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Su Facebook il debitore può essere denunciato: non è diffamazione

11 Ottobre 2015
Su Facebook il debitore può essere denunciato: non è diffamazione

Libero diritto di critica scrivere un post su Facebook, su forum o blog, in cui si accusa un soggetto di non aver pagato il proprio debito.

 

Pubblica gogna per chi non paga i propri debiti: il creditore può pubblicamente “denunciare” i propri debitori scrivendo i loro nomi e gli importi non pagati in un post su Facebook. È infatti legittimo il diritto di critica che si esercita nel comunicare a tutti la morosità altrui. A dirlo è stato il Tribunale di Roma in una recentissima e straordinaria ordinanza emessa nell’ambito di un giudizio d’urgenza (la fase di reclamo ha confermato il provvedimento emesso in primo grado).

Il post con cui un imprenditore (assistito dall’avvocato Fulvio Sarzana di S. Ippolito) ha accusato un cliente di non averlo pagato rimane – almeno per il momento – pubblicato sul profilo del creditore in quanto costituisce esercizio di un legittimo diritto di critica e non è diffamatorio perché rispetta i requisiti di verità, pertinenza e continenza, i tre presupposti, cioè, entro i quali è possibile anche riportare fatti contrari alla reputazione delle persone senza cadere nell’illecito penale.

Nel caso di specie, il creditore aveva deciso di denunciare la morosità di una piccola azienda su alcuni blog, forum oltre che sulla sua pagina Facebook. Inutili sono stati i tentativi del debitore di reclamare la lesione al proprio onore e al decoro professionale senza tuttavia provare in che cosa siano consistiti tali pregiudizi. Il creditore replica di aver esercitato il diritto di critica perché il post pubblicato sul social network risulta fondato su fatti veri e dunque coperto dal diritto alla libera manifestazione del pensiero garantita dalla Costituzione [1].

I fatti devono essere veri ed espressi senza giudizi personali

Il creditore, per poter andare immune da responsabilità penali per diffamazione, ha comunque un delicato onere della prova: innanzitutto deve dimostrare che il proprio credito è vero ed esigibile, ossia non è contestato dalla controparte (come, invece, potrebbe essere nel caso di un decreto ingiuntivo sottoposto ad opposizione).

Dall’altro lato, circostanza non meno importante, il creditore deve esprimere il fatto senza indulgere in giudizi personali, entrando nel merito della persona del debitore, con accostamenti o aggettivi volti a denigrarlo o a offenderlo. Insomma, si deve limitare a denunciare il fatto storico in sé.

La motivazione dell’ordinanza

Secondo il giudizio del tribunale capitolino, le dichiarazioni del creditore costituiscono una espressione del diritto di libera manifestazione del pensiero, riconosciuto dalla nostra Costituzione, rappresentando la divulgazione di uno scritto via internet, estrinsecazione del legittimo diritto di cronaca e critica.

È principio ormai consolidato che, affinché la divulgazione di notizie o commenti asseritamente lesivi dell’onore e della reputazione di terzi possano considerarsi lecito esercizio del diritto di cronaca/critica, devono ricorrere le seguenti condizioni:

  • verità dei fatti esposti: in pratica, il credito deve essere realmente esistente e non presunto o contestato. Nel giudizio, quindi deve emergere incontestabilmente l’inadempimento del debitore all’obbligo di pagamento dei confronti del creditore, derivante dal rapporto commerciale intercorrente tra le parti. Il mancato pagamento delle fatture è dato incontrastato;
  • interesse pubblico alla conoscenza del fatto;
  • correttezza formale dell’esposizione: non bisogna, come appena detto, usare espressioni offensive o volgari o accostamenti suggestivi.

I precedenti

L’ordinanza in commento non troverà tutti d’accordo. Si pensi al fatto che, per giurisprudenza consolidata, è vietato all’amministratore, affiggere sulla bacheca posta nell’androne delle scale i nomi dei morosi che non hanno pagato le quote condominiali. E non c’è dubbio che Facebook non sia nient’altro che una bacheca.

In passato la Cassazione [2] ha detto che la comunicazione contenente i nominativi dei condomini morosi affissa al portone condominiale, anche in presenza di un effettiva morosità degli stessi condomini, costituiva una condotta diffamante, non sussistendo alcun interesse da parte dei terzi alla conoscenza di quei fatti, anche se veri.

Si deve quindi escludere l’esimente del diritto di cronaca e di critica e ciò perché – sebbene la scriminante in questione sia ipotizzabile non solo per l’attività di giornalisti o scrittori, ma anche rispetto al comune cittadino – occorre sempre valutare la rilevanza della diffusione della notizia che deve essere funzionale al corretto svolgimento delle relazioni interpersonali e dei rapporti sociali.

