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Il dipendente in malattia può svolgere altre attività lavorative

18 Agosto 2015
Il dipendente in malattia può svolgere altre attività lavorative

Lavoro: se si rispetta il divieto di concorrenza e di rallentamento della guarigione, si possono svolgere altre attività anche quando si è assenti per malattia dal lavoro.

Il dipendente, assente per malattia dal lavoro, ben potrebbe, durante tale periodo, svolgere altre attività lavorative in favore di terzi purché sussistano tre condizioni:

– non deve aver simulato la malattia, mentre, in realtà, è in perfetta salute;

– la diversa attività non si deve porre in concorrenza con quella del proprio datore di lavoro; resta infatti, anche durante la malattia, l’obbligo di fedeltà al datore di lavoro e il divieto di svolgere lavori che possano porsi in concorrenza;

– la diversa attività non deve compromettere la pronta guarigione; il decorso, infatti, della malattia non deve essere rallentato, poiché resta dovere del dipendente quello di rimettersi al più presto per tornare al lavoro “principale”.

Se vengono rispettati questi tre requisiti, non si può licenziare il dipendente che, durante la malattia, svoge altre attività lavorative. È quanto affermato dalla Cassazione in una recente sentenza [1].

La vicenda

Una società licenziava un lavoratore che, durante il periodo di assenza per infortunio, aveva svolto un’attività lavorativa comportante un impegno psico-fisico omogeneo a quello richiesto per le prestazioni oggetto del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’azienda.

La compatibilità delle nuove mansioni con la malattia

Per valutare l’eventuale legittimità del comportamento del dipendente, in ipotesi di questo tipo, sarà necessario verificare la compatibilità delle mansioni svolte presso terzi durante la malattia e la patologia sofferta.

La Corte di Cassazione ricorda che non sussiste per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare, durante l’assenza, un’attività lavorativa in favore di terzi, purché questa non evidenzi una simulazione di infermità, oppure importi una violazione del divieto di concorrenza o, ancora, comprometta la guarigione del lavoratore, che implicherebbe l’inosservanza al dovere di fedeltà imposto al prestatore d’opera.

Perciò, il licenziamento è senza giusta causa se l’azienda non dimostra che il lavoratore ha agito fraudolentemente ai danni del datore di lavoro, simulando la malattia, lavorando durante l’assenza con altre imprese concorrenti o compromettendo la propria guarigione, strumentalizzando in questo modo il suo diritto al riposo per trarne un reddito dal lavoro diverso in costanza di malattia.


note

[1] Cass. sent. n. 4237/15/2015

Autore immagine: 123rf com

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 12 novembre 2014 – 3 marzo 2015, n. 4237
Presidente Roselli – Relatore Tria

