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Licenziamento per comportamenti scorretti durante la malattia

17 Maggio 2023 | Autore:
Licenziamento per comportamenti scorretti durante la malattia

Discutiamo la legittimità del licenziamento di un dipendente che durante il periodo di malattia compie azioni potenzialmente dannose alla propria guarigione.

Qual è il limite tra il legittimo diritto al riposo e il dovere di rispetto del rapporto di lavoro durante un periodo di malattia? Cosa comporta per un lavoratore compiere attività fisiche potenzialmente ostacolanti al recupero e pregiudizievoli alla rapida guarigione? Queste domande pongono in rilievo la delicatezza del rapporto tra datore di lavoro e lavoratore in situazioni particolari, come quella di malattia, sottolineando l’importanza della correttezza, della diligenza e della buona fede a cui si deve attenere il dipendente assente. In questo articolo analizzeremo innanzitutto la possibilità di licenziamento per comportamenti scorretti durante la malattia, elencato quali sono le condotte non ammesse dalla legge. Poi descriveremo un caso di recente deciso dalla Cassazione [1]. Ma procediamo con ordine.

Quali sono i comportamenti scorretti durante la malattia?

La legge fissa dei doveri in capo al dipendente assente per malattia:

  • comunicare immediatamente la propria assenza al datore secondo le forme indicate dal contratto (ad esempio telefonata, sms, email);
  • sottoporsi a visita medica inviare il certificato all’Inps in modo che sia messo a disposizione del datore di lavoro;
  • restare a casa durante le fasce orarie di reperibilità per consentire il controllo tramite la visita fiscale;
  • non svolgere altre attività lavorative durante la malattia se queste sono in concorrenza con il datore di lavoro e possono pregiudicare la malattia;
  • rientrare sul lavoro non appena la malattia cessa;
  • non compiere, durante la malattia, comportamenti che possono pregiudicare o rallentare la guarigione come, ad esempio, svolgere sforzi fisici, uscire di casa se ciò è pericoloso, ecc.

Ricordiamo poi che il dipendente non può superare il periodo massimo di assenza per malattia stabilito dal contratto collettivo di lavoro (il cosiddetto comporto); diversamente può essere licenziato per la protratta assenza. Tuttavia, se la malattia è stata dovuta a infortunio sul lavoro e questo è stato causato dalla mancata adozione, da parte del datore, delle misure di sicurezza, il periodo di comporto non opera e il dipendente può assentarsi finché non guarisce senza il rischio di perdere il posto.

Cosa stabilisce la Cassazione riguardo il licenziamento in caso di malattia?

In una recente ordinanza la Cassazione [1] ha chiarito una questione cruciale: un lavoratore in malattia che svolge attività fisiche che possono ostacolare il suo recupero può essere legittimamente licenziato. Questo perché tali comportamenti minano la fiducia, elemento fondamentale nel rapporto tra datore di lavoro e dipendente.

La vicenda

Il caso in questione ha visto due sentenze contrapposte. Inizialmente, il Tribunale aveva dichiarato illegittimo il licenziamento di un lavoratore, ritenendo inesistenti i comportamenti contestati in assenza di precise prescrizioni mediche che limitassero le sue attività quotidiane. Tuttavia, la Corte d’Appello ha preso una posizione diversa. Quest’ultima ha affermato che un lavoratore in malattia non è obbligato a evitare tutte le attività fisiche, purché non ritardino la sua guarigione e rispettino i principi di correttezza, buona fede e gli obblighi contrattuali. Tuttavia, se le azioni del lavoratore possono far supporre una simulazione fraudolenta della malattia, è legittimo il licenziamento.

Immaginiamo che durante il periodo di malattia, Tizio, anziché riposarsi come consigliato dal medico, si dedichi a attività fisiche faticose come scaricare e caricare scatoloni o montare un portabagagli sulla sua auto. Questi comportamenti, non solo non aiutano la sua guarigione, ma possono anche essere interpretati come un’indicazione di possibile simulazione della malattia.

La Corte d’Appello, sulla base di indagini private del datore di lavoro, ha constatato che il lavoratore aveva svolto varie attività fisiche durante il suo periodo di malattia, che potrebbero aver influenzato negativamente il suo processo di guarigione. Queste attività includevano, tra le altre, la guida di veicoli, il carico e scarico di materiale edile e il montaggio di un portabagagli sulla sua auto. Questi comportamenti, ritenuti incompatibili con le prescrizioni mediche di riposo e cura, hanno portato alla decisione di legittimare il licenziamento.

