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Cosa rischia chi denuncia un reato falso?

3 Marzo 2023 | Autore:
Cosa rischia chi denuncia un reato falso?

Tutti i casi in cui è reato comunicare un crimine inesistente alle autorità o ad altre persone o se non si hanno le prove. 

Sei curioso di sapere cosa succede a chi denuncia un reato falso? Ogni anno ci sono molte segnalazioni di reati alle autorità, ma non tutte sono vere. Alcune di queste vengono archiviate per assenza di prove, altre invece risultano del tutto infondate e calunniose. 

In questi casi, chiunque denuncia un crimine falso potrebbe essere soggetto a conseguenze legali di tipo penale. Ma quali sono queste conseguenze? In questo articolo esploreremo il tema in modo approfondito, analizzando le possibili ipotesi che possono verificarsi sia in capo a chi fa una segnalazione falsa alla polizia o ai carabinieri, sia a chi la fa ad un altro privato cittadino. Peraltro è stata proprio la Cassazione, di recente, a stabilire cosa rischia chi denuncia un crimine falso e, come si avrà modo di vedere nel corso del seguente articolo, per far scattare il reato non è necessario procedere a una vera e propria querela alle autorità. Ma procediamo con ordine.

Chi denuncia deve avere le prove?

La denuncia non richiede la contestuale presentazione delle prove. Certo: se si vuole che le indagini corrano spedite e si arrivi ad un’incriminazione penale dell’accusato è sempre bene offrire, a supporto delle proprie dichiarazioni, documentazioni o nomi di eventuali testimoni. Tutto ciò servirà al pubblico ministero, incaricato delle indagini preliminari, di formulare un capo di imputazione e portare a processo l’indagato.

Tuttavia, chi denuncia senza avere le prove non commette, solo per questo, un reato se è in buona fede, ossia se è convinto dell’altrui colpevolezza. Del resto, le dichiarazioni della vittima fanno esse stesse prova. Il reato di calunnia, come si vedrà bene più avanti, scatta solo quando si denuncia una persona sapendo che questa è innocente, ossia quando si agisce in malafede. 

Cosa succede se si denuncia un crimine inesistente?

Ci sono diverse fattispecie di reato in cui può incorrere chi denuncia un crimine falso. Con riserva di parlarne più diffusamente nei successivi paragrafi, qui di seguito le elenchiamo schematicamente:

  • simulazione di reato;
  • calunnia;
  • diffamazione;
  • procurato allarme.

Si tratta di quattro diversi reati, con presupposti differenti, che tuttavia coprono tutte le possibili ipotesi che si possono verificare e rendono così assai pericolosa l’attività di chi, in malafede, denuncia un reato inesistente. Vediamo singolarmente tali ipotesi.

Simulazione di reato

La simulazione di reato consiste nell’indurre le autorità a credere che sia stato commesso un crimine che in realtà non è mai avvenuto. In altre parole, la simulazione di reato avviene quando una persona, volontariamente e consapevolmente, comunica alle autorità di essere stata vittima di un reato che in realtà non si è verificato oppure quando simula le tracce di un reato in modo che possa iniziare un procedimento penale per accertarlo. 

Questa condotta è considerata un reato poiché può causare gravi conseguenze, tra cui l’avvio di indagini inutili, la dispersione di risorse e la perdita di tempo delle forze dell’ordine, nonché la possibile diffamazione della persona accusata erroneamente di aver commesso il reato simulato.

La simulazione di reato è punita con la reclusione vino a tre anni. 

Calunnia

La calunnia consiste nell’incolpare qualcuno di un reato sapendolo innocente, mediante una denuncia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome; oppure consiste nel simulare a carico dello stesso le tracce di un reato.

Affinché sussista il reato occorre che il soggetto agente sia a conoscenza della innocenza dell’incolpato e che la condotta sia idonea a far sorgere un procedimento penale. Quindi non risponde di calunnia chi incolpa qualcuno credendo colpevole ma avendo agito nell’ignoranza delle norme del diritto o in assenza di prove.  

