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Denuncia archiviata: spetta il risarcimento al denunciato?

11 Maggio 2015
Denuncia archiviata: spetta il risarcimento al denunciato?

Nessun danno se la querela è stata presentata ai carabinieri senza malafede: la calunnia presuppone il dolo e non la semplice colpa.

La semplice presentazione, alle forze dell’ordine, di una denuncia penale, poi però archiviata perché infondata, non dà, di per sé, diritto al soggetto denunciato di chiedere il risarcimento del danno. Neanche se la suddetta denuncia sia stata presentata con leggerezza o avventatezza.

Infatti, perché si possa ottenere un indennizzo è necessario che il denunciante abbia agito con dolo, ossia con la volontà di incolpare l’altro di un reato falso. È quanto chiarito dalla Cassazione in una recente sentenza [1].

Secondo la Suprema Corte, il risarcimento spetta solo nel caso in cui ricorrano gli estremi (anch’essi penali) della calunnia ossia quando qualcuno “incolpi di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simuli a carico di lui le tracce di un reato” [2]. E, al fine della qualifica di detto comportamento quale calunnia, è sempre necessario il dolo dell’agente e non la semplice colpa determinata da leggerezza o avventatezza della denuncia.

Calunnia e denuncia falsa

Insomma, la semplice presentazione di una denuncia penale, successivamente archiviata per mancanza di presupposti, non è di per sé fonte di una responsabilità automatica e non crea un obbligo di risarcimento del danno. Bisogna prima vagliare l’atteggiamento psicologico del denunciante all’epoca in cui si è recato dalle autorità per esporre i fatti: solo la consapevolezza della falsità delle accuse e della loro infondatezza può dar luogo alla richiesta di un ristoro economico.

 

Peraltro, a dover dimostrare la malafede del denunciante è proprio il denunciato, ossia chi asserisce di aver subito il danno: un onere della prova certamente non facile da adempiere.


note

[1] Cass. sent. n. 9322/15 dell’8.05.2015.

[2] Art. 368 cod. pen.

Autore immagine: 123rf com

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 26 gennaio – 8 maggio 2015, n. 9322
Presidente Amendolo – Relatore D’Amico

Svolgimento del processo

S.G. convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Velletri, G.F. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni che assumeva di aver subito perché: a) con un esposto il convenuto lo aveva denunciato all’Ufficio Imposte e alla Procura della Repubblica, per aver rilasciato attestazioni a tutti i consorziati degli oneri corrisposti al fine della loro detraibilità fiscale tanto che era stato indagato per truffa aggravata nei confronti dello Stato; b) nel corso di un giudizio d’appello, erano state usate dalla controparte G. , frasi offensive delle quali il giudice aveva ordinato la cancellazione; c) già in precedenza il convenuto lo aveva accusato di falso in bilancio; d) nel corso di un altro giudizio dinanzi al Giudice di Pace di Velletri, aveva utilizzato ulteriori espressioni offensive.
Il G. si costituì chiedendo il rigetto delle avverse pretese e propose domanda riconvenzionale con la quale chiese di essere risarcito per i danni arrecatigli dal comportamento dell’attore.
Intervennero in giudizio Q.R. , moglie del convenuto, chiedendo anch’essa il risarcimento dei danni a lei cagionati dalla condotta del S. , nonché altri consorziati.
Il Tribunale disattese tutte le domande formulate dalle parti, compensando le spese di lite.
Proposto gravame principale da S.G. e incidentale da G.F. , E.M. , Gi.Lu. , P.P. e Sp.As.Fi. , la Corte d’appello, in parziale accoglimento del primo, ha condannato Q.R. a rifondere all’appellante principale un quarto delle spese del giudizio di prime cure; ha dichiarato inammissibili o rigettato tutti gli appelli incidentali; ha condannato Q.R. a rifondere all’appellante S.G. un quarto delle spese del grado, compensandole invece fra tutte le altre parti costituite.
Avverso detta pronuncia propone ricorso per cassazione S.G. con quattro motivi.
Resiste con controricorso G.F. .