Qual è stata la posizione dei giudici della Cassazione?

In sintonia con la Corte d’Appello, la Cassazione ha confermato che il lavoratore aveva, con i suoi comportamenti, ostacolato e ritardato il suo recupero, violando così i doveri di correttezza, diligenza e buona fede. Pertanto, è stata riconosciuta la legittimità del licenziamento.

Conclusioni

In sintesi, si può licenziare un dipendente assente sul lavoro per malattia se questi non compie comportamenti diligenti rivolti a guarire nel tempo che normalmente occorre per riprendersi. Egli non deve cioè attuare azioni imprudenti. Una persona che è affetta da sindrome depressiva ben potrebbe ad esempio fare una passeggiata a mare (anzi, è da ritenersi salutare), ma chi invece ha una patologia alla schiena non può andare in palestra o fare lavori di giardinaggio. Il giudizio va quindi rapportato al tipo di condotta e alla malattia indicata nel certificato medico.


note

[1] Cass. ord. n. 12994/23.

Cass. civ, sez. lav., ord., 12 maggio 2023, n. 12994

Presidente Doronzo – Relatore Patti

Rilevato che

1. con sentenza 26 aprile 2019, la Corte d’appello di Catania ha rigettato l’impugnazione di P.S. del licenziamento per giusta causa intimatogli l’1 ottobre 2018 da (omissis) s.r.l., sulla previa contestazione di simulazione dell’infortunio occorsogli sul luogo di lavoro (che gli aveva cagionato un trauma alla caviglia sinistra) o comunque di aggravamento dello stato di malattia (dal 5 gennaio al 5 giugno 2017, dall’8 agosto al 15 settembre 2017 e ancora dal 20 febbraio al 19 gennaio 2018) ed ostacolatone la guarigione, per le condotte contrarie ai doveri di diligenza, fedeltà, correttezza e buona fede – specificamente addebitate per il periodo dal 7 agosto al 5 settembre 2018 – con sottrazione illegittima alla prestazione lavorativa ed abuso del beneficio concesso dalla legge, integrante ipotesi di truffa in danno dell’impresa datrice e dell’Inail: così riformando la sentenza di primo grado, che aveva invece accolto l’impugnazione del lavoratore;

2. al contrario del Tribunale, che aveva qualificato illegittimo il licenziamento intimato dalla società condannandola alla reintegrazione del lavoratore per insussistenza dei fatti contestatigli in assenza di prescrizioni mediche che lo limitassero nei movimenti o negli spostamenti o nelle attività quotidiane ma soltanto di un periodo di “riposo e cure”, la Corte territoriale ha altrimenti ritenuto;

3. essa ha, infatti, premesso i principi di diritto di inesistenza di un obbligo del lavoratore in stato di malattia di astenersi da attività, anche lavorative, con esso compatibili, purché con le cautele idonee a non ritardarne la guarigione, nel rispetto dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà: diversamente, giustificandosi il recesso datoriale, come pure nell’ipotesi in cui dall’attività esterna prestata possa essere presunta l’inesistenza della malattia (dimostrandone la fraudolenta simulazione), o come nel caso in cui la medesima attività – con valutazione ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte – possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro, con irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia; spettando al lavoratore l’onere della prova della suddetta compatibilità, non pregiudicante, né ritardante la guarigione;

4. nel merito, la Corte catanese ha accertato, sulla base di investigazioni private datoriali nell’arco temporale contestato, come il lavoratore, nel periodo di malattia suindicato (nel quale peraltro si era sottoposto a numerose visite mediche e ad un ciclo di tre sedute di infiltrazioni di acido ialuronico, di cui le due ultime del 6 agosto 2018 e del 5 settembre 2018 nel periodo di contestazione disciplinare: dal 7 agosto al 5 settembre 2018) abbia tenuto comportamenti (di protratta stazione eretta; di guida di auto, scooter o moto; di scarico e carico di scatoloni; di spazzamento del marciapiedi antistante l’esercizio commerciale intestato ai familiari; di ripetuti spostamenti a piedi; di montaggio con altri di un portabagagli sulla propria vettura; di carico e scarico di materiale edile), neppure specificamente contestati quanto piuttosto giustificati siccome compatibili con lo stato di malattia, integranti una condotta incauta. per inosservanza delle prescrizioni mediche di “riposo e cure”. E così ostacolato e comunque ritardato la guarigione, in violazione dei doveri di correttezza, diligenza e buona fede, integrante giusta causa di recesso datoriale;

5. con atto notificato il 22 giugno 2022, il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi, cui la società ha resistito con controricorso e memoria ai sensi dell’art. 380bis1 c.p.c..

