REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI VERBANIA
in composizione monocratica, in persona del dott. C. Michelucci ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
nella causa iscritta al n. 144/2013 R.G. promossa da:
(…) in persona del legale rappresentante (…) con sede a Verbania Piazza (…), assistita e difesa dall’avv. Do.Ca. del Foro di Verbania ed elettivamente domiciliata presso il difensore in Domodossola via (…), giusta procura in calce all’atto di citazione
ATTRICE CONTRO
(…) con sede legale (…), in persona del in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione e legale rappresentante, dott. Fl.Tr., rappresentata e difesa, giusta procura generale alle liti del 22 marzo 2011, per Notaio Rep. n. 15.119, Racc. n. 5.997 dall’avv. (…) del foro di Milano ed elettivamente domiciliata in Verbania, C.so (…), presso lo studio dell’avv. (…)
CONVENUTA
MOTIVI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Con atto di citazione, ritualmente notificato, la (…) in giudizio la (…) esponendo che:
– anteriormente al 1994, aveva stipulato con la (…) (oggi (…)) filiale di Verbania Intra, il contratto di conto corrente 201100, assistito da apertura di credito a tempo indeterminato, tutt’ora in corso;
– anteriormente al 1995 la società attrice aveva instaurato con la Banca convenuta il conto anticipi fatture 201102 (contabilmente azzerato a giugno 2010).
Lamentava, quindi, in relazione ai predetti rapporti, l’illegittima capitalizzazione trimestrale da parte della banca degli interessi passivi in violazione dell’art. 1283 c.c., l’applicazione di interessi ultralegali non pattuiti per iscritto, la scorretta antergazione e postergazione delle valute nonché l’illegittima applicazione di commissioni di massimo scoperto, competenze e spese.
Chiedeva, pertanto, che previa riliquidazione del saldo del rapporto sulla base delle eccezioni e delle contestazioni proposte, la convenuta fosse condannata, nell’ipotesi in cui il conto corrente ordinario al tempo delle decisione risultasse ancora esistente, alla rideterminazione del saldo con accreditamento a favore del correntista di una somma pari a quella delle somme pluspercette, ovvero, nell’ipotesi in cui al tempo della decisione, il conto risultasse estinto al pagamento in suo favore delle somme indebitamente percepite, quantificate alla data del 31.12.2011, sulla base di una consulenza di parte, in Euro 287,671,19, oltre accessori. Chiedeva inoltre la condanna della Banca al risarcimento dei danni ai sensi degli artt. 1218, 1337, 1338, 1366, 1375 e 2043 c.c. ed anche ai sensi della legge 675/1996.
Si costituiva in giudizio la (…) a scpa nullità dell’atto di citazione per violazione dell’art. 163 n. 4 c.p.c. nonché la prescrizione della pretesa di rideterminazione del saldo avanzata da controparte con riferimento al periodo anteriore al 4.9.2002, ovvero anteriormente al decennio dalla lettera di diffida 4.9.2012 inviata dal correntista; negava, in ogni caso, che il conto corrente fosse assistito da affidamenti, con la conseguenza che tutte le rimesse effettuate sul conto corrente ordinario 201100 avrebbero avuto natura solutoria ai fini dell’applicazione dei principi stabiliti dalla sentenza della Cassazione SS.UU. 24418/2010; eccepiva altresì l’avvenuta prescrizione di ogni pretesa creditoria avanzata dall’attrice e concernente addebiti di interessi e/o commissioni di massimo coperto, nonché degli ulteriori oneri impugnati, anteriori ai cinque anni antecedenti alla ricezione della raccomandata indicata ritenendo applicabile il disposto dell’art. 2948 n. 4 c.c.
Nel merito, in relazione alle specifiche doglianze dell’attrice, sosteneva che la misura degli interessi fosse stata validamente pattuita sin dall’inizio dei rapporti (e poi in seguito nuovamente formalizzata); con riferimento alla capitalizzazione degli interessi, sosteneva la legittimità della capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal correntista, almeno a partire dal 30.6.2000, successivamente al d.lgs., 342/1999 e alla delibera CICR 9.2.2000, avendo la banca rispettato le condizioni da questa prescritte, sottolineando, in subordine, la necessità di applicare per il periodo anteriore quantomeno la capitalizzazione semestrale o annuale. Contestava altresì la fondatezza delle ulteriori doglianze in merito all’applicazione di commissioni di massimo scoperto, spese, variazioni condizioni contrattuali, giorni valuta, chiedendo il rigetto integrale delle pretese avversarie anche sotto il profilo della richiesta di risarcimento danni, totalmente immotivata.