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360 n.ri 3 e 5 cod. proc. civ. in relazione agli artt. 2059 cod. civ. e 185 cod. pen.” dolendosi del mancato risarcimento dei danni da lui subiti a seguito della denuncia sporta dal G. .
Sostiene che la denuncia sporta dal G. , in ordine all’attestazione da lui rilasciata al fine di consentire la detrazione fiscale degli oneri consortili corrisposti dagli associati, aveva carattere meramente emulativo, considerato che lo stesso G. non aveva effettuato alcuna detrazione.
Il motivo è infondato.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che la semplice presentazione di una denuncia penale, poi archiviata, non costituisce, di per sé, fonte di responsabilità e di risarcimento del danno, dovendo necessariamente ricorrere, al fine della qualificazione della denuncia in termini di calunnia, il dolo e non semplicemente la colpa del denunciante; che conseguentemente quest’ultimo non incorre in responsabilità civile se non quando, agendo con dolo, si rende colpevole di calunnia, essendo irrilevante la mera colpa, determinata da leggerezza o avventatezza ed essendo richiesta, per contro, per l’imputabilità del reato di calunnia e il conseguente risarcimento del danno, la precisa volontà dolosa del denunciante; che è onere del danneggiato dimostrare tutti i presupposti dell’illecito addebitato al convenuto, cioè non solo la materialità delle accuse, ma anche la consapevolezza della loro falsità e infondatezza (Cass., 12 gennaio 2012, n. 300).
A tali principi il collegio intende dare continuità.
Non è superfluo aggiungere che la prospettazione del carattere meramente emulativo della condotta del G. , peraltro generica e inconferente, ai fini che qui interessano, è anche nuova, trattandosi di profilo non trattato nella sentenza impugnata, in relazione al quale l’impugnante neppure ha assolto agli oneri deduttivi imposti dal criterio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione (confr. Cass. civ. sez. lav. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. civ. 1, 31 agosto 2007, n. 18440).
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360 n.ri 3 e 5 cod. proc. civ. in relazione all’art. 342, e 345 cod. proc. civ.”.
Sostiene in particolare il S. che la sentenza della Corte d’appello, pur avendogli dato ragione laddove aveva censurato la pronuncia di primo grado per la ritenuta improponibilità della domanda, ex art. 89 cod. proc. civ., sotto il profilo che, essendo le espressioni sconvenienti ed offensive contenute nella comparsa conclusionale di un giudizio di appello, la domanda risarcitoria non poteva essere proposta al giudice di quel processo, ha poi erroneamente ritenuto che la cancellazione delle frasi offensive dovesse ritenersi satisfattiva di ogni pretesa.
Ad avviso del ricorrente la Corte d’appello sarebbe così incorsa nel vizio di extrapetizione, non avendo la questione costituito motivo di appello principale o incidentale.
Il motivo è infondato.
Il principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, fissato dall’art. 112 c.p.c., implica unicamente il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, ma non osta a che il giudice renda la sua pronuncia in base ad una ricostruzione dei fatti di causa – alla stregua delle risultanze istruttorie – autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti nonché in base all’applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall’istante (Cass., 20 giugno 2008, 16809).
Nel caso di specie la Corte territoriale, risolto positivamente il problema della proponibilità della domanda, non poteva non esaminarne la fondatezza nel merito. E in tale prospettiva la sussistenza di un danno risarcibile eziologicamente connesso alla condotta del convenuto è stata non irragionevolmente esclusa, in ragione della ritenta esaustività della sola cancellazione.
Con il terzo motivo il ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 n.ri 3 e 5 cod. proc. civ. in relazione agli artt. 342 cod. proc. civ. e 34 5 cod. proc. civ.”.
Deduce che il dibattito processuale nelle pregresse fasi si era incentrato unicamente sulla estraneità o meno del S. al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo davanti al Giudice di Pace, laddove la Corte territoriale aveva ritenuto improponibile la domanda per non essere stata allegata alcuna delle circostanze che, secondo la giurisprudenza di legittimità, la rendevano esperibile al di fuori del giudizio nel corso del quale erano state rese le espressioni pretesamente sconvenienti e offensive.
Il motivo è infondato.
La circostanza che la domanda sia stata ritenuta dalla Corte territoriale proponibile sotto il profilo della accertata partecipazione di S.G. al giudizio dinanzi al Giudice di Pace, non imponeva affatto al giudice di merito di accoglierla, perché ne andava comunque verificata la proponibilità alla luce del principio per cui competente ad accertare e liquidare il danno derivante dall’uso di espressioni offensive contenute negli atti del processo, ai sensi dell’art. 89 cod. proc. civ., è lo stesso giudice dinanzi al quale si svolge il giudizio nel quale sono state usate le suddette espressioni, salvo che detto giudice non possa, o non possa più, provvedere con sentenza sulla domanda di risarcimento, circostanza, nella fattispecie, non ricorrente (confr. Cass. civ. 22 novembre 2012, n. 20593; Cass. civ. 9 luglio 2009, n. 16121).
Con l’ultimo motivo l’impugnante si duole della parziale compensazione delle spese del giudizio in favore della Q. , condannata a rimborsale nella misura di un quarto soltanto.
Il motivo è infondato.
In base al disposto dell’art. 92 cod. proc. civ., nel testo applicabile ratione temporis, il sindacato della Corte di cassazione è limitato all’accertamento che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa. Pertanto, esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi (Cass., 14 novembre 2002, n. 16012; Cass., 1 ottobre 2002, n. 14095; Cass., 11 novembre 1996, n. 9840).
L’impugnata sentenza, ritenendo la Q. soccombente in ordine alla domanda di risarcimento del danno da lei subito e considerando la minima incidenza che la stessa aveva avuto sulle necessità difensive del S. , ha, con argomentazioni logicamente e giuridicamente corrette, compensato per tre quarti le spese sia per il primo che per il secondo grado.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con condanna di parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che si liquidano in Euro 4.800,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori d legge.


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