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Se il giudice viola il codice di procedura, sentenza non sempre nulla

9 Ottobre 2015
Se il giudice viola il codice di procedura, sentenza non sempre nulla

Sentenza scritta prima del deposito delle conclusionali: in generale la decisione non è nulla se non si dimostra la lesione subita dalla parte in conseguenza della lamentata violazione processuale.

 

Non capita quasi mai, di questi tempi, di trovare giudici tanto solerti nell’emettere le sentenze, da anticipare gli stessi tempi previsti dal codice di procedura, ma non è andata così nel caso di recente posto all’attenzione della Cassazione [1]: il tribunale aveva già scritto la sentenza prima ancora che le parti depositassero le comparse conclusionali. Che succede in questi casi? Può il mancato rispetto delle norme del codice decretare la nullità della sentenza? La risposta della Suprema Corte parte da un principio ormai costante in giurisprudenza: in generale la sentenza che non rispetti le norme della procedura non è automaticamente affetta da nullità, poiché occorre dimostrare la lesione concretamente subita dalla parte in conseguenza della lamentata violazione processuale.

In particolare bisogna dimostrare come le difese contenute nella memoria non esaminata dal giudice avrebbero invece potuto ragionevolmente portare a una decisione diversa da quella assunta. Tanto corrisponde a un principio già espresso in passato sempre dalla Cassazione [2]. Insomma, non si può fare una regola generale, ma bisogna verificare la “lesività in concreto” delle nullità processuali. In pratica, in virtù dei principi della ragionevole durata del processo, dell’efficienza e dell’economia processuale, una nullità che non produce alcun danno effettivo e oggettivo non incide in realtà sulla “bontà” del processo e non impedisce di amministrare correttamente la giustizia, anzi aumenta solo inutilmente la durata del procedimento.

Diverso, tuttavia, è il caso del mancato rispetto dei termini concessi alle parti per il deposito delle memorie conclusionali e delle rispettive repliche: in tale caso, l’orientamento prevalente è oggi quello di considerare la sentenza nulla per violazione del principio del contraddittorio. Infatti la decisione assunta prima della scadenza dei termini di legge per le memorie conclusive impedisce al difensore di svolgere appieno il diritto di difesa, mentre non c’è dubbio che il principio del contraddittorio vada assicurato per tutto il processo e non solo agli atti introduttivi del giudizio.

Quando la legge stabilisce un termine perentorio per l’esercizio delle attività difensive, significa che ha già ritenuto che un termine inferiore lederebbe il diritto di difesa, altrimenti la perentorietà del termine non avrebbe alcun significato. Quindi nel caso in cui il giudice violi tali tempistiche, la lesione del diritto di difesa è automatica per via della valutazione a monte compiuta dal legislatore che ha stabilito detto termine.


note

[1] Cass. sent. n. 20180/15 dell’8.10.2015.

[2] Cass. sent. n. 7086/2015.

Autore immagine: 123rf com

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, sentenza 15 luglio – 8 ottobre 2015, n. 20180
Presidente Finocchiaro – Relatore Vivaldi