Con la seconda memoria ai sensi dell’art. 183 comma 6 c.p.c. l’attrice dava atto di avere comunicato con lettera raccomandata 24.6.2013 (doc. 6 parte attrice) la volontà di recedere dal contratto di conto corrente; la Banca convenuta rilevava peraltro che la semplice comunicazione di recesso non valeva a produrre la chiusura dei rapporti, potendo questa avere luogo solo previa estinzione del saldo debitore maturato sul conto e previo pagamento degli oneri di chiusura e previa riconsegna dei libretti di assegni e delle carte in uso al cliente.
La causa veniva istruita mediante espletamento di CTU affidata al dott. Iv.CA.; quindi all’udienza dell’11.11.2014, sulle conclusioni delle parti riportate in epigrafe, il giudice tratteneva la causa a sentenza previa concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica.
Preliminarmente deve essere respinta l’eccezione di nullità dell’atto di citazione formulata da parte convenuta: dalla lettura complessiva dell’intero atto risulta infatti chiaramente individuato il rapporto di conto corrente e i rapporti bancari e afferenti e collegati al primo (conto anticipi fatture e affidamento) in relazione al quale parte attrice ha formulato le proprie contestazioni e chiesto di rideterminare il saldo e (per l’ipotesi di intervenuta chiusura del conto) la ripetizione delle somme indebitamente corrisposte. Il contenuto dell’atto di citazione è pertanto sufficientemente determinato sia in ordine al petitum che alla causa petendi (applicazione da parte dell’istituto bancario di interessi anatocistici, nonché di interessi superiori alla misura legale, cms, spese di tenuta conto e maggiori oneri derivanti dalla mancala equiparazione delle valute alle date delle operazioni, non dovuti perché illegittimi – interessi anatocistici e cms – o non pattuiti per iscritto – interessi ultralegali, spese tenuta conto, giorni valuta e cms -) onde consentire alla convenuta di apprestare idonea difesa.
Sempre preliminarmente, deve essere rigettata perché infondata anche l’eccezione di prescrizione formulata dalla banca.
In realtà, all’inizio del presente giudizio, poiché il conto corrente 201100 risultava ancora aperto alcun problema di prescrizione (che attiene esclusivamente alla domanda di ripetizione) si poteva porre: infatti in relazione ad un conto ancora in essere non può affermarsi la sussistenza di un credito del correntista nei confronti della Banca ma, esclusivamente, una consistenza attiva che il correntista può autonomamente prelevare dal conto; il pagamento indebito si determina, infatti, solo con la chiusura del Conto, essendo invece anteriormente possibile solamente una pronuncia di accertamento avente ad oggetto l’applicazione di interessi anatocistici in violazione dell’art. 1283 c.c. piuttosto che di interessi ultralegali e commissioni e spese non pattuite.
Peraltro, la correntista aveva formulato domanda alternativa di condanna per l’ipotesi che al tempo delle decisione il conto risultasse estinto: in effetti, come già’ anticipato, con lettera raccomandata 24.6.2013 (ricevuta il 28.6.2013) la (…) comunicava la volontà di recedere dal contratto di conto corrente.
Ora il recesso, quale atto recettizio, produce effetto dal momento in cui giunge a conoscenza del destinatario sicché non può ritenersi legittima qualsiasi operazione di addebito di costi e capitalizzazione trimestrale di interessi sul conto effettuata dalla Banca successivamente al recesso comunicato.
Non corrisponde, infatti, ai principi di correttezza e buona fede il comportamento della banca che ricevuto il recesso dal conto corrente continui a lasciare aperto il conto al solo fine di addebitare interessi c spese. Il recesso comporta, invece, la chiusura del conto, con dovere di rendiconto finale, determinazione del saldo e fine del servizio di cassa.
In definitiva la banca non può pretendere competenze posteriori alla chiusura del conto al 28 giugno 2013.
Nella prospettiva della domanda di condanna dunque, ritiene questo Giudice che il termine di prescrizione (decennale) debba farsi decorrere dalla cessazione del rapporto, salva l’esistenza in corso di rapporto di versamenti sul conto di natura solutoria (che però l’istituto di credito ha l’onere di Indicare specificamente nel sollevare l’eccezione di prescrizione) per i quali la prescrizione opera dalla data della singola operazione.
