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Il lavoratore può rifiutare la formazione?

10 Maggio 2023 | Autore:
Il lavoratore può rifiutare la formazione?

Rischia di essere licenziato per insubordinazione chi rifiuta di fare la formazione. Infatti, il dipendente deve sempre aver un atteggiamento collaborativo e non passivo.

Nel mondo del lavoro, la formazione continua riveste un ruolo fondamentale, permettendo ai dipendenti di aggiornare le proprie competenze e acquisire nuove conoscenze. Si tratta tuttavia di un onere necessario non solo all’azienda, consentendo a questa di migliorare la propria competitività con personale specializzato, ma anche al lavoratore al fine di prevenire eventuali infortuni collegati allo svolgimento delle mansioni. E il datore di lavoro, proprio in ragione di ciò, avendo l’obbligo di tutelare la salute psicofisica del dipendente (ai sensi dell’articolo 2087 cod. civ.), può imporgli di frequentare i corsi di aggiornamento.

Ma cosa succede se un lavoratore rifiuta la formazione proposta dal datore? Può un dipendente essere licenziato per non aver partecipato a un corso di aggiornamento? In questo articolo, analizzeremo le possibili conseguenze legali derivanti da tale comportamento. Lo faremo alla luce di una recente ordinanza della Cassazione che ha deciso un caso simile. Ma procediamo con ordine.

Cosa dice la legge sul rifiuto della formazione da parte di un lavoratore?

La Corte di Cassazione [1] ha stabilito che il dipendente che rifiuta di partecipare a un corso di formazione gratuito, indispensabile per migliorare le proprie competenze, commette un illecito disciplinare. Tale illecito può comportare sanzioni tanto più pesanti quanto più grave è la condotta del lavoratore valutata nel suo complesso. Pertanto, secondo la Suprema Corte, il lavoratore può rischiare di essere licenziato per insubordinazione: quest’ultimo infatti è tenuto ad avere un atteggiamento collaborativo e non passivo, anche riguardo alle esigenze di formazione e accrescimento professionale.

Quali sono le conseguenze legali del rifiuto della formazione?

Nel caso specifico analizzato dalla Corte di Cassazione, il dipendente aveva rifiutato un corso di formazione, pur non essendo impegnato in altre commesse e senza che tale formazione comportasse spese a suo carico o la necessità di usufruire di permessi o di sacrificare il proprio tempo libero. In seguito, il lavoratore aveva mostrato un atteggiamento passivo e privo di spirito di collaborazione presso il cliente, rifiutando di svolgere attività di aggiornamento dei sistemi rientranti nelle sue competenze.

La Corte ha giudicato la condotta di insubordinazione di rilevante gravità e la sanzione espulsiva quale misura proporzionata, anche in ragione della volontarietà del comportamento posto in essere dal dipendente. Pertanto, il rifiuto della formazione, se privo di giustificazioni valide, può costituire motivo di licenziamento.

Quando è giustificato il rifiuto della formazione da parte di un dipendente?

È importante sottolineare che il rifiuto della formazione da parte del dipendente può essere giustificato in determinate circostanze, ad esempio se la formazione proposta dal datore di lavoro è irrilevante per il ruolo del dipendente, se comporta un sacrificio eccessivo del tempo libero del lavoratore o se il datore di lavoro non rispetta le norme contrattuali riguardanti la formazione, se l’onere economico viene posto a carico del dipendente (ad esempio quando questi deve sostenere le spese di trasferta, di pernottamento, ecc.).

Quali sono i doveri dei dipendenti in materia di formazione?

I dipendenti hanno il dovere di mantenersi aggiornati sulle competenze necessarie per il proprio lavoro e di migliorare le proprie conoscenze professionali. Ciò implica una disposizione ad accettare e partecipare a corsi di formazione proposti dal datore di lavoro, purché siano collegati alle mansioni, siano pagati dall’azienda e abbiano attinenza alle proprie competenze. Un atteggiamento collaborativo e proattivo nella formazione è fondamentale per garantire la crescita professionale e la soddisfazione sul lavoro.

Quali sono le responsabilità dei datori di lavoro in materia di formazione?

