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Satira sul datore di lavoro: fin dove è ammessa?

29 Marzo 2023 | Autore:
Satira sul datore di lavoro: fin dove è ammessa?

Limiti al diritto di espressione nel luogo di lavoro: quando il post offensivo nei confronti del capo può giustificare il licenziamento. 

Questa breve guida trae spunto da una recente ordinanza della Cassazione secondo cui non può essere condannato per diffamazione il dipendente che fa satira sui social accostando il datore a Hitler e l’azienda a un lager. Non almeno quando le espressioni vengono usate per esprimere un malcontento generale. La pronuncia in commento suggerisce un tema assai delicato: fin dove è ammessa la satira sul datore di lavoro? Quando le espressioni critiche, pungenti o ciniche possono giustificare un licenziamento?

Si può essere licenziati per un post su Facebook contro l’azienda?

In linea generale, l’obbligo di fedeltà del dipendente alla propria azienda non cessa con la fine dell’orario lavorativo. Questi deve rispettare l’immagine del proprio datore di lavoro anche nella restante parte della giornata, non potendo quindi diffamarlo o pubblicare sui social dei post che possano pregiudicarne l’immagine. 

Più di una volta la Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento del dipendente che aveva utilizzato un lessico offensivo nei confronti dei vertici aziendali. Le cose non cambiano neanche se il profilo è “chiuso” e ristretto solo alla propria cerchia di amici: tutti coloro che accedono al profilo dell’incolpato si rendono conto a chi vanno riferiti i giudizi, che dunque ledono l’immagine dell’impresa. Non ci sono, insomma, giustificazioni che tengano per chi usa il social come sfogo personale. 

Laddove però i giudici dovessero ritenere il licenziamento illegittimo per insussistenza del fatto, il dipendente avrebbe diritto alla reintegra sul posto e non al semplice risarcimento.

Per un’analisi della giurisprudenza leggi Si può licenziare per critiche su Facebook?

Il caso: dipendente, satira e accusa di diffamazione

Un operaio aveva realizzato un video in cui paragonava il proprio datore di lavoro a Hitler e l’azienda a un lager, per esprimere il suo malcontento generale riguardo alle condizioni lavorative. A seguito della pubblicazione del video sui social media, era stata presentata nei suoi confronti una querela per diffamazione e avviata la procedura di licenziamento per giusta causa.

La situazione lavorativa che aveva portato il dipendente a realizzare il video era caratterizzata da una chiusura temporanea dell’azienda, durata circa due mesi, durante la quale i lavoratori erano stati destinati a svolgere attività formative. Questa situazione era percepita dai dipendenti come vessatoria, generando il malessere espresso nel video.

La satira nei limiti della continenza espressiva

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell’operaio, ritenendo che le espressioni utilizzate nel video rientrassero nei limiti della continenza espressiva, seppure aspre e pungenti. La Cassazione ha sottolineato che le espressioni non apparivano come un’aggressione personale e gratuita, ma funzionali alla denuncia del malcontento generato in ambito lavorativo. 

In buona sostanza, la Suprema Corte fa un distinguo e giudica con maggior tolleranza la satira laddove, anche se forte, sia giustificata da un clima conflittuale e dalla pretesa dei dipendenti di far valere i propri diritti. 

Esempi di satira nei confronti del datore di lavoro: quando è ammessa?

In base alla sentenza della Corte di Cassazione, la satira nei confronti del datore di lavoro è ammessa quando è utilizzata per esprimere un disagio generale e non come un’aggressione personale. Ad esempio, è possibile utilizzare la satira per criticare le condizioni lavorative o le decisioni aziendali, purché non si traduca in un attacco diretto e ingiustificato nei confronti del datore di lavoro.

Per evitare controversie legate alla satira sul datore di lavoro, è importante rispettare i limiti imposti dalla moderazione espressiva e evitare espressioni che possano essere interpretate come aggressive o gratuite. 


note

[1] Cass. sent. n. 12520/2023 del 24.03.2023.  


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