Con orientamento di gran lunga maggioritario, la giurisprudenza ha ripetutamente affermato che la prevenzione del diritto alla ripetizione dell’indebito decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, considerala la natura unitaria del contratto di conto corrente bancario, il quale dà luogo ad un unico rapporto giuridico, ancorché articolato in una pluralità di atti esecutivi: la serie successiva di variamenti e prelievi, accreditamenti e addebiti, comporterebbe soltanto variazioni quantitative del titolo originario costituito tra banca e cliente; soltanto con la chiusura del conto si stabilirebbero in via definitiva i crediti e i debiti delle parti e le somme trattenute indebitamente dall’istituto di credito potrebbero essere oggetto di ripetizione (vd. Cass. 10127/2005 e giurisprudenza ivi richiamata).
La Suprema Corte di Cassazione con pronuncia resa a Sezioni Unite (24418/2010) ha sostanzialmente confermato questa conclusione aggiungendo peraltro che, quando nell’ambito del rapporto in questione è stato eseguito un atto giuridico definibile come pagamento (consistente nell’esecuzione di una prestazione da parte di un soggetto, con conseguente spostamento patrimoniale a favore di altro soggetto) e il solvens ne contesti la legittimità assumendo la carenza di una idonea causa giustificativa, perciò agendo per la ripetizione dell’indebito, la prescrizione decorre dalla data in cui il pagamento Indebito è stato eseguito. Ma ciò soltanto qualora si sia in presenza di un atto con efficacia solutoria, cioè per l’appunto di un pagamento, vale a dire di un
versamento eseguito su un conto passivo (“scoperto”), cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, oppure di un versamento destinato a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento (cosiddetto extra fido). In definitiva, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, il termine di prescrizione dell’azione di ripetizione decorre dalla data in cui è stato estinto il conto corrente in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati. Solo da tale momento sussiste infatti un pagamento indebito.
Nel caso di specie, la correntista ha allegato che il conto corrente ordinario fosse assistito da un’apertura di credito (senza indicazione di alcun limite), con la conseguenza che ai versamenti deve attribuirli funzione ripristinatoria della provvista.
Nella comparsa di costituzione e risposta la banca ha specificamente osservato sul punto che l’attrice non avrebbe fornito qualsivoglia elemento di riscontro all’esistenza di un’apertura di credito sul conto e conseguentemente che, i versamenti effettuati durante lo svolgimento del rapporto devono considerarsi tutti avere avuto funzione solutoria.
In realtà la stessa Banca ammette, contraddittoriamente rispetto all’eccezione proposta, l’esistenza di tuia linea di eredito per scoperto di conto corrente, dell’ammontare di Euro 31.000, a valere appunto sul rapporto di c/c 201100 come indicato nel riconoscimento di debito del 28.11.2011 (- doc. 3 parte convenuta -).
Ne discende che deve ritenersi quindi pacifico che il conto corrente fosse assistito da un’apertura di credito.
Per ciò solo l’eccezione di prescrizione sollevata dalla convenuta appare non correttamente formulata in quanto la banca non ha provveduto a indicare specificamente e tempestivamente, nella comparsa di costituzione e risposta e quindi nelle proprie iniziali difese, le rimesse effettuate dall’attrice che avrebbero natura solutoria nel senso prospettato, essendosi limitata la banca ad affermare l’inesistenza di un affidamento (circostanza smentita dalla sue stesse allegazioni) e che tutti i versamenti operati su conto passivo risultano pertanto avere natura solutoria. In altri termini, la banca era tenuta ad eccepire l’Intervenuta prescrizione, non in forma generica, bensì specificamente, precisando il momento iniziale dell’inerzia del correntista in relazione a ciascun versamento extrafido con funzione solutoria (cfr. Corte d’Appello di Milano sez. I, sentenza del 20/02/2013).
Non solo ma, sulla misura dell’affidamento, deve osservarsi che dal riconoscimento di debito invocato dalla Banca può ricavarsi al più che a tale data (28.11.2011) il limite del fido fosse da ritenere fissato a 31,000 Euro; l’arco temporale rilevante ai fini della decisione sull’eccezione copre il periodo però sino al 2002 (avendo la stessa Banca riconosciuto l’esistenza di una diffida idonea ad interrompere la prescrizione in data 4.9.2012).
