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Uso auto aziendale: regole e controlli del lavoratore

16 Marzo 2023 | Autore:
Uso auto aziendale: regole e controlli del lavoratore

Il datore di lavoro può controllare i chilometri percorsi per verificare la congruità della spesa carburante.

Nel momento in cui un lavoratore viene autorizzato all’uso dell’auto aziendale deve conoscere le regole e i possibili controlli che il datore di lavoro può esercitare su di lui, sul percorso eseguito, sul consumo di carburante; deve altresì essere consapevole dei rischi che corre nel caso di uso inappropriato, come per fini personali, o fraudolento. Quali sanzioni il dipendente potrebbe subire, ad esempio, se dovesse sviare dal normale percorso stabilito per le attività lavorative? E se dovesse dichiarare una spesa superiore a quella effettiva per ottenere il rimborso del carburante? L’auto aziendale può essere sorvegliata a distanza attraverso un gps oppure si tratta di una violazione della privacy? 

Le numerose indicazioni dei giudici in merito offrono un chiaro quadro di quelle che sono le regole e i controlli sull’uso dell’auto aziendale. 

Uso personale dell’auto

Più volte la Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che abusa di auto e carte di credito aziendali, scorrazzando allegramente per motivi del tutto diversi dal servizio. E ciò anche se nell’assegnargli la vettura e le carte carburante l’azienda non pone limiti all’utilizzo: l’impiego correlato con la prestazione lavorativa deve ritenersi implicito.  

Perde dunque il posto il dipendente che fa il pieno di benzina con la carta aziendale e poi va a farsi i fatti suoi con l’auto di servizio. La condotta integra una grave violazione del dovere di fedeltà previsto dall’articolo 2105 del codice civile. 

Sempre la Cassazione [2] ha tuttavia detto che il licenziamento è una sanzione eccessiva rispetto all’illecito nel caso di uso sporadico di beni aziendali per fini personali, come ad esempio il caso della dipendente che utilizzi l’auto aziendale per prendere qualche volta i figli a scuola, tenendo conto anche dell’importante funzione a cui si adempie in tale modo. nfatti, hanno motivato gli Ermellini, la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale; dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare.

Controllo del contachilometri 

Il datore di lavoro può controllare il contachilometri dell’auto aziendale per verificare se il consumo della benzina è congruo rispetto all’uso per cui l’auto è stata concessa al dipendente. Di recente la Cassazione [3] ha confermato la legittimità del licenziamento di un dipendente per la mancata proporzionalità degli esborsi con i dati del contachilometri.

Il dipendente che utilizza la carta aziendale per fini extralavorativi facendo figurare l’esborso come spesa carburante nonostante il contachilometri dell’auto riporti una distanza percorsa pari a meno della metà dei km attesi costituisce un comportamento gravemente illecito che consente la risoluzione del rapporto di lavoro senza preavviso, in tronco (il cosiddetto «licenziamento per giusta causa»). 

Quanto alla contestazione della condotta, la legge stabilisce che questa debba avvenire immediatamente, ma non già rispetto alla commissione dell’illecito ma al momento in cui il datore acquisisce conoscenza dei fatti.

La Suprema corte sottolinea come il datore di lavoro «abbia il potere, ma non l’obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti e di contestare loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento. Questo significa che la contestazione potrebbe avvenire anche molto tempo dopo l’illecito ed essere ugualmente valida. Del resto, voler assegnare al datore di lavoro l’obbligo di controllare costantemente l’operato dei lavoratori significherebbe negherebbe in radice il carattere fiduciario del rapporto subordinato che invece si basa sull’affidamento reciproco. Ragion per cui «la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell’infrazione ove avesse controllato assiduamente l’operato del dipendente, ma con riguardo all’epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza».

Nel rapporto di lavoro, del resto, «si fa affidamento sul corretto utilizzo degli strumenti di lavoro, in funzione esclusiva delle esigenze connesse alla prestazione, non potendosi esigere un controllo costante di parte datoriale che presupporrebbe null’altro che una pregiudiziale sfiducia nell’operato del dipendente e quindi la negazione di quel patto di reciproca fiducia che sta alla base di ogni rapporto negoziale e del rapporto di lavoro in special modo».