I datori di lavoro hanno la responsabilità di offrire opportunità di formazione ai propri dipendenti, promuovendo un ambiente di lavoro che favorisca l’apprendimento e lo sviluppo professionale. Essi devono assicurarsi che i corsi di formazione proposti siano pertinenti, accessibili e adeguati alle esigenze dei dipendenti, rispettando le norme contrattuali e le disposizioni legali vigenti. 

Inoltre, la formazione è obbligatoria tutte le volte in cui il dipendente viene preposto ad attività che possano comportare un rischio per la sua salute: l’aggiornamento è necessario per prevenire eventuali infortuni. In caso contrario il datore è responsabile.

Come può un dipendente giustificare il rifiuto della formazione?

Se un dipendente ritiene di avere valide ragioni per rifiutare la formazione proposta dal datore di lavoro, è importante che queste ragioni siano comunicate chiaramente e tempestivamente. Il dipendente può richiedere di discutere il programma di formazione con il proprio responsabile, con il reparto delle risorse umane oppure con un sindacalista, al fine di valutare insieme l’opportunità e la pertinenza del corso proposto.  


note

[1] Cass. ord. n. 12241/23 del 09.05.2023.

Cass. civ, sez. Iav., ord., 9 maggio 2023, n. 12241

Presidente Doronzo – Relatore Ponterio

Rilevato che:

1. La Corte d’appello di Roma ha respinto il reclamo proposto da T.F., confermando la sentenza di primo grado con cui era stata rigettata l’impugnativa del licenziamento per giustificato motivo soggettivo al medesimo intimato dalla (omissis) spa il 5.2.2016.

2. La Corte territoriale ha escluso la tardività del provvedimento di recesso comunicato con lettera raccomandata del 5.2.2016, il giorno stesso dell’audizione del lavoratore, e quindi nel rispetto del termine di sei giorni fissato dalla contrattazione collettiva; ha ritenuto che fossero dimostrate, in base alle prove raccolte, le condotte contestate al dipendente con due distinte lettere entrambe del 21.1.2016; in particolare, ha accertato, in merito alla prima contestazione, che il lavoratore si era rifiutato di approfondire lo studio dei sistemi operativi (omissis), come richiestogli dal suo diretto superiore gerarchico, sebbene non impegnato in altre commesse; ha inoltre accertato che la formazione sollecitata non avrebbe comportato spese a carico del dipendente, né la necessità di usufruire di permessi o di sacrificare il proprio tempo libero, risultando infondate le giustificazioni addotte dal lavoratore a sostegno del proprio rifiuto; in ordine alla seconda contestazione, i giudici di appello hanno appurato che il lavoratore aveva tenuto un comportamento passivo e privo di spirito di collaborazione presso il cliente (omissis) spa, rifiutando di svolgere attività di aggiornamento dei sistemi presso questa società sebbene rientranti nelle sue competenze sistemistiche generali; hanno giudicato la condotta di insubordinazione di rilevante gravità e la sanzione espulsiva quale misura proporzionata, anche in ragione della volontarietà del comportamento posto in essere dal dipendente.

3. Avverso tale sentenza T.F. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. La (omissis) spa ha resistito con controricorso.

Considerato che:

4. Con il primo motivo di ricorso è dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, concernente il formale inquadramento del lavoratore come “riparatore”, a cui è stato chiesto di operare come “sistemista”, con conseguente inesigibilità della pretesa datoriale in relazione alle concrete competenze del medesimo, valutabile quanto meno sotto il profilo della intensità del dolo o della colpa; inoltre, violazione e falsa applicazione degli artt. 2104,2106 e 2119 c.c. e vizio di motivazione per mancanza di un esplicito rifiuto del ricorrente di obbedire agli ordini datoriali.

5. Il motivo è inammissibile, anzitutto perché non specifica in che termini e in quali atti processuali di primo grado era stata posta la questione della estraneità della formazione richiesta rispetto all’inquadramento del lavoratore (a pag. 6 e ss. del ricorso per cassazione si richiamano unicamente le allegazioni fatte in sede di reclamo); inoltre, perché censura, nella sostanza, l’accertamento svolto dai giudici di merito, secondo cui le attività che il T. avrebbe dovuto svolgere presso il cliente (omissis) rientravano nelle sue competenze sistemistiche generali, non risultando quindi l’inquadramento formale elemento decisivo; censura poi la valutazione fatta dalla Corte di merito sulla insubordinazione del dipendente, manifestata attraverso un atteggiamento passivo e privo di spirito di collaborazione ed il rifiuto di svolgere l’attività di aggiornamento dei sistemi presso il cliente (omissis), così muovendosi all’esterno del perimetro di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (v. Cass., S.U. n. 8053 e Cass. n. 8054 del 2014).

