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Accertamento fiscale sui professionisti: quando è nullo

11 Ottobre 2015
Accertamento fiscale sui professionisti: quando è nullo

Verifiche sui versamenti non giustificati in banca del professionista: nullo l’accertamento senza motivazione sostanziale, basato solo sulla discrasia dei compensi dichiarati ai fini Iva e quelli ai fini Irpef.

È sempre più difficile, per l’Agenzia delle Entrate, la rettifica della dichiarazione dei redditi del professionista: dopo che, infatti, solo un anno fa, la Corte Costituzionale [1] ha dichiarato illegittima la norma che classificava in automatico come “reddito in nero” tutti i prelievi in conto corrente non giustificati (leggi “Il prelievo in banca non è più ricavo nero per gli autonomi”), nessuna presunzione di evasione può derivare da un’operazione apparentemente priva di “pezze giustificative”.

Oggi interviene anche la Cassazione [2] che, con una importante decisione, ribadisce l’obbligo di motivazione di ogni accertamento: motivazione che, di certo, non può ritenersi ottemperata solo perché l’Agenzia delle Entrate abbia evidenziato l’esistenza di corrispettivi in tutto o in parte non dichiarati o di detrazioni non spettanti; al contrario è sempre necessario che il fisco indichi (almeno in via generale) le ragioni del proprio convincimento. E quindi, nel caso di specie, è da considerarsi nulla la verifica del reddito basata soltanto sulla discrasia dei compensi dichiarati ai fini Iva e quelli ai fini Irpef.

Lo Stato del Contribuente [3] insegna che l’Agenzia delle Entrate è obbligata a indicare i presupposti di fatto e di diritto che hanno determinato la propria decisione di effettuare la rettifica del reddito (anche se non è necessario fornire in dettaglio la notizia di ogni singolo elemento di prova). L’obbligo di motivazione, insomma, non deve essere adempiuto solo in modo formale, ma è necessario che la giustificazione sia sostanziale, consentendo al contribuente di comprendere le ragioni tecniche dell’accertamento per improntare una valida difesa. Insomma, le ragioni della verifica fiscale non devono essere solo una semplice scusa, un’eccezione generica e astratta [4] per scaricare sul contribuente l’onere della prova contraria, ma costituiscono un elemento essenziale dell’atto suddetto.

Un principio ribadito poco meno di un anno fa dalla Corte costituzionale [5] secondo cui l’originaria insufficienza della motivazione dell’atto ne determina l’invalidità: il giudice tributario, dunque, è chiamato a valutare la sufficienza della motivazione dell’avviso di rettifica oggetto di controversia.

In fondo alle motivazioni, la Suprema Corte spiega ancora una volta che la Commissione tributaria può ritenere priva di adeguata motivazione l’avviso di rettifica Iva notificato all’avvocato, non essendo sufficienti, dice a chiare lettere la Corte, i fatti e le argomentazioni dedotti dall’amministrazione finanziaria per provare la fondatezza della pretesa fiscale.


note

[1] C. Cost. sent. n. 228/14.

[2] Cass. sent. n. 20251 del 9.10.2015.

[3] Art. 7 dello Statuto del Contribuente e art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973.

[4] Cosiddetta provocatio ad opponendum.

[5] C. Cost. sent. n. 98/2014.

Autore immagine: 123rf com

Corte di Cassazione, sez. Tributaria, sentenza 20 aprile – 12 ottobre 2015, n. 20251
Presidente Piccininni – Relatore Bielli