Nel caso di specie un’azienda, con l’ausilio di un consulente tecnico, ha accertato che il carburante acquistato dal dipendente, “in relazione alle caratteristiche di consumo dell’auto aziendale, avrebbe consentito di percorrere 278.094,83 km, a fronte dei 121.155,30 km risultanti dal tachimetro”. È stato così ritenuto che tale «evidente sproporzione tra la spesa dichiarata dalla lavoratrice per i rifornimenti di carburante e i chilometri effettivamente percorsi dall’auto aziendale non avesse altra spiegazione né giustificazione se non quella dell’uso del denaro aziendale per scopi diversi da quelli inerenti all’esecuzione della prestazione».

Gps nell’auto aziendale

La riforma del diritto del lavoro operata dal Jobs Act prevede la possibilità per il datore di lavoro di installare un Gps nell’auto aziendale per verificare il percorso da questa effettuato, senza dover prima chiedere l’autorizzazione ai sindacati o all’Ispettorato del Lavoro. Il dipendente deve tuttavia essere previamente informato di ciò. Non è invece prevista alcuna comunicazione nel caso di controllo del chilometraggio.

Gonfiare i rimborsi spese per la benzina

Sempre secondo la Cassazione [4] si può licenziare per giusta causa il dipendente che che chiede il rimborso del carburante gonfiando il consumo, anche se il datore non lo scopre subito. Gonfiare i rimborsi-benzina è un comportamento molto simile al furto e pertanto lede irrimediabilmente il rapporto di fiducia col datore di lavoro.

La tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell’infrazione ove avesse esercitato assidui controlli sull’operato del proprio dipendente, ma in relazione al momento in cui ne abbia acquisito piena conoscenza

Reato per l’uso della carta di credito

È sempre la Cassazione [5] a ritenere responsabile penalmente il dipendente che paga la benzina per spostamenti privati con la carta aziendale. Si tratta, ha sancito la Suprema Corte, di reato di «uso illecito della carta di credito» dell’impresa. In questo caso, oltre alla condanna penale e alla relativa sanzione, il dipendente perde il posto ed è tenuto a risarcire l’azienda.

Dunque la seconda sezione ha confermato la condanna per uso indebito della carta di credito a carico di un lavoratore che aveva usato il credito per pagare il carburante per scopi personali.


note

[1] Cass. sent. n. 15777/2019. Così anche Cass. sent. n. 7720/2016 secondo cui è legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che abusa sistematicamente della scheda carburante in dotazione per scopi personali.

[2] Cass. sent. n. 7208/2018. 

[3] Cass. sent. n. 7467/2023.

[4] Cass. sent. n. 10069/2016

[5] Cass. sent. n. 43134/2013.

Cass. civ., sez. lav., ord., 15 marzo 2023, n. 7467

Presidente Doronzo – Relatore Ponterio

Rilevato che:

1. La Corte d’appello di Milano ha accolto il reclamo proposto da  A.O. spa e, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda di O.L. , volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatole il (…), per avere la stessa addebitato alla società spese di carburante per l’uso dell’auto aziendale negli anni 2015 e 2016 non riferibili allo svolgimento dell’attività lavorativa.

2. Il Tribunale (in fase sommaria e di opposizione) aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento per tardività della contestazione disciplinare sul rilievo che la società datoriale, pur ricevendo mensilmente i giustificativi delle spese di carburante, avesse omesso di svolgere tempestivi controlli, così pregiudicando il diritto di difesa della dipendente.

3. La Corte territoriale, richiamati i precedenti di legittimità (Cass. n. 10069 del 2016; Cass. n. 11583 del 2018) ed in sintonia con essi, ha ritenuto che l’immediatezza della contestazione dovesse valutarsi avendo riguardo non al verificarsi dei fatti contestati bensì al momento in cui il datore di lavoro ne ha avuto conoscenza; che, nel caso in esame, la società aveva preso cognizione dei fatti imputabili alla dipendente solo nel gennaio 2017, in occasione delle verifiche dei conti per la chiusura del bilancio del 2016; che era pertanto tempestiva la contestazione degli addebiti risalente al febbraio 2017; che la lavoratrice, nel fornire giustificazioni scritte, non aveva lamentato alcun pregiudizio al diritto di difesa connesso al tempo trascorso dai fatti addebitati.

