Corte di Cassazione, sez. VI Civile – T, sentenza 4 marzo – 30 giugno 2015, n. 13369
Presidente Cicala – Relatore Cosentino
Svolgimento del processo
L’Agenzia delle Entrate ricorre contro G.A. per la cassazione della sentenza n. 9/7/13 con cui la Commissione Tributaria Regionale della Liguria, riformando la pronuncia di primo grado, ha annullato un avviso di accertamento IVA – IRPEF – IRAP per l’anno 2004 emesso nei confronti del contribuente.
La Commissione Regionale – dopo aver riferito che “L’avviso di accertamento muove dal presupposto di fatto relativo ai numerosi prelevamenti operati dall’appellante sul proprio conto corrente. Prelevamenti, e contestuali versamenti, che l’Ufficio, ritenuta l’attività d’impresa esercitata, li ha qualificati ai sensi dell’art. 32, comma 10, n. 2, D.P.R. 600/73 come ricavi conseguiti nell’ambito dell’esercizio dell’attività d’impresa.” – statuisce l’illegittimità del provvedimento impositivo sulla base del fatto che “per l’annualità in esame gli stessi agenti della Guardia di Finanza nel verbale di contestazione hanno rilevato che “l’A. non ha mai svolto attività nel ramo dei lavori edili”. Ossia non sussiste il presupposto giuridico – l’esercizio d’attività d’impresa – per ritenere integrata la fattispecie prevista dall’art. 32, comma 2, n. 2, cit. costituente fondamento unico dell’avviso d’accertamento impugnato”.
Ricorre l’Agenzia con un unico motivo concernente violazione degli artt. 32 D.P.R. 600/73 e 51 D.P.R. 633/72, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., nella quale la Commissione Regionale sarebbe incorsa nell’esigere la dimostrazione, da parte dell’Amministrazione e ai fini dell’operatività dell’inversione dell’onere della prova prevista dalle suddette norme, dello svolgimento di un’attività di impresa da parte del contribuente.
Si costituisce con controricorso l’intimato, sostenendo la fondatezza della tesi accolta dal giudice del merito e contestata dall’Ufficio.
All’esito del deposito della relazione ex art. 380 bis cpc la causa veniva discussa nell’adunanza della camera di consiglio del 3.12.14, per la quale la ricorrente depositava memoria datata 26.11.14. Il Collegio rimetteva la causa alla pubblica udienza e quindi la stessa veniva discussa e decisa all’udienza del 4.3.15, alla quale è intervenuta solo la difesa erariale.
Motivi della decisione
La censura di violazione di legge prospettata nel ricorso non può trovare accoglimento.
In linea di diritto il Collegio ritiene di dove ribadire il principio invocato dalla difesa erariale, espresso dalla prevalente giurisprudenza di questa Corte (nonostante il dissonante arresto n. 23853/09, richiamato nel controricorso), che, quando sussistono flussi finanziari che non trovano corrispondenza nella dichiarazione dei redditi, i dati risultanti dai conti correnti bancari possono essere utilizzati sia per dimostrare l’esistenza di un’eventuale attività occulta (impresa, arte o professione), sia per quantificare il reddito ricavato da tale attività, incombendo al contribuente l’onere di dimostrare che i movimenti bancari che non trovano giustificazione sulla base delle sue dichiarazioni non sono fiscalmente rilevanti (sentenze nn. 9573/07, 18111/09, 10578/11, 19692/11).
Nella sentenza gravata, tuttavia, la Commissione Tributaria Regionale non mette in discussione il principio di diritto che i dati risultanti dai conti correnti bancari possono essere utilizzati per dimostrare l’esistenza di un’eventuale attività occulta (e non solo per dimostrare l’ammontare dei relativi ricavi, dovendo l’esistenza dell’attività risultare provata aliunde) ma – con una valutazione di fatto censurabile solo sotto il profilo del vizio di motivazione, e non censurata in ricorso – ha ritenuto che la presunzione di esercizio di attività occulta basata sui movimenti dei conti bancari del contribuente, ai sensi degli articoli 32 d.p.r. 602/773 e 51 d.p.r. 633/72, sarebbe stata nella specie superata dall’accertamento positivo, operato nel verbale di contestazione della Guardia di Finanza, che nell’anno in esame il sig. A. non aveva mai svolto attività nel ramo dei lavori edili.
La censura mossa nell’unico mezzo di ricorso risulta dunque non pertinente alla ratio decidendi della sentenza gravata, la quale si fonda su un accertamento di fatto e non su un giudizio di diritto, e pertanto il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità si compensano.
Non va disposto a carico della ricorrente il versamento un ulteriore importo a titolo di contributo unificato – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 – essendo la ricorrente un’Amministrazione esonerata, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, dal versamento del contributo stesso.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.