Anteriormente al 2011, certamente la misura dell’affidamento considerata dalle parti era superiore a Euro 31.000 (si confronti ad esempio l’estratto conto scalare 31.12.2005 che considera eccedente lo scoperto oltre 40.000 Euro e l’estratto conto scalare al 31.3.1999 che considera eccedente la scopertura oltre 100 milioni di lire) e deve ritenersi quindi che tale limite, in relazione alla concreta realtà del rapporto, sia con il tempo variato, senza che sia stata prodotta alcuna scrittura di affidamento tra le parti.
Ora, lo stesso CTP di parte convenuta nelle sue osservazioni riconosce che l’esposizione in extra fido che si protrae nel tempo (come nel caso di specie) induce una significativa presunzione di un
fido di fatto, riluttando altresì che la banca pur in presenza di sconfinamenti abbia sempre provveduto regolarmente al pagamento di assegni e al riconoscimento degli ordini di addebito pervenuti in conto (Cfr., osservazioni dott. Em.Sa. pagg. 3 – 4; risposte alle osservazioni di parte del CTU dott. Ca. pag. 2).
L’esame degli estratti conto del periodo di interesse documenta, infatti, che, dal 1994, il rapporto si è protratto costantemente a debito (anche con rilevanti saldi negativi) senza che la banca abbia mai provveduto a mettere in mora la cliente e senza chiedere alla stessa di rientrare dell’esposizione debitoria. Risulta d’altronde che la banca pur in presenza di saldi debitori abbia sempre provveduto regolarmente al pagamento di assegni e agli ordini di addebito.
Dunque il comportamento delle parti depone per un affidamento di fatto, oltre il limite dell’affidamento Indicato dalla banca (e sostanzialmente indeterminato).
Atteso comunque il mancato reperimento della prova certa del quantum dell’affidamento pur sicuramente concesso, ed a fronte della conseguente impossibilità di stabilire la natura solutoria o ripristinatoria dei versamenti effettuati nel corso del rapporto dal correntista, la soccombenza sulla questione di prescrizione dovrebbe essere in ogni caso determinata secondo il criterio residuale dell’onere della prova.
Con riferimento ad un’azione di ripetizione dell’indebito, incombe, ex art. 2697 c.c., sul convenuto l’onere di provare i fatti estintivi del diritto, tra cui la prescrizione, comprendendo tale onere anche quello di provare i fatti su cui l’eccezione si fonda – costituiti, nell’ipotesi che ci occupa, dalla soglia qualitativa dell’affidamento, atteso che tale misura costituisce dato cognitivo essenziale per l’intenzione dei versamenti al novero delle rimesse solutorie o di quelle ripristinatorie. In conformità a detta regola di riparto, il Supremo Collegio ha recentemente osservato che “i versamenti eseguiti sul conto corrente in costanza di rapporto hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista e non determinano uno spostamento patrimoniale dal solvens all’accipiens e, poiché tale funziona corrisponde allo schema causale tipico del contratto, una diversa finalizzazione dei singoli versamenti, o di alcuni di essi, deve essere in concreto provata da parte di chi intende far percorrere la prescrizione dalle singole annotazioni delle poste illegittimamente addebitate”, (Cass. n. 4518/14); in altri termini, il giudice di legittimità ha ritenuto operante, in punto di prescrizione, una sorta di “presunzione semplice” in ordine nella natura ripristinatoria delle rimesse, fondata sull’id quod plerumque accidit, ossia sulla maggiore frequenza statistica delle ipotesi di conto corrente correlato ad apertura di credito rispetto a quelle di conto corrente scoperto, addossando quindi alla Banca l’onere di prova contraria, ossia della natura Natatoria della rimessa.
In definitiva, comunque l’istituto convenuto, stante quanto sin qui esposto, non può ritenersi aver ottemperato all’onere probatorio a suo carico e l’eccezione di prescrizione non appare pertanto accoglibile.
Infondata deve ritenersi anche l’eccezione di decadenza, sostanzialmente, formulata da parte convenuta che ha rilevato la mancata impugnazione degli estratti conto relativi al conto corrente de quo.