Affinché si possa parlare di calunnia, la denuncia o la querela deve essere sporta alle autorità (carabinieri, polizia, giudice) o ad altro soggetto che abbia l’obbligo di informare le autorità (ad esempio un medico, un insegnante di scuola o un altro pubblico ufficiale).

Perché una persona possa essere condannata per calunnia, è necessario che il fatto attribuito alla vittima sia falso e che l’autore dell’accusa lo sappia o debba saperlo. Inoltre, è necessario che l’accusa sia mossa con l’intenzione di diffamare o di recare danno alla reputazione della vittima.

La pena è la reclusione da 2 a 6 anni.

La diffamazione 

Se non ricorre la calunnia, perché magari il denunciante non si è rivolto alle autorità, si può configurare la diffamazione. La diffamazione potrebbe avvenire anche se il soggetto attivo è convinto dell’altrui colpevolezza ma agisce con leggerezza, senza cioè avere sufficienti prove di ciò che dice. 

Se la calunnia presuppone la denuncia alle autorità, la diffamazione si verifica quando la comunicazione avviene nei confronti di almeno due persone, che siano privati cittadini. Non commette quindi né calunnia, né diffamazione chi parla con un’altra persona e confida a questa di avere sospetti in merito alla colpevolezza di un’altra.

La pena è la reclusione fino a 3 anni. 

Procurato allarme

Il reato di procurato allarme è previsto dall’articolo 656 del codice penale italiano e consiste nel pubblicare (anche online) o diffondere notizie false, esagerate o tendenziose, di carattere allarmistico, al fine di turbare l’ordine pubblico.

Questo reato viene considerato una forma di abuso della libertà di espressione e di informazione, in quanto la diffusione di notizie false e allarmistiche può generare un panico ingiustificato nella popolazione e causare danni alla collettività.

Il reato di procurato allarme può essere commesso attraverso diversi mezzi, come ad esempio la diffusione di false informazioni sui social media o la divulgazione di notizie ingannevoli attraverso mezzi di comunicazione di massa.

La pena prevista per questo reato è la reclusione fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 309 euro.  

Ad esempio comunicare un falso omicidio a un passante rientra nel reato di procurato allarme. Secondo infatti la Cassazione [1] è Irrilevante il fatto che l’annuncio del falso omicidio sia arrivato alle autorità e alle forze dell’ordine attraverso una terza persona. I giudici hanno chiarito che il reato di procurato allarme presso l’autorità si concretizza anche quando l’annuncio di un disastro, di un infortunio o di un pericolo inesistente è mediato, cioè non effettuato direttamente alle forze dell’ordine, bensì a un privato, ma comunque idoneo a provocare la reazione delle autorità.

Dunque, segnalare a una persona un omicidio in realtà mai verificatosi e dare così il “la” a una reazione a catena che culmina nell’inutile allerta delle forze dell’ordine vale una condanna per procurato allarme presso l’autorità.

La ratio della norma va ravvisata, osservano i magistrati, «nell’interesse dello Stato all’ordine pubblico, che si vuole garantire contro tutti i falsi allarmi che distolgono l’autorità costituita dalle ordinarie incombenze. A tal fine va evidenziato che se il disastro è costituito da qualsivoglia evento dannoso di non comune gravità incidente su una pluralità di soggetti e tale da esporre a pericolo un numero indeterminato di persone», allora «l’infortunio è integrato dall’evento dannoso concernente una o più persone che, senza avere i caratteri di gravità e diffusibilità propri del disastro, determini tuttavia un intervento delle autorità di polizia giudiziaria», ossia, in questo caso, «la Squadra Mobile e la Polizia municipale di Perugia». Di conseguenza, «tenuto conto dell’interesse protetto» dal codice penale e costituito dalla «tutela dell’ordine pubblico contro i falsi allarmi», il reato di procurato allarme presso l’autorità «è configurabile anche allorché l’infortunio annunziato sia stato artificiosamente costruito, stante l’equivalenza tra infortunio falso e infortunio inesistente», precisano i giudici.


note

[1] Cass. pen., sez. I, ud. 11 novembre 2022 (dep. 1 marzo 2023), n. 8764

Cass. pen., sez. I, ud. 11 novembre 2022 (dep. 1 marzo 2023), n. 8764

Presidente Boni – Relatore Poscia

Ritenuto in fatto

1.Con la sentenza in epigrafe il Tribunale di Perugia – a seguito di opposizione a decreto penale – ha dichiarato C.D.E. colpevole del reato ascrittogli e lo ha condannato alla pena di Euro 300 di ammenda, oltre al pagamento delle spese processuali.