Svolgimento del processo

1.- La sentenza attualmente impugnata (depositata il 19 febbraio 2011) rigetta l’appello di D.C.S. avverso la sentenza n. 4233/2009 del Tribunale di Catania che, a sua volta, aveva respinto l’impugnativa del D.C. del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla AUCHAN s.p.a. a causa dello svolgimento, durante il periodo di assenza per infortunio (trauma distorsivo del polso destro), di attività lavorativa comportante un impegno psico-fisico omogeneo a quello richiesto per le prestazioni di lavoro (addetto alla vendita nel reparto pescheria) che costituivano oggetto del rapporto di lavoro alle dipendenze della AUCHAN.
Il D.C. aveva chiesto in primo grado, oltre all’accertamento dell’illegittimità del licenziamento, la reintegra nel posto di lavoro ed “il risarcimento del conseguente danno come per legge”.
La Corte d’appello di Catania, per quel che qui interessa, precisa che:
a) è infondato il motivo di appello con il quale si sostiene l’erroneità delle ordinanze con le quali il primo giudice ha affermato la nullità della originaria notifica del ricorso introduttivo, diretta alla società AUCHAN, ma ritirata dalla ARTHIS s.p.a. il 17 maggio 2005;
b) infatti, non vi era in atti alcun elemento idoneo a dimostrare l’esistenza di un preciso incarico conferito dalla AUCHAN alla ARTHIS anche limitatamente al compito della distribuzione della corrispondenza;
c) nel merito, va precisato che il D.C. era dipendente della AUCHAN con mansioni di addetto alla vendita del reparto pescheria a decorrere dal 29 gennaio 1994 e con rapporto di lavoro part-time, con orario dalle 16,30 alle 21,15;
d) dall’istruttoria svolta è emerso che, almeno in una giornata (27 ottobre 2004) il lavoratore ha svolto, nel corso di un periodo di assenza dal lavoro per un infortunio, una attività lavorativa analoga a quella propria del rapporto di lavoro con la AUCHAN presso un’altra pescheria tra le ore 13 e le ore 17,30, quindi in un orario in cui avrebbe dovuto lavorare presso la AUCHAN;
e) ebbene, in base alla giurisprudenza di legittimità, si deve ritenere che il comportamento del lavoratore abbia integrato una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltrepassando i limiti entro i quali può essere consentita al dipendente la prestazione di attività lavorativa anche a favore di terzi nel periodo di assenza per malattia;
f) infatti, al D.C. era stata riconosciuta una inabilità temporanea al lavoro assoluta, non limitata alle attività fisicamente più impegnative (come il taglio di pesci di grandi dimensioni), sicché l’espletamento della suddetta attività lavorativa durante lo stato di malattia è valutabile – ex ante – come idoneo a pregiudicare il più rapido recupero della piena idoneità fisica dell’interessato;
g) né il lavoratore ha offerto prove atte a dimostrare il contrario, come sarebbe stato suo onere;
h) inoltre, per quanto riguarda l’elemento psicologico, va osservato che lavoratore non poteva non prevedere che o la condotta posta in essere avrebbe potuto aggravare le sue condizioni di salute oppure, sul presupposto della compatibilità con la guarigione dello svolgimento della prestazione lavorativa avrebbe dovuto offrirne l’espletamento al proprio datore di lavoro.
2- Il ricorso di D.C.S. domanda la cassazione della sentenza per due motivi; resiste, con controricorso, AUCHAN s.p.a..