Sotto tale profilo è sufficiente osservare che pacificamente “nel contratto di conto corrente, l’approvazione anche tacita dell’estratto conto, ai sensi dell’art. 1832, primo comma, cod. civ., preclude qualsiasi contestazione in ordine alla conformità delle singole annotazioni ai rapporti obbligatori dai quali derivano gli accrediti e gli addebiti iscritti nell’estratto conto (salva l’impugnazione per errori, omissioni e duplicazioni di carattere formale, ai sensi del secondo comma della medesima disposizione), ma non impedisce di sollevare contestazioni in ordine alla validità ed
all’efficacia dei rapporti obbligatori dai quali derivano i suddetti addebiti ed accrediti, e cioè quelle fumiate su ragioni sostanziali attinenti alla legittimità, in relazione al titolo giuridico, dell’inclusione o dell’eliminazione dipartite del conto corrente” (Cass. civ. Sez. 1, Sentenza n. 11749 del 18/05/2006).
Tanto premesso, la domanda attorea è fondata e merita accoglimento nei termini di seguito precisati.
Fondata risulta invece, anzitutto, la doglianza di parte attrice circa l’illegittima capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi pacificamente applicata al rapporto de quo ed effettivamente rincontrata dal CTU.
La norma dell’art. 1283 c.c. è ritenuta pacificamente di carattere imperativo e di natura eccezionale nella parte in cui ammette la possibilità che gli interessi scaduti possano produrre ulteriori interessi nella sola ipotesi di interessi dovuti per almeno un semestre e sempre che vi sia stata una formulazione di domanda giudiziale ovvero per effetto di una convenzione successiva alla scadenza degli interessi stessi. Tale norma può essere derogata da usi contrari ma deve trattarsi di veri e propri usi normativi e non di semplici usi negoziali (art. 1340 c.c.) o interpretativi (art. 1368 c.c.), consistendo l’uso normativo nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento accompagnato dalla convinzione che si tratti di comportamento giuridicamente obbligatorio in quanto conforme a norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell’ordinamento giuridico (opinio iuris ac necessitatis).
Quanto ai contratti bancari, la giurisprudenza ormai consolidata della Suprema Corte di Cassazione, con riferimento ai contratti di conto corrente di corrispondenza stipulati in data anteriore al 22 aprile 2000, ritiene del tutto illegittimo l’anatocismo trimestrale degli interessi debitori applicato dagli istituti di credito (v, Cass. SS.UU. 21095/2004 e Cass. 10127/2005) in quanto fondato su un uso negoziale contrariamente a quanto previsto dall’art. 1283 c.c.
In particolare, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 21095/2004 hanno definitivamente chiarito che deve escludersi l’esistenza di un uso normativo legittimante l’anatocismo trimestrale nei rapporti bancari, idoneo a derogare al precetto di cui all’art. 1283 c.c.; le clausole anatocistiche stipulate fino all’entrata in vigore della delibera CICR di cui al comma 2 del d.lgs., 342/1999 sono, quindi, da considerare nulle in quanto stipulate in violazione dell’art. 1283, cod. civ., perché basate su un uso negoziale, anziché su un uso normativo, mancando di quest’ultimo il necessario requisito soggettivo, consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, operando in un certo modo, ad una norma giuridica, per la convinzione che il comportamento tenuto è giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme ad una norma che già esiste o che si reputa debba fare parte dell’ordinamento giuridico (“opinio juris ac necessitatis”). Infatti, va escluso che detto requisito soggettivo sia venuto meno soltanto a seguito delle decisioni della Corte di Cassazione che, a partire dal 1999, modificando il precedente orientamento giurisprudenziale, hanno ritenuto la nullità delle clausole in esame, perché non fondate su di un uso normativo, dato che la funzione della giurisprudenza è meramente ricognitiva dell’esistenza e del contenuto della regola, non già creativa della stessa, e, conseguentemente, in presenza di una ricognizione, anche reiterata nel tempo, rivelatasi poi inesatta nel ritenerne l’esistenza, la ricognizione correttiva ha efficacia retroattiva, poiché, diversamente, si determinerebbe la consolidazione “medio tempore” di una regola che avrebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenze che, erroneamente presupponendola, l’avrebbero creata.
Deve ritenersi, invece, attualmente ammissibile la capitalizzazione degli interessi pattuita mediante apposite clausole contenute nei contratti bancari in forza della delibera CICR 9.2.2000; l’art. 120
TUB come modificato dall’art. 25 del D.Lgs. 342/99, ha infatti attribuito al CICR il potere di stabilire le modalità ed i criteri per la produzione degli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria.