1.1. Il predetto era imputato del reato di cui all’art. 658 c.p., perché segnalando falsamente ai passanti ed alla polizia l’avvenuta consumazione del delitto di omicidio in danno di un suo amico all’interno dell’appartamento sito in (omissis) , accertato come inesistente, suscitava l’allarme presso l’autorità e persone che esercitano un pubblico servizio. Fatto commesso in (omissis) .

1.2. In particolare, il Tribunale ha ritenuto provata la sussistenza del reato contestato; inoltre, ha dichiarato infondata l’eccezione preliminare rispetto alla irregolarità della notifica del decreto penale di condanna opposto dall’imputato così come/ ha respinto la richiesta di rinvio avanzata dal difensore il quale aveva osservato che alla udienza del 21 dicembre 2021 (data di emissione della sentenza) non era stata prevista la discussione del procedimento.

2. Avverso la predetta sentenza l’imputato, per mezzo dell’avv. L.P. quale sostituto processuale del difensore di ufficio avv. G.L., propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, di seguito riprodotti nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. c.p.p..

2.1. Con il primo lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c) ed e), c.p.p., la nullità della sentenza impugnata per inosservanza ed erronea applicazione della legge processuale e per vizio di motivazione con riferimento alla violazione del diritto di difesa determinata dalla irregolarità della notifica del decreto penale di condanna.

2.2. Con il secondo denuncia, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c) ed e), c.p.p., la nullità della sentenza impugnata per erronea applicazione della legge processuale e per vizio di motivazione con riferimento alla violazione del diritto di difesa dell’imputato rispetto al mancato rinvio della udienza del 21 dicembre 2021, per la quale non era stata prevista la discussione.

2.3. Con il terzo deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c) ed e), c.p.p., l’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla fattispecie criminosa prevista e punita dalla contravvenzione di cui all’art. 658 c.p., per avere ritenuto sussistente la contravvenzione contestata pur in assenza dei presupposti oggettivi della condotta richiesti per il suo perfezionamento.

3. Il ricorrente ha depositato memoria contenente le proprie conclusioni, con la quale ha insistito per l’accoglimento del ricorso ed ha confutato le conclusioni della pubblica accusa.

Considerato in diritto

1. Preliminarmente si osserva che il ricorso in cassazione può essere proposto, come avvenuto nel caso di specie, da un avvocato iscritto nell’albo speciale della Corte di cassazione, nominato quale sostituto dal difensore dell’imputato che invece non sia cassazionista (in senso conforme Cass. Sez. U., Sentenza n. 40517 del 28/4/2016, Rv. 267627, Taysir).

Ciò posto, il ricorso è infondato e, pertanto, deve essere respinto.

2. Anzitutto il primo motivo risulta privo del requisito di specificità poiché esso non si confronta in alcun modo con la motivazione della sentenza impugnata che aveva, tra l’altro, rilevato che la questione della irregolarità della notifica del decreto penale di condanna non era stata sollevata con l’opposizione; inoltre, il ricorrente – nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso – non ha nemmeno allegato alla impugnazione l’atto di opposizione al decreto penale al fine della verifica della deduzione della irregolarità della notifica.

3. Infondato è anche il secondo motivo poiché è il giudice, nell’esercizio dei suoi poteri, a valutare quando l’istruttoria è completata ed a stabilire, quindi, quando il processo deve essere deciso; inoltre, non vi è stata alcuna violazione del diritto di difesa poiché risulta, dal verbale, che il difensore era presente alla udienza nella quale il procedimento è stata deciso e che ha rassegnato le sue conclusioni.