4. Secondo i giudici di appello, l’utilizzo fraudolento del denaro aziendale per scopi privati costituiva grave inadempimento atto a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario, così da integrare una giusta causa di recesso.

5. Avverso tale sentenza O.L. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. La  A.O. spa ha resistito con controricorso ed ha depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Considerato che:

6. Col primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 2, e, in particolare, del principio di immediatezza e tempestività della contestazione disciplinare, nonché violazione e falsa applicazione del principi di correttezza e buona fede, per avere la Corte di merito valorizzato il momento in cui la società ha dichiarato, costituendo le prove a proprio favore, di aver rilevato i presunti illeciti e non il momento in cui tali infrazioni sarebbero state commesse e sarebbero divenute oggettivamente rilevabili e intellegibili.

7. Con il secondo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., per non avere la Corte di merito valutato gli elementi oggettivi e soggettivi della condotta tenuta dalla lavoratrice nonché l’incidenza della stessa sulla compromissione del vincolo fiduciario; inoltre, per aver ritenuto leso il rapporto di fiducia senza accertare in concreto l’indebito utilizzo per scopi privati del denaro della società.

8. Con il terzo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c.; inoltre, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 Si censura la sentenza d’appello sotto il triplice profilo di: a) mancato accertamento dell’effettiva commissione dei fatti addebitati, data l’assenza di ogni positivo e concreto riscontro della appropriazione illecita di denaro da parte della lavoratrice, attraverso l’infedele compilazione di schede carburanti o l’indebito utilizzo della carta di credito aziendale; b) erronea valutazione di decisività del documento, tardivamente prodotto dalla società datoriale in sede di discussione, e costituito da una fattura in cui è riportato l’ammontare dei chilometri effettuati dall’autovettura in dotazione alla dipendente; c) erronea valutazione, come prova incontestabile degli addebiti, delle risultanze della c.t.u. che ha ritenuto sussistente una “assoluta incongruità” delle spese di carburante sulla base di un conteggio elaborato in base a dati presunti e senza alcun controllo sull’autovettura.

9. Con il quarto motivo di ricorso si addebita alla sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c.; inoltre, l’omessa valutazione di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 Si critica la decisione d’appello per avere condannato la lavoratrice alla restituzione di quanto percepito in esecuzione dell’ordinanza emessa all’esito della fase sommaria, oltre interessi legali, e per avere posto a carico della stessa le spese di tutti i gradi di giudizio.

10. Il primo motivo di ricorso è infondato.

11. Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, in materia di licenziamento disciplinare, l’immediatezza della contestazione, espressione del generale precetto di correttezza e buona fede, si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro (Cass. n. 19115 del 2013; Cass. n. 15649 del 2010; Cass. n. 19424 del 2005; Cass. n. 11100 del 2006) e va inteso in senso relativo, potendo, nei casi concreti, esser compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, in ragione della complessità di accertamento della condotta del dipendente oppure per l’esistenza di una articolata organizzazione aziendale (Cass. n. 15649 del 2010; Cass. n. 22066 del 2007; Cass. n. 19159 del 2006; Cass. n. 6228 del 2004; n. 1562 del 2003; Cass. n. 12141 del 2003).

12. Si è inoltre sottolineato come il datore di lavoro abbia il potere, ma non l’obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti e di contestare loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento, atteso che un simile obbligo, non previsto dalla legge nè desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato, sicché la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell’infrazione ove avesse controllato assiduamente l’operato del dipendente, ma con riguardo all’epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza (così Cass. 10069 del 2016; v. anche Cass. n. 28974 del 2017; Cass. n. 21546 del 2007). Difatti, l’affidamento riposto nella correttezza del dipendente non può tradursi in un danno per il datore di lavoro nè può equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell’illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell’azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente (in tal senso Cass. n. 5546-2010).

13. Va infine segnalato che la valutazione sulla tempestività della contestazione disciplinare costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato (Cass. n. 19115 del 2013 ed altre sopra citate).