Quanto alla capitalizzazione degli interessi per il periodo successivo alla delibera CICR 9.2.2000, per i contratti stipulati in precedenza, si deve, però, osservare quanto segue.
In proposito, l’art. 7 della citata Delibera C.I.C.R. 9.2.2000 prevede che:
“1. Le condizioni applicate sulla base dei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della presente delibera devono essere adeguate alle disposizioni in questa contenute entro il 30/6/00 e i relativi effetti si producono a decorrere dal successivo 1 luglio.
2. Qualora le nuove condizioni contrattuali non comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, le banche e gli intermediari finanziari, entro il medesimo termine del (…), possono provvedere all’adeguamento, in via generale, mediante pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Di tali nuove condizioni deve essere fornita opportuna notizia per iscritto alla clientela alla prima occasione utile, e, comunque, entro il 30/12/00.
3. Nel caso in cui le nuove condizioni contrattuali comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, esse devono essere approvate dalla clientela”.
Tale normativa costituisce attuazione del terzo comma dell’art. 25 dal D.Lgs. n. 342/99 (“Le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui al comma 2, sono valide ed efficaci fino a tale data e, dopo di essa, debbono essere adeguate al disposto della menzionata delibera, che stabilirà altresì le modalità e i tempi dell’adeguamento. In difetto di adeguamento, le clausole divengono inefficaci e l’inefficacia può essere fatta valere solo dal cliente”).
Più in particolare, con l’art. 25 in parola il Governo era intervenuto sull’art. 120 del T.U.B. modificandone la rubrica (comma 1), aggiungendo un secondo comma all’art. 120 che prevede o l’anatocismo nel rispetto della pari periodicità (“Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori”) e prevedendo, con il comma 3, la disciplina transitoria e di sanatoria, di cui si è detto.
Dunque, secondo il disegno del legislatore inverato attraverso la delibera CICR, le vecchie clausole anatocistiche avrebbero dovuto essere salvate e produrre la loro efficacia fino alla data di entrata in vigore della delibera del CICR medesima; dopo tale data, avrebbero dovuto essere adeguate secondo il meccanismo di cui al più sopra riportato art. 7.
Con sentenza 425/2000 del 9.10.2000 però la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per eccesso di delega, del terzo comma dell’art. 25 del decreto legislativo n. 342/1999.
Ne consegue che anche il successivo intervento che ha disciplinato la possibilità di adeguamento delle vecchie clausole ha perso di rilevanza, non potendosi più adeguare una clausola irrimediabilmente nulla.
E’ venuto meno, quindi, il presupposto legittimante l’art. 7 della Delibera CICR 9.2.00, finalizzato a disciplinare i rapporti in essere al momento dell’entrata in vigore della Delibera stessa. Né il 2 comma dell’art. 25 conferisce al CICR il potere di prevedere disposizioni di adeguamento, con effetti validanti la sorte delle condizioni contrattuali stipulate anteriormente.
Conseguentemente, per i rapporti precedenti, si rende necessario che le nuove clausole di capitalizzazione siano oggetto di approvazione scritta del cliente, risultando illegittimo l’adeguamento in via generale pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e comunicato per iscritto alla clientela, in religione al caso di specie, dunque, nel quale la Banca ha provveduto ad effettuare l’adeguamento in via generale trimestrale degli interessi a credito e a debito curando la pubblicazione della nuove condizioni contrattuali sulla Gazzetta Ufficiale e la comunicazione al cliente in calce all’estratto conto del 10.10.2000, va accertata e dichiarata la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interesse passivi anche per il periodo successivo al 30.6.2000, in quanto portato dell’unilaterale adeguamento allo reciprocità della clausole precedentemente dichiarate nulle.
Depurato il conto corrente degli addebiti derivanti dall’illegittima applicazione di interessi anatocistici su base trimestrale, non può essere riconosciuta alcuna capitalizzazione in quanto si tratterebbe pur sempre di una forma di anatocismo vietato dalla legge (art. 1283 c.c.) in assenza di usi normativi che legittimino tale conclusione (cfr. Cass. SS.UU. 24418/2010).