4. Il terzo motivo è inammissibile poiché con esso il ricorrente tende ad una diversa valutazione degli elementi di merito, che come è noto non è ammessa in sede di legittimità.

In ogni caso, il Tribunale di Perugia, con motivazione adeguata e non contraddittoria, ha ritenuto dimostrata la responsabilità dell’imputato poiché egli aveva riferito ad un passante (tale B.A. il quale, a sua volta, aveva chiamato la polizia) che era stato commesso un omicidio (in realtà mai avvenuto) e che, a seguito di ciò, erano state allertate le forze dell’ordine per il procurato allarme.

Al riguardo va ricordato che il reato di procurato allarme presso l’Autorità di cui all’art. 658 c.p. è configurabile anche nel caso in cui l’annuncio di un disastro, di un infortunio o di un pericolo inesistente sia “mediato”, cioè non effettuato direttamente alle forze dell’ordine, ma ad un privato, purché, per l’apparente serietà del suo contenuto, risulti idoneo a provocare allarme nelle Autorità, determinandone l’intervento anche d’ufficio, come avvenuto nel caso di specie. Infatti, la ratio della norma incriminatrice va ravvisata nell’interesse dello Stato all’ordine pubblico, che si vuole garantire contro tutti i falsi allarmi, che distolgono l’autorità costituita dalle ordinarie incombenze. A tal fine, va evidenziato che se il “disastro” è costituito da qualsivoglia evento dannoso di non comune gravità incidente su una pluralità di soggetti e tale da esporre a pericolo un numero indeterminato di persone, l’infortunio” è integrato dall’evento dannoso concernente una o più persone che, senza avere i caratteri di gravità e diffusibilità propri del disastro, determini tuttavia un intervento delle autorità di polizia giudiziaria (nel caso di specie la Squadra Mobile e la polizia municipale di […]).

Tenuto conto dell’interesse protetto dall’art. 658 c.p., costituito dalla tutela dell’ordine pubblico contro i falsi allarmi, il reato in esame è configurabile anche allorché l’infortunio annunziato sia stato artificiosamente costruito, stante l’equivalenza tra infortunio “falso” e infortunio “inesistente” (Sez. 2, n. 23440 del 23/04/2007, Zappia, non massimata).

Con riguardo agli elementi costitutivi della condotta incriminata del reato in questione, va ribadito che il ricorrente, postulando la contraddittorietà e l’illogicità della motivazione, chiede la rilettura del quadro probatorio e, con esso, il sostanziale riesame nel merito, che, tuttavia, è inammissibile in sede d’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione, allorquando la struttura razionale della sentenza impugnata abbia – come nella specie – una sua chiara e puntuale coerenza argomentativa e sia saldamente ancorata, nel rispetto delle regole della logica, alle risultanze del quadro probatorio.

Gli elementi processuali acquisiti, infatti, sono univocamente indicativi della coscienza e volontà del ricorrente (che, peraltro, non la contesta in maniera specifica) di annunciare la avvenuta consumazione di un inesistente omicidio; egli, in questo modo, ha procurato allarme presso le autorità, le quali, avuto riguardo al contenuto della falsa informazione e al contesto temporale in cui la stessa era stata fornita, erano intervenute immediatamente, al fine di rintracciare il cadavere (Sez. 1, n. 11752 del 28/02/2012, A. Ben Ahmen, non massimata).

Deve quindi ribadirsi che ricorre ugualmente il reato in esame, qualora l’annuncio” di un disastro, di un infortunio o di un pericolo inesistente sia “mediato”, cioè non effettuato direttamente alle forze dell’ordine, bensì a un privato e, tuttavia, per l’apparente serietà del suo contenuto, risulti idoneo a provocare allarme, nelle autorità e determinare l’intervento d’ufficio delle medesime. (Sez. 1, Sentenza n. 26897 del 09/02/2018, Rv. 273363 – 01).

5. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616 c.p.p..

P. Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.


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