14. La Corte appello si è attenuta ai principi enunciati da questa S.C. nel momento in cui ha giudicato conforme a buona fede il controllo eseguito dalla società sulle spese del 2016 nel momento della redazione del bilancio 2017. È vero che i giustificativi di spesa erano consegnati dalla dipendente con cadenza mensile e che, in teoria, il datore era in condizione di controllare mensilmente le spese eseguite in relazione ai chilometri percorsi. Ma nel rapporto di lavoro in generale, e in particolar modo quando si assegnano al dipendente l’auto aziendale e la carta di credito intestata alla società, si fa affidamento sul corretto utilizzo di tali strumenti di lavoro, in funzione esclusiva delle esigenze connesse alla prestazione, non potendosi esigere un controllo costante di parte datoriale che presupporrebbe null’altro che una pregiudiziale sfiducia nell’operato del dipendente e quindi la negazione di quel patto di reciproca fiducia che sta alla base di ogni rapporto negoziale e del rapporto di lavoro in special modo.

15. Il secondo e il terzo motivo di ricorso sono inammissibili in quanto pretendono una vera e propria revisione della decisione, nei suoi aspetti valutativi sulla sussistenza e sul contenuto del fatto disciplinare, nonché sulla concreta gravità della condotta ai fini della integrazione della nozione legale di giusta di causa.

16. La Corte d’appello ha accertato e ricostruito, in base alle prove documentali e alle indagini tecniche eseguite dal c.t.u., la condotta posta in essere dalla lavoratrice. Ha appurato, con l’ausilio del consulente tecnico, che il carburante acquistato dalla dipendente (la sentenza, a pag. 2, dà atto che la società aveva allegato di aver invitato la dipendente a non pagare in contanti con denaro prelevato tramite la carta di credito), in relazione alle caratteristiche di consumo dell’auto aziendale, avrebbe consentito di percorrere 278.094,83 km, a fronte dei 121.155,30 km risultanti dal tachimetro. Ha ritenuto che tale evidente sproporzione tra la spesa dichiarata dalla lavoratrice per i rifornimenti di carburante e i chilometri effettivamente percorsi dall’auto aziendale non avesse altra spiegazione nè giustificazione se non quella dell’uso del denaro aziendale per scopi diversi da quelli inerenti all’esecuzione della prestazione.

17. L’acquisizione del documento prodotto dalla società nel corso dell’udienza di discussione, relativo al chilometraggio percorso dall’auto assegnata all’attuale ricorrente, è stata disposta in ragione del carattere indispensabile dello stesso e ciò in perfetta aderenza alla previsione dell’art. 437 c.p.c. e alla giurisprudenza di legittimità sull’argomento (v. Cass. n. 20055/16; n. 11994/18; n. 28439/19; Cass. n. 33393/19); non vi è alcuno spazio per ritenere integrata la violazione delle regole di formazione della prova di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c. (v. Cass. 27000/2016; Cass. 13960/2014) e della regola dettata dall’art. 2697 c.c., essendo le censure unicamente rivolte alla valutazione di merito eseguita dai giudici di appello, non revisionabile in questa sede di legittimità.

18. La Corte d’appello si è attenuta ai canoni giurisprudenziali attraverso cui sono state definite le nozioni legali di giusta causa (cfr. Cass. n. 18715 del 2016; n. 6901 del 2016; n. 21214 del 2009; n. 7838 del 2005) e di proporzionalità della misura espulsiva (cfr. Cass. 18715 del 2016; Cass. n. 21965 del 2007; Cass., n. 25743 del 2007) ed ha motivatamente valutato la gravità della condotta e la specifica idoneità della stessa a far venir meno l’affidamento nel corretto futuro adempimento degli obblighi contrattuali.

19. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile perché non si specifica la ragione per cui sarebbe stato violato il disposto dell’art. 91 c.p.c. e neppure le ragioni per cui sarebbe non conforme a diritto l’obbligo, imposto alla lavoratrice, di restituire la somma versatale dalla società in esecuzione della sentenza di primo grado.

20. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto. Le spese sono regolate secondo il regime di soccombenza e liquidate come in dispositivo, con il raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (Cass. S.U. 20 settembre 2019, n. 23535).

pqm

Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.


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