Sempre con riferimento al suddetto rapporto, quanto alla lamentata applicazione di interessi ultralegali, la Banca non ha prodotto idonea documentazione attestante la loro determinazione per iscritto con riferimento al c/c (…) (nulla emergendo in particolare dal doc. 1 di parte convenuta) e dunque, posto che la giurisprudenza in ossequio al disposto dell’art. 1284 c.c. è ormai granitica nell’affermare che – in tema di interessi nei contratti bancari – la relativa convenzione è nulla quando il relativo tasso risulti non determinabile e non controllabile in base ai criteri in detta convenzione oggettivamente indicati, opera tra le parti nel caso di specie la sostituzione della clausola difforme da una norma imperativa con il dettato della norma imperativa medesima ex art. 1419 c.c.
Gli interessi perciò sono stati calcolati dal c.t.u. con il criterio stabilito dall’art. 117 n. 7 D.lgs. 385/93, ovvero con il così detto “tasso bot” (cfr. pag. 7 e 8 della relazione peritale).
Corrotto appare il criterio interpretativo per cui il tasso sostitutivo indicato dall’art. 117 comma 7 lettera a) è stato applicato nella misura nominale minima dei bot per le operazioni in favore della Banca e nella misura nominale massima dei bot per le operazioni a favore del cliente in ragione della natura eminentemente sanzionatoria, a carico della Banca, della norma medesima.
L’attrice contesta ancora l’illegittima applicazione della clausola di commissione di massimo scoperto.
Come è noto, la c.m.s. è stata diversamente definita o individuata – limitandosi alle due accezioni principali e più diffuse – come il corrispettivo per la semplice messa a disposizione da parte della banca di una somma, a prescindere dal suo concreto utilizzo, oppure come la remunerazione per il rischio cui in banca è sottoposta nel concedere al correntista affidato l’utilizzo di una determinata somma, a volta oltre il limite dello stesso affidamento. Il termine commissione di massimo scoperto non è quindi riconducibile ad un’unica fattispecie giuridica, sicché l’onere di determinatezza della previsione contrattuale delle c.m.c. deve essere valutato con particolare rigore, dovendosi esigere, se non una sua definizione contrattuale, per lo meno la specifica indicazione di tutti gli elementi che concorrono a determinarla (percentuale, base di calcolo, criteri e periodicità di addebito), in assenza dei quali non può nemmeno ravvisarsi un vero e proprio accordo delle parti su tale pattuizione
accessoria, non potendosi ritenere che il cliente abbia potuto prestare un consenso consapevole, rendendosi conto dell’effettivo sostenuto giuridico della clausola e, soprattutto, del suo “peso” economico; in mancanza di ciò l’addebito delle commissioni di massimo scoperto si traduce in una imposizione unilaterale della banca che non trova legittimazione in una valida pattuizione consensuale.
Ebbene venendo al caso di specie le commissioni di massimo scoperto vanno escluse, in ogni caso, perché la banca non ha provato la specifica pattuizione per iscritto della commissione stessa né degli elementi che concorrono a determinarla sulla dei principi sopra espressi; il calcolo del saldo del rapporto bancario de quo è stato, di ragione, epurato dei relativi effetti.
Egualmente nei documenti versati in atti dalla convenuta non risultano indicate le spese di gestione/chiusure del conto che, nel ricalcolo, pertanto devono essere azzerate.
La violazione della Legge 108/196 (cui parte attrice fa cenno nelle conclusioni rassegnate) è risultata, ivece, del tutto indimostrata considerando l’assoluta genericità della contestazione, in assenza di argomentazione a sostegno dell’eccezione, non avendo parte attrice fatto riferimento né al periodo in cui sarebbe stato superato il “tetto soglia” del tasso degli interessi debitori applicati al rapporto, né al tasso applicato effettivamente, né alla categoria di operazioni presa a riferimento per la valutazione di usurarietà.
Va osservato che parte convenuta ha fatto riferimento anche ad un riconoscimento di debito operato dalla correntista in data 28.11.2011, con cui la società attrice ha riconosciuto di essere debitrice nei confronti dell’Istituto, alla data anzidetta, dell’importo di passivo di Euro 51.417,32 oltre spese dell’atto ed oltre interessi dal 1.10.2011: invero, a nulla rileva tale riconoscimento da parte del debitore dell’importo passivo maturato a tale data sul conto in quanto inidoneo n superare la nullità delle clausole contrattuali e l’applicazione di interessi ultra legali in assenza di pattuizione scritta (cfr. Cass. Civ., sez. 3, sentenza n. 206 del 11/01/2006).