Motivi della decisione

I – Sintesi dei motivi di ricorso.
1.— Il ricorso è articolato in due motivi.
1.1.- Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 145 e 149 cod. proc. civ..
Si ribadisce l’erroneità della statuizione con la quale la Corte d’appello ha respinto la censura del lavoratore in merito alla decisione del primo giudice che aveva escluso la validità della notifica del ricorso introduttivo effettuata per posta e diretta alla società AUCHAN, ma ritirata dalla ARTHIS s.p.a. il 17 maggio 2005.
Si sostiene che, in base alla giurisprudenza di legittimità, per la notificazione a mezzo posta presso la sede delle persone giuridiche è consentita la consegna del plico, oltre che al legale rappresentante, a persona all’uopo addetta, e, allorché il conferimento del compito di ritirare l’atto sia stato dichiarato dalla persona cui viene effettuata la consegna e che sottoscrive l’avviso di ricevimento, l’agente postale è dispensato da ulteriori accertamenti, determinando tale dichiarazione la presunzione, fino a prova contraria, dell’esistenza dell’incarico, il quale non abbisogna di deleghe formali e continuative, e può derivare anche da un mandato verbale e temporaneo.
Conseguentemente, anziché disporre la rinnovazione della notifica, il primo giudice avrebbe dovuto dichiarare la contumacia della AUCHAN con le conseguenti decadenze processuali, come richiesto dal lavoratore, tanto più che anche il secondo ricorso era stato ritirato dalla ARTHIS.
1.2.- Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Si sottolinea che il rapporto di lavoro era part-time e la ripresa del lavoro è stata regolare, essendo avvenuta al termine del periodo determinato dall’INAIL per l’infortunio.
In questa situazione, non sarebbe ammissibile una valutazione ex ante tra le mansioni svolte presso terzi durante la malattia e la patologia sofferta e comunque il lavoratore avrebbe offerto la prova contraria con la regolare ripresa del lavoro.
Ne consegue che null’altro il D.C. doveva dimostrare.
Di qui la illogicità della sentenza impugnata che non avrebbe esattamente inquadrato la specificità della fattispecie, come si desumerebbe anche dalla giurisprudenza di legittimità ivi richiamata, tutta relativa ad ipotesi di lavoratori assunti con contratti full-time e non part-time nonché dalla mancata considerazione di fatto che il lavoratore non avrebbe potuto rientrare al lavoro presso l’AUCHAN prima della scadenza del periodo indicato dall’INAIL.
Né va omesso di considerare che tra le sentenze richiamate dalla Corte territoriale qualcuna riguarda l’ipotesi di simulazione dello stato patologico, che qui non ricorre come dimostrano i referti radiologici in atti.
D’altra parte, anche gli orari della prestazioni presso terzi quali indicati nella sentenza impugnata vengono contestati dal ricorrente che sostiene che tali orari sarebbero quelli di servizio del’investigatore privato della AUCHAN e che, per tale ragione, il ricorrente non aveva motivo di dimostrare qualcosa di diverso sul punto.
III – Esame delle censure.
2.- Il primo motivo del ricorso va dichiarato inammissibile, per le ragioni di seguito esposte.
2.1.- Deve essere ricordato che, in base a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte:
a) per la notificazione a mezzo posta presso la sede delle persone giuridiche è consentita la consegna del plico, oltre che al legale rappresentante, a persona all’uopo addetta, e, allorché il conferimento del compito di ritirare l’atto sia stato dichiarato dalla persona cui viene effettuata la consegna e che sottoscrive l’avviso di ricevimento, l’agente postale è dispensato da ulteriori accertamenti, determinando tale dichiarazione la presunzione, fino a prova contraria, dell’esistenza dell’incarico, il quale non abbisogna di deleghe formali e continuative, e può derivare anche da un mandato verbale e temporaneo (Cass. S.U. 24 ottobre 2005, n. 20473);
b) d’altra parte, l’ordine di rinnovo della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio (disposto ai sensi dell’art. 291 cod. proc. civ. e, per il rito del lavoro, ai sensi dell’art. 421 cod. proc. civ.) è provvedimento che corrisponde ad uno specifico modello processuale, potendo e dovendo essere emesso sempre che si verifichi la situazione normativamente considerata; ne consegue che l’atto che dispone la rinnovazione della notifica quando una rituale notifica vi sia già stata deve ritenersi nullo ai sensi dell’art. 156 cod. proc. civ., perché non riconducibile al relativo modello processuale, in quanto emesso al di fuori delle ipotesi consentite, e perché inidoneo a raggiungere il proprio scopo, consistente nella valida instaurazione del contraddittorio, essendo tale scopo già stato raggiunto per la ritualità della notifica della quale è stata erroneamente disposta la rinnovazione;
c) la nullità del suddetto atto può trasmettersi agli atti successivi che ne dipendono ma è anche suscettibile di sanatoria se non si dimostra che per effetto dell’ordine di rinnovazione impartito al di fuori delle ipotesi consentite l’interessato subito delle conseguenze pregiudizievoli tuttora attuali al momento della relativa rilevazione (Cass. 28 ottobre 2010, n. 22032; Cass. 18 settembre 2009, n. 20104).
