, privazioni ed ostacoli sono derivati dalla menomazione denunciata” e che a tale carenza non “sembra potersi supplire attraverso un accertamento medico-legale…, atteso che la consulenza tecnica d’ufficio costituisce un mezzo di ausilio per il giudice, volto alla più approfondita conoscenza dei fatti già provati dalle parti e la cui interpretazione richieda nozioni tecnico-scientifiche, e non un mezzo di soccorso volto a sopperire alla carenza probatoria della domanda” (pag. 6 della sentenza impugnata). 7. Anche questi motivi sono sostanzialmente fondati. 7.1. Sul piano logico, è evidente che il nesso causale rilevante ai fini del riconoscimento dell’equo indennizzo per la causa di servizio è identico a quello da provare ai fini della condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, quando si faccia riferimento alla medesima prestazione lavorativa e al medesimo evento dannoso (v. Cass. nn. 34968-2022 e n. 23187-2022). Il fatto che sia stata riconosciuta in sede amministrativa la causa di servizio ai fini dell’equo indennizzo e che sia stata prodotta in giudizio la relativa documentazione, se non vale come prova legale (vincolante per il giudice) del nesso causale, ben potrebbe essere prudentemente apprezzata, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., come prova sufficiente di quel nesso, in mancanza di elementi istruttori di segno contrario (Cass. n. 23187-2022). Inoltre, ove sia stata accertata in sede di equo indennizzo la derivazione causale della patologia dall’ambiente di lavoro, opera a favore del lavoratore l’inversione dell’onere della prova prevista dall’art. 2087 c.c., di modo che grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso (Cass. n. 20889-18; conf. Cass. n. 17017-07; Cass. n. 4005-05). Infatti, l’autonomia dei due istituti (equo indennizzo e risarcimento del danno) non esclude che si possa realizzare una vasta area di coincidenza del nesso causale della patologia ai fini sia dell’equo indennizzo sia del risarcimento del danno biologico derivante dalla malattia. A ciò si aggiunga che non è consentito al giudice del merito – perché esula dai limiti del prudente apprezzamento del materiale istruttorio disponibile (art. 116 c.p.c.) – negare rilevanza probatoria alla documentazione tecnica sulla scorta della quale è stato riconosciuto il nesso causale in sede amministrativa, senza alcuna notazione critica circa il contenuto di quella documentazione. 7.2. Infine, giuridicamente errata è l’affermazione, nella sentenza impugnata, secondo cui il ricorrente avrebbe avuto l’onere di allegare “quali concreti svantaggi, privazioni ed ostacoli sono derivati dalla menomazione denunciata”. Ai fini della condanna del responsabile al risarcimento del danno è infatti sufficiente l’allegazione dell’evento dannoso (infarto) e del conseguente danno alla salute, temporaneo e permanente, mentre l’allegazione di altri “concreti svantaggi” è necessaria soltanto ai fini della eventuale richiesta di personalizzazione del danno (v., ex multis, Cass. n. 5865/2021). E per l’accertamento dell’allegato danno alla salute, e della sua effettiva entità, può bene essere disposta una consulenza tecnica d’ufficio c.d. percipiente (che, a differenza di quella deducente, è mezzo di prova), in quanto volta alla diretta percezione di circostanze di fatto non altrimenti accertabili (v., con particolare riguardo alla consulenza medico-legale, Cass. n. 4792/2013). 8. Accolto il ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di L’Aquila, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del presente grado di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di L’Aquila, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del presente grado di legittimità.


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