6. Con il secondo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti quanto alla volontà espressa dal legale rappresentante della società di licenziare il lavoratore; inoltre, violazione e falsa applicazione degli artt. 2104,2106 e 2119 c.c. e vizio di motivazione. Si assume che la sentenza impugnata ha omesso qualsiasi riferimento alla registrazione dell’incontro avvenuto il 13.1.2016 in cui il Dott. T. manifestò l’intenzione di licenziare, con pretestuosi procedimenti disciplinari, il T.; che avendo ignorato la dichiarata pretestuosità delle contestazioni, la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto provato, peraltro senza motivazione, il rifiuto del lavoratore di formazione e di attività presso il cliente, senza invece valutare la documentazione prodotta dal ricorrente sui costi che il medesimo avrebbe dovuto sopportare per la formazione. Si censura, inoltre, il giudizio di proporzionalità espresso dai giudici di merito senza considerare l’inquadramento contrattuale del T., la sua anzianità di servizio (dieci anni), l’assenza di precedenti disciplinari, l’assenza di un esplicito rifiuto, il ruolo marginale e di mero affiancamento del medesimo presso il cliente (omissis).

7. Anche questo motivo è inammissibile in quanto privo dei requisiti richiesti ai fini dell’art. 360 c.p.c., n. 5, concernente l’omesso esame di un fatto storico, determinato e avente valore decisivo. Le critiche mosse dal ricorrente investono non fatti ma elementi probatori, per come sono stati in concreto valutati dai giudici di merito, peraltro plurimi e nessuno dei quali quindi decisivo (v. Cass. n. 28154 del 2018; Cass. n. 21439 del 2015), in una ipotesi di cd. doppia conforme, ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c.

8. Con il terzo motivo si censura la sentenza d’appello, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione degli artt. 2104,2106 e 2119 c.c. e degli artt. 9 e 10 del c.c.n.l. industria metalmeccanica privata, per erronea applicazione dell’art. 18, comma 4, St. Lav. Si sostiene che la condotta addebitata al lavoratore doveva essere inquadrata nella fattispecie prevista dal c.c.n.l. di “lieve insubordinazione nei confronti dei superiori” oppure di chi “esegua negligentemente o con voluta lentezza il lavoro affidatogli”, entrambe punite con sanzione conservativa.

9. Neppure questo motivo può trovare accoglimento.

10. La Corte d’appello si è attenuta ai canoni giurisprudenziali attraverso cui sono state definite le nozioni legali di giusta causa, giustificato motivo soggettivo (cfr. Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 6901 del 2016; Cass. n. 21214 del 2009; Cass. n. 7838 del 2005) e di proporzionalità della misura espulsiva (cfr. Cass. 18715 del 2016; Cass. n. 21965 del 2007; Cass., n. 25743 del 2007) ed ha motivatamente valutato la gravità dell’insubordinazione realizzata dal dipendente, senza alcuna giustificazione, in modo persistente e volontario, in aperto contrasto con l’obbligo di diligenza e di esecuzione delle disposizioni dettate dai superiori gerarchici, anche riferite alle esigenze di formazione e accrescimento professionale necessarie per il proficuo impiego del dipendente. Non vi è spazio per ritenere integrata la violazione di norme di diritto come denunciata e neanche risultano violate le disposizioni del contratto collettivo che prevedono, per la condotta di insubordinazione non lieve, la misura espulsiva, risultando il giudizio di proporzionalità coerente alla scala valoriale concordata dalle parti sociali.

11. Per le ragioni esposte, il ricorso deve essere respinto.

12. La regolazione delle spese segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo, dichiarandosi esistenti i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto (Cass. S.U. 20 settembre 2019, n. 23535).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre il rimborso per spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.


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