Considerato che

1. il ricorrente ha dedotto violazione degli artt. 2697 c.c., L. n. 604 del 1966, art. 5, 2119 c.c., L. n. 300 del 1970, art. 18, per inversione dell’onere probatorio, spettante al datore di lavoro in funzione del recesso per giusta causa intimato, anziché al lavoratore, sul presupposto del non avere egli “svolto alcuna attività lavorativa diversa da quelle che sono le normali attitudini di vita quotidiana/familiare né abbia svolto attività ludiche ricreative” (primo motivo); violazione degli artt. 2119 c.c., 115 c.p.c. (quest’ultimo anche come error in procedendo), R.D. 12 del 1941, art. 65, 3 Cost., per travisamento di prove documentali erroneamente percepite, da cui la Corte territoriale avrebbe ricavato la prova, in assenza di specifiche certificazioni mediche al riguardo, delle seguenti affermazioni, analizzate in una diffusa articolazione in cinque punti: a) “persistendo i sintomi di dolore e mancata funzionalità”; b) “tanto è vero che le sue condizioni non sono migliorate neppure dopo due sedute di infiltrazioni di acido ialuronico “; c) “non veniva registrato alcun miglioramento della caviglia lesionata”; d) “accusasse pesanti dolori articolari”; e) “decisione con giudizio ex ante fondato sui precedenti quattro punti che, essendo inesistenti quanto alla prova, la decisione avrebbe dovuto riguardare ex post” (secondo motivo); violazione degli artt. 2119 c.c., L. n. 300 del 1970, 18, comma 4 (come novellato dalla L. n. 92 del 2012), 10 CCNL dipendenti industrie metalmeccaniche e installazione di impianti, per inesistenza di una condotta del lavoratore negligente o imprudente, tanto meno giustificante il licenziamento per giusta causa intimato, avendo egli “regolarmente seguito tutte le prescrizioni impostegli e rispettato tutto l’iter clinico e terapeutico” (terzo motivo);

2. essi, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono inammissibili;

3. è noto che lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configuri violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la stessa, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio (Cass. 5 agosto 2014, n. 17625; Cass. 27 aprile 2017, n. 10416; Cass. 19 ottobre 2018, n. 26496);

3.1. è parimenti risaputo che, in materia di licenziamento disciplinare intimato per lo svolgimento di altra attività, lavorativa o extralavorativa, durante l’assenza per malattia del dipendente, gravi sul datore di lavoro la prova che essa sia simulata ovvero che la predetta attività sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del dipendente, atteso che la L. n. 604 del 1966, art. 5 pone a carico del datore l’onere della prova di tutti gli elementi di fatto integranti la fattispecie che giustifica il licenziamento e, dunque, di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, idonee a connotare l’illecito disciplinare contestato (da ultimo, con ampia ed approfondita argomentazione Cass. 26 aprile 2022, n. 13063, in motivazione sub p.ti da 4.1. a 4.5.; in particolare sottolineato, sub p.to 4.2., il “peculiare rilievo” dell’eventuale violazione del dovere di osservare tutte le cautele, comprese quelle terapeutiche e di riposo prescritte dal medico, atte a non pregiudicare il recupero delle energie lavorative temporaneamente minate dall’infermità, affinché vengano ristabilite le condizioni di salute idonee per adempiere la prestazione principale cui si è obbligati, sia che si intenda tale dovere quale riflesso preparatorio e strumentale dello specifico obbligo di diligenza, sia che lo si collochi nell’ambito dei più generali doveri di protezione scaturenti dalle clausole di correttezza e buona fede in executivis, evitando comportamenti che mettano in pericolo l’adempimento dell’obbligazione principale del lavoratore per la possibile o probabile protrazione dello stato di malattia”; a ricomposizione di un quadro giurisprudenziale di legittimità di posizioni diverse sul criterio di riparto degli oneri probatori in ipotesi di licenziamento intimato in vicende siffatte: sub p.ti 4.4. e 4.5.);

3.2. nel caso di specie, la Corte territoriale ha correttamente applicato i suenunciati principi di diritto (al p.to 4 di pgg. 5 e 6 della sentenza), poi procedendo ad un accertamento in fatto, riservato al giudice di merito e insindacabile, siccome congruamente argomentato sulla base delle risultanze istruttorie (al p.to 5 di pgg. da 6 a 8 della sentenza), in sede di legittimità (Cass. 19 settembre 2017, n. 21667, in motivazione sub p.to 7.3.; Cass. 26 aprile 2022, n. 13063, in motivazione sub p.to 4.3.);