In tale direzione, deve rilevarsi che la diffusione della comunicazione attraverso la sua affissione al portone d’ingresso, essendo potenzialmente conoscibile da un numero indeterminato di persone, integra il delitto di diffamazione per essere carente, al di fuori del ristretto ambito condominiale, un qualsiasi interesse alla conoscenza della circostanza relativa alla morosità di alcuni condomini.

Un caso simile a quello appena deciso dal Tribunale di Roma è stato deciso in modo opposto dalla Cassazione [3]: è stato ritenuto colpevole un uomo che aveva caricato in una rubrica su Youtube dal titolo “Facce da schiaffi” il nome del suo debitore reo di non avergli saldato la fattura.


note

[1] Art. 21 Cost.

[2] Cass. sent. n. 39986/2014.

[3] Cass. sent. n. 1269/2015.

Autore immagine: 123rf com

Tribunale di Roma, sez. I Civile, ordinanza 1 luglio 2015, n. 13275
Presidente Gulterio – Relatore Albano

Premesso che

La società ricorrente chiedeva, in riforma della ordinanza reclamata, di inibire la diffusione dei contenuti diffamatori ed offensivi della sua reputazione commerciale, rimuovere l’argomento di discussione presente sulla pagina facebook – di titolarità di (…) -, in via concorrente ordinare al resistente la pubblicazione dell’ordinanza inibitoria sulla citata pagina e ordinare la pubblicazione di una rettifica sui blog – forum analiticamente indicati.
La reclamante esponeva che il rapporto commerciale tra la (…), titolare del marchio comemrciale (…) e (…) riconducibile alla ditta individuale di (…) prevedeva la prestazione di un servizio pubblicitario al fine di promuovere, attraverso i siti gestiti dal secondo, i servizi comparativi di (…) a fronte di un corrispettivo di € 3.50 per ogni preventivo salvato dal cliente; che il rapporto commerciale era entrato in una fase di criticità in quanto la partnership non aveva condotto ai ricavi sperati e la richeista di rivalutare i termini del rapporto era stata disattesa; nelle more delle criticità evidenziate, il sig. (…) aveva divuglato, all’interno di diversi social network e blog, alcuni post volti a diffamare l’azienda, con informazioni non veritiere e lesive dell’immagine della società, ciò per tentare una più rapida azione di recupero crediti con abuso del diritto; evidenziava, in particolare, che accostare (…) all’Ivass danneggiava l’immagine della società davanti ai clienti attuali e potenziali. Concludeva chiedendo che l’ordinanza reclamata, che rigettava la domanda per carenza del fumus boni iuris, venisse riformata.

Rilevato che

Il provvedimento impugnato deve essere confermato.
Ad avviso del Collegio, le dichiarazioni censurate costituiscono espressione del diritto di libera manifestazione del pensiero, sancito dall’art. 21 della Costituzione rappresentando – la divulgazione di uno scritto via internet – estrinsecazione del legittimo diritto di cronaca e critica.
Orbene è principio giurisprudenziale consolidato che affinché la divulgazione di notizie o commenti asseritamente lesivi dell’onore e della reputazione di terzi possano considerarsi lecito esercizio del diritto di cronaca/critica, devono ricorrere le condizioni della verità dei fatti esposti, dell’interesse pubblico alla conoscenza del fatto e della correttezza formale dell’esposizione.
Ed invero è emersa incontestabilmente la verità della notizia che consiste nell’inadempimento della odierna reclamante all’obbligo di pagamento nei confronti di (…) derivante dal rapporto commerciale intercorrente tra le parti: il mancato pagamento delle fatture è dato incontrastato e giustificato sulla base del mancato conseguimento degli obiettivi ipotizzati da parte di (…). Il requisito della verità del fatto, nell’accezione sopra riportata, risulta, quindi, perfettamente rispettato. Anche il requisito della continenza è sostanzialmente rispettato in quanto le opinioni espresse non indulgono in accostamenti suggestivi ovvero in espressioni inutilmente offensive e volgari. Nessun dubbio sussisten, infine, in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico alla notizia.
quanto al coinvolgimento dell’IVASS, riconducibile ad una iniziativa del resistente ed inidoneo di per sé a evidenziare una lesività della reputazione commerciale della controparte, è stato confermato in sede di reclamo.
solo per completezza, si evidenzia, altresì, che l’attore ha genericamente dedotto di avere riportato danni all’onore e al decoro personal senza provare in cosa tali pregiudizi siano consistiti, salvo generiche allegazioni.
Alla luce delle superiori considerazioni, il reclamo è infondato e deve essere rigettato.
le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il reclamo e per l’effetto conferma l’ordinanza impugnata.
Condanna il reclamante alle spese di lite nei confronti del resistente che liquida in € 1200,00 oltre spese generali al 15% e contributi come per legge.


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