Nella specie, ai fini del presente ricorso per cassazione, non emergono le suddette conseguenze pregiudizievoli, sicché deve essere applicato il consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte secondo cui l’interesse all’impugnazione – che costituisce manifestazione del generale principio dell’interesse ad agire, sancito, quanto alla proposizione della domanda ed alla contraddizione alla stessa, dall’art. 100 cod. proc. civ. – va apprezzato in relazione all’utilità concreta derivabile, alla parte, dall’eventuale accoglimento del gravame e non può consistere in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, non avente riflessi sulla decisione adottata, è inammissibile, per difetto d’interesse, un’impugnazione con la quale si deduca la violazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, che non spieghi alcuna influenza in relazione alle domande o eccezioni proposte e che sia diretta, quindi, all’emanazione di una pronuncia priva di rilievo pratico (vedi, tra le molte: Cass. 16 marzo 2011, n. 6150; Cass. 23 maggio 2008, n. 13373; Cass. 19 maggio 2006, n. 11844; Cass. 26 luglio 2005, n. 15623).
2.2.- Il secondo motivo va, invece, accolto, nei limiti e per le ragioni di seguito esposti.
2.3.- Deve essere, in primo luogo, osservato che, in base alla costante giurisprudenza di questa Corte:
a) non sussiste per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare – durante tale assenza – attività lavorativa in favore di terzi, purché questa non evidenzi una simulazione di infermità, ovvero importi violazione al divieto di concorrenza, ovvero ancora, compromettendo la guarigione del lavoratore, implichi inosservanza al dovere di fedeltà imposto al prestatore d’opera. Pertanto non si configura giusta causa di licenziamento ove non sia stato provato che il lavoratore abbia agito fraudolentemente in danno del datore di lavoro, simulando la malattia per assentarsi in modo da poter espletare un lavoro diverso o lavorando durante l’assenza con altre imprese concorrenti (con quella cui è contrattualmente legato) oppure – anziché collaborare al recupero della salute per riprendere al più presto la propria attività lavorativa – abbia compromesso o ritardato la propria guarigione strumentalizzando così il suo diritto al riposo per trame un reddito dal lavoro diverso in costanza di malattia ed in danno del proprio datore di lavoro (vedi, per tutte: Cass. 8 ottobre 1985, n. 4866; Cass. 19 dicembre 2000, n. 15916);
b) il lavoratore al quale sia contestato in sede disciplinare di avere svolto un altro lavoro durante un’assenza per malattia ha l’onere di dimostrare la compatibilità dell’attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa contrattuale e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche, restando peraltro le relative valutazioni riservate al giudice del merito all’esito di un accertamento da svolgersi non in astratto ma in concreto (Cass. 19 dicembre 2000, n. 15916 cit.; Cass. 13 aprile 1999, n. 3647).
2.4.- Nella specie, è pacifico fra le parti che l’attività lavorativa svolta durante la malattia presso terzi non ha pregiudicato la guarigione del lavoratore, che ha regolarmente ripreso servizio al termine del periodo determinato dall’INAIL per l’infortunio.
Né vi sono dubbi sulla reale esistenza della malattia, provata dai referti medici e, in particolare, radiologici in atti, che non risultano oggetto di contestazione.
2.5.- In questa situazione, il comportamento del lavoratore – per come accertato, sia dalla datrice di lavoro, avvalendosi della collaborazione di investigatori privati, sia in sede giudiziaria – appare caso mai meritevole di una sola sanzione conservativa, data la scarsa lealtà dimostrata dal lavoratore che, se riteneva di essersi completamente rimesso prima della scadenza del periodo di malattia, avrebbe dovuto, correttamente offrire la propria prestazione al datore di lavoro, anziché ad un terzo (arg. ex Cass. 27 luglio 1998, n. 7467).
Pertanto, la sanzione espulsiva irrogata risulta sproporzionata al comportamento stesso. Non va, infatti, dimenticato che è ius receptum che:
1) la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento “che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” (vedi tra le molte: Cass. 18 settembre 2012, n. 15654);
2) la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici (vedi, tra le tante: Cass. 26 aprile 2012, n. 6498).
2.6.- Da quel che si è detto deriva che nell’espletamento della attività lavorativa in oggetto da parte del D.C. – che, si ripete, appare caso mai meritevole di una sanzione conservativa – non si rinvengono gli estremi della giusta causa di licenziamento, in quanto diversamente da quanto affermato la Corte catanese: a) la valutazione della sua compatibilità con il puntuale recupero della piena idoneità fisica andava effettuato ex post e non ex ante; b) in questa ottica, la regolare ripresa del servizio poteva essere intesa, di per sé, come elemento idoneo a dimostrare la inidoneità dell’attività svolta presso terzi a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche dell’interessato; c) infine, con l’anzidetta valutazione ex post (conforme alla giurisprudenza di questa Corte), anche per l’accertamento dell’elemento psicologico si giunge ad una conclusione parzialmente diversa da quella adottata nella sentenza impugnata.
IV – Conclusioni.
3.- In sintesi, il primo motivo va dichiarato inammissibile e il secondo va accolto, nei sensi suddetti e con assorbimento di ogni altro profilo di censura.
La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Palermo, che, data l’insussistenza della giusta causa di licenziamento, si limiterà a provvedere in ordine alle domande di condanna proposte dal lavoratore.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso e accoglie il secondo. Cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di cassazione alla Corte d’appello di Palermo.


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