4. non si configurano pertanto le violazioni di legge denunciate, non implicando le censure un problema interpretativo delle stesse, né di falsa applicazione della legge, consistente nella sussunzione della fattispecie concreta in una qualificazione giuridica che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista non è idonea a regolarla, oppure nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che ne contraddicano la pur corretta interpretazione (Cass. 30 aprile 2018, n. 10320; Cass. 25 settembre 2019, n. 23851);

4.1. esse si risolvono piuttosto nell’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerente alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass. 29 ottobre 2020, n. 23927), oggi peraltro nei rigorosi limiti del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;

5. in particolare, non ricorrono: a) la violazione dell’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. 17 giugno 2013, n. 15107; Cass. 29 maggio 2018, n. 13395); b) la violazione dell’art. 115 c.p.c., per cui occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. s.u. 30 settembre 2020, n. 20867; Cass. 9 giugno 2021, n. 16016);

5.1. tanto meno esso si configura sotto il profilo di travisamento della prova (al di là della sua qualificazione alla stregua di erronea percezione della ricognizione del contenuto oggettivo della prova, qualora investa una circostanza che abbia formato oggetto di discussione tra le parti, denunciabile come error in procedendo per violazione dell’art. 115 c.p.c.: Cass. 12 aprile 20107, n. 9356; Cass. 21 dicembre 2022, n. 37382; ovvero di ravvisata non più attuale deducibilità in sede di legittimità qualora il travisamento della prova – che presuppone la constatazione di un errore di percezione o ricezione della prova da parte del giudice di merito – sia (stato) ritenuto valutabile dalla Corte di Cassazione qualora dia luogo ad un vizio logico di insufficienza della motivazione, a seguito della novellazione del testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che ha reso inammissibile la censura per insufficienza o contraddittorietà della motivazione: Cass. 3 novembre 2020, n. 24395), posto che l’articolata censura del secondo motivo si risolve in una contestazione del ragionamento probatorio della Corte d’appello: sull’indiscusso presupposto di un trauma contusivo distorsivo alla caviglia sinistra (attestato dal verbale di pronto soccorso e dalla prima certificazione Inail del 6 gennaio 2017: al secondo e terzo alinea del primo capoverso di pg. 6 della sentenza), essa ha fondato il proprio convincimento esclusivamente sui certificati medici, incontestatamente prescrittivi di un periodo di riposo (al primo e penultimo capoverso di pg. 7 della sentenza) e di riposo cure (al primo capoverso di pg. 8 della sentenza), posti in critico e argomentato collegamento con le sedute di infiltrazione di acido ialuronico e con le condotte del lavoratore, oggetto di addebito disciplinare, in applicazione di un criterio di ragionevolezza (“è ragionevole ritenere che… “) tale da giustificarne “con un elevatissimo grado di probabilità prossimo alla certezza” l’ostacolo e il ritardo di guarigione (ultimo capoverso di pg. 8 della sentenza);

6. non si configura, pertanto, alcuna censura di errore di diritto nella negazione della ricorrenza di una giusta causa di licenziamento, in merito all’operazione di sussunzione della Corte territoriale della concreta fattispecie nel parametro generale della clausola elastica integrante una lesione irrimediabile del vincolo di fiducia (solo sindacabile in sede di legittimità: Cass. 10 luglio 2018, n. 18170; Cass. 2 maggio 2022, n. 13774), a base del rapporto di lavoro tra le parti secondo l’accertamento compiuto dalla Corte di merito, quanto piuttosto una contestazione sua della valutazione in fatto;

7. le censure si risolvono pertanto, nella sostanza, in una diversa interpretazione e valutazione delle risultanze processuali e ricostruzione della fattispecie operata dalla Corte territoriale, insindacabili in sede di legittimità (Cass. 7 dicembre 2017, n. 29404; Cass. s.u. 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass. 4 marzo 2021, n. 5987), per esclusiva spettanza al giudice del merito, autore di un accertamento in fatto, argomentato in modo pertinente e adeguato a giustificare il ragionamento logico-giuridico alla base della decisione (come appunto nel caso di specie);

9. il ricorso deve essere quindi dichiarato inammissibile, con la regolazione delle spese secondo il regime di soccombenza e con raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

P.Q.M.

La Corte:

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.


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