Fatto e diritto

O.L. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi avverso la sentenza del 30.4.2013 con la quale il tribunale di Roma – sezione distaccata di Ostia – in un giudizio di risarcimento danni da sinistro stradale dalla stessa proposto nei confronti di Generali Business Solutions scpa, in proprio e n.q. di rappresentante di Assicurazioni Generali spa, e di Z.M. ed E. -, aveva rigettato l’appello confermando la sentenza con la quale il giudice di pace aveva condannato in solido i convenuti al pagamento della somma di Euro 6.242,81 a titolo di risarcimento danni.
Gli intimati non hanno svolto attività difensiva.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 190 e 352 c.p.c..
Il motivo è fondato.
La Corte di legittimità, da ultimo, con sentenza 9.4.2015 n. 7086 si è pronunciata sul punto affermando il seguente principio di diritto: “La sentenza la cui deliberazione risulti anteriore alla scadenza dei termini ex art. 190 cod. proc. civ., nella specie quelli per il deposito delle memorie di replica, non è automaticamente affetta da nullità, occorrendo dimostrare la lesione concretamente subita in conseguenza della denunciata violazione processuale, indicando le argomentazioni difensive – contenute nello scritto non esaminato dal giudice – la cui omessa considerazione avrebbe avuto, ragionevolmente, probabilità di determinare una decisione diversa da quella effettivamente assunta”.
Il principio enunciato si pone in contrasto con il prevalente orientamento giurisprudenziale di questa Corte per il quale è nulla, per violazione del principio del contraddittorio, la sentenza emessa dal giudice prima della scadenza dei termini dal medesimo fissati ex art. 190 c.p.c., impedendo in tal modo al difensore della parte di svolgere nella sua pienezza il diritto di difesa.
Il principio del contraddittorio, infatti, non è riferibile soltanto all’atto introduttivo del giudizio, ma deve realizzarsi nella sua piena effettività durante tutto lo svolgimento del processo e, quindi, anche con riferimento ad ogni atto o provvedimento ordinatorio, in relazione al quale si ponga l’esigenza di assicurare la presenza in causa e la diretta difesa di tutti gli interessati alla lite.
Viola quindi il detto principio, determinando la nullità della sentenza emessa, il giudice che decida la causa prima della scadenza dei termini dal medesimo fissati, ex art. 190 c.p.c., impedendo, in tal modo al difensore di una parte di svolgere nella sua completezza il proprio diritto di difesa e ciò senza che, ai fini della deduzione della nullità con il mezzo di impugnazione, la parte sia onerata di indicare se e quali argomenti non svolti nei precedenti atti difensivi avrebbe potuto svolgere se le fosse stato consentito il deposito della conclusionale.
La norma di cui all’art. 190 c.p.c. descrive un modo di svolgimento della fase di decisione della causa, la cui mancata osservanza da luogo a nullità del procedimento (art. 156 c.p.c., comma 2) e della sentenza (art. 159, comma 1), perché l’illustrazione delle conclusioni, che i difensori fanno nelle comparse, e le osservazioni che possono contrapporvi nelle repliche rappresentano un complemento dell’esercizio del diritto di difesa nel contraddittorio tra le parti (fra le varie Cass. ord. 5.4.2011 n. 7760; Cass. 24.3.2010 n. 7072; Cass. 3.6.2008 n. 14657; Cass. 10.3.2003 n. 6293).
A tale orientamento questo Collegio presta convinta adesione per le ragioni che seguono.
Il primo orientamento fa leva sul principio della lesività in concreto delle nullità.
Tale principio trova la propria fonte di legittimazione nel principio costituzionale della ragionevole durata del processo e nella sua implicazione operativa dell’efficienza processuale: invero, una nullità che non produce alcun danno in concreto (quindi, siamo in presenza di una nullità tipica, ma non lesiva) non accresce la giustizia del processo, ma ne mina la sua ragionevole durata.
E tale orientamento trova ulteriore legittimazione nella giurisprudenza della Corte EDU il cui diritto vivente – formatosi attraverso reiterate conformi affermazioni – è nel senso che le violazioni del diritto di difesa non devono essere ipotetiche e virtuali, ma effettive e concrete.
Ma l’indirizzo che qui si confuta – valido in linea di principio – soffre una vistosa eccezione nel caso di violazione di termini perentori fissati dalla legge.
Qui la lesività è in re ipsa e non deve essere accertata in concreto e caso per caso per la semplice ragione che è il legislatore a fissare tale lesività.
In altri termini, nel momento in cui il legislatore fissa un termine perentorio ha evidentemente giudicato che un termine inferiore lederebbe il diritto di difesa.
Si tratta di una valutazione legale tipica che è implicita in ogni fissazione di termini perentori.
Altrimenti la perentorietà del termine non avrebbe alcun senso giuridico.
In conclusione, risponde alla logica del giusto processo e della sua ragionevole durata ancorare – in linea di principio – la nullità alla lesione in concreto del diritto di difesa:
con la conseguenza radicale che – in mancanza di lesività – viene a mancare l’interesse ad eccepire la nullità (siamo in presenza, per così dire, di una nullità inerte, in quanto improduttiva di danno).
Ma questo principio va derogato nel caso dei termini a difesa perché in questi casi il legislatore – con valutazione legale tipica ancorata ai principi di razionalità e normalità (cioè il legislatore ritiene secondo l’id quod plerumque accidit che termini inferiori pregiudichino l’effettività della difesa) – ha stabilire in astratto e una volta per tutte che la violazione del termine produce la lesione del diritto di difesa.
In definitiva, nel caso dei termini a difesa, il giudizio sul danno alla difesa è fatto dal legislatore e non dal giudice.
È quindi in re ipsa: la violazione automaticamente comporta la lesione del diritto di difesa, lesione che non ha bisogno di essere provata dalla parte che la eccepisce.
Conclusivamente, è accolto il primo motivo; sono dichiarati assorbiti gli altri; la sentenza è cassata in relazione, e la causa è rinviata al tribunale di Roma – sezione distaccata di Ostia in persona di diverso magistrato.
Le spese sono rimesse al giudice del rinvio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo; dichiara assorbiti gli altri. Cassa in relazione e rinvia, anche per le spese, al tribunale di Roma – sezione distaccata di Ostia in persona di diverso magistrato.


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