Venendo, quindi, alla rideterminazione del saldo del rapporto di conto corrente ritiene il Tribunale che debba farsi riferimento ai risultati della CTU e in particolare all’ipotesi sub b), avuto riguardo alla correttezza dei conteggi effettuati (in assenza di contestazione da parte dei CTP), e perché formulata nel rispetto dei principi sopra esposti, in quanto basata:
– sull’esclusione di qualunque forma di capitalizzazione degli interessi in ottemperanza al disposto dell’art. 1283 c.c., dalla data in cui sono disponibili gli estratti conto al 31.12.2011;
– sull’eliminazione degli interessi ultralegali non pattuiti e sull’applicazione dei tassi ex art. 117 TUB;
– sull’eliminazione della commissione di massimo scoperto e delle spese di gestione/tenuta conto non validamente pattuite;
– computando le valute delle singole operazioni dal giorno dell’operazione effettuata dall’utente (in assenza di prova su alcuna pattuizione scritta sul punto).
Alla luce di tali risultati, il saldo del conto corrente de quo deve essere rideterminato alla data del 31.12.2011 in Euro 234.928,84 a favore della correntista (in luogo del “saldo banca” pari a Euro 54.551,17 a debito).
Come detto, risulta che la correntista abbia receduto dal contratto di conto corrente alla successiva data del 28.6.2013; sulla base dell’estratto conto 31.7.2013 prodotto dalla Banca convenuta quale doc. 11, risulta che all’epoca del recesso il saldo negativo del conto era pari a Euro 58.332,84. Deve quindi che nel periodo compreso tra la data del 31.12.2011 e la data di estinzione del conto, il debito della correntista abbia subito un incremento, secondo i conteggi operati dalla Banca, di Euro 3.781,67 pari alla differenza tra il saldo finale e il saldo debitore evidenziato dagli estratti conto alla predetta data del 31.12.2011 (58.332,84 – 54.551,17). Rispetto al debito maturato dalla società’ attrice nei confronti della Banca in tale intervallo di tempo, la stessa parte attrice, avendo omesso di versare in atti i relativi estratti conto, non ha fornito elementi utili a valutare la fondatezza delle proprie doglianze; il relativo debito, così come indicato dalla convenuta, deve ritenersi non contestato.
In definitiva, recepito il conteggio effettuato dal CTU e tenuto conto del debito maturato dalla (…) dalla data del 31.11.2011 alla data di chiusura del conto, la convenuta deve essere condannata al pagamento a favore di parte attrice della somma di 231.147,17 Euro, oltre interessi decorrenti dalla data della domanda al saldo.
Non può trovare accoglimento la domanda di risarcimento danni formulata ai sensi dell’art. 1218, 1337, 1338, 1366, 1375 e 2043 c.c. in assenza di qualsiasi sviluppo argomentativo a sostegno dello stesso e in assenza di deduzioni specifiche (sicché risulta non assolto lo stesso onere di allegazione prima ancora che il relativo onere probatorio).
Il mancato accoglimento di parte della domanda, giustifica la compensazione delle spese tra le parti nella misura di 1/4, con condanna della convenuta a rifondere alla attrice la residua frazione. Le spese di CTU, infine, sono definitivamente poste a carico di parte convenuta.
P.Q.M.
Definitivamente pronunciando nella causa iscritta al n. 144/2013 RG ogni altra istanza, deduzione ed eccezione disattesa
– in accoglimento della domanda proposta da (…) accertata alla data del 31.12.2011 l’illegittima applicazione della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, di interessi ultralegali non pattuiti, di commissioni di massimo scoperto e spese di tenuta conto non pattuite al rapporto di conto corrente 201100 intercorrente tra la stessa e la (…) (oggi (…) nonché effettuata l’equiparazione delle valute con la data delle operazioni sino alla medesima data, condanna (…) in persona del legale rappresentante pro – tempore, a pagare a favore dell’attrice la somma di Euro 231.147,17, oltre interessi legali dalla data della domanda al saldo.
Rigetta la domanda di risarcimento danni svolta da parte attrice Compensa le spese di lite nella misura di 1/4
Condanna la convenuta a rifondere a favore delle attrice le spese di lite che liquida in (…) competenze e (…) spese, oltre rimborso forfetario al (…)
Pone definitivamente le spese di CTU, come già liquidate in corso di causa, a carico della convenuta.
Così deciso in Verbania il 3 aprile 2015.
Depositata in Cancelleria l’8 aprile 2015.