Ritenuto in fatto

1. – Con sentenza n. 148/36/08, depositata il 16 dicembre 2008 e notificata il 9 gennaio 2009, la Commissione tributaria regionale del Lazio (hinc\ «CTR») accoglieva l’appello proposto dall’avvocato W.V. (che si difendeva personalmente e con il ministero di M.P. e M.E.R.  nei confronti dell’ufficio di Roma 2 dell’Agenzia delle entrate avverso la sentenza n. 308/48/2006 della Commissione tributaria provinciale di Roma (hinc: «CTP»); rigettava, perché non provata, la domanda di rimborso delle somme non dovute versate nelle more del giudizio; e compensava tra le parti le spese del medesimo giudizio, stante la soccombenza parziale del contribuente in ordine alla domanda di rimborso.
Il giudice di appello premetteva che: a) in primo grado il contribuente aveva impugnato (deducendo difetto di motivazione ed altri vizi) l’avviso di rettifica con cui l’Agenzia delle entrate aveva accertato a suo carico un maggior imponibile IVA per il 1997; b) l’adita CTP aveva rigettato il ricorso affermando che l’ufficio tributario aveva correttamente rilevato sia compensi non contabilizzati, sia il difetto di idonee giustificazioni per le movimentazioni finanziarie; c) il contribuente aveva appellato la decisione deducendo il difetto assoluto di motivazione dell’avviso, nonché l’errore inescusabile dell’ufficio tributario nell’attività di accertamento e chiedendo altresì (previo eventuale espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio) il rimborso delle somme non dovute versate nelle more del giudizio, oltre interessi, rivalutazione e spese di lite.
Tanto premesso, la CTR – nell’accogliere l’appello per la parte relativa all’annullamento dell’avviso – rilevava che l’atto impositivo era privo di sufficiente motivazione, perché l’ufficio tributario non aveva indicato: a) né le ragioni per le quali la riscontrata differenza tra l’ammontare dell’imponibile dichiarato ai fini dell’IVA e quello dichiarato ai fini dell’imposta sul reddito potesse giustificare la rettifica di lire 14.191.000 (dato che le componenti negative del reddito concorrono alla determinazione dell’imponibile esposto nel quadro RE, mentre non v’è alcun obbligo di evidenziarle nella dichiarazione IVA); b) né le ragioni che avevano portato alla rettifica dell’imponibile IVA per lire 180.699.126.
2. – Avverso la sentenza di appello, l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi (tutti relativi a violazione di legge), notificato il 10 marzo 2009.
3. – D contribuente resiste con controricorso notificato il 16 aprile 2009.

Considerato in diritto

1. – Con il primo motivo del ricorso, corredato da quesito di diritto, l’Agenzia delle entrate denuncia – in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. – la violazione e falsa applicazione dell’art. 54, comma quinto, del d.P.R. n. 633 del 1972 (nel testo applicabile ratione temporis).
Secondo la ricorrente, la CTR non ha considerato che l’avviso si basa sia sulla discrasia tra i compensi dichiarati ai fini delle imposte dirette (lire 131.871.000) e quelli dichiarati ai fini dell’IVA (lire 117.680,000), sia sulla mancanza di documentazione giustificativa dei prelevamenti e versamenti (lire 180.000.000). Per l’Agenzia delle entrate, il giudice di appello avrebbe pertanto violato l’evocato articolo, in forza del quale il contenuto motivazionale dell’atto impositivo è strumentale alla sua funzione di provocatio ad opponendum: nella specie, infatti, tale funzione sarebbe stata pienamente e legittimamente realizzata, poiché il contribuente si era concretamente difeso nel merito (adducendo che i prelevamenti ed i versamenti non erano indicativi di ricavi).
1.1. – Il motivo è inammissibile perché: a) il citato comma quinto dell’art. 54 non configura alcuna ipotesi di provocatio ad opponendum; b) la denuncia della mancata considerazione, da parte della CTR, di alcuni elementi in ordine alla valutazione della sufficienza della motivazione dell’avviso di accertamento integrerebbe (se mai) un non denunciato vizio motivazionale e non la denunciata violazione di legge.
1.1.1. – Sotto il primo profilo, va rilevato che il quinto comma dell’art. 54 del d.P.R. n. 633 del 1972 (nel testo applicabile ratione temporis) si limita a stabilire che: «Senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti dall’articolo 57, l’ufficio dell’imposta sul valore aggiunto, qualora dalle segnalazioni effettuate dal Centro informativo delle tasse e delle imposte indirette sugli affari, dalla Guardia di finanza o da pubbliche amministrazioni ed enti pubblici oppure dai dati in possesso dell’anagrafe tributaria, risultino elementi che consentono di stabilire l’esistenza di corrispettivi in tutto o in parte non dichiarati o di detrazioni in tutto o in parte non spettanti, può limitarsi ad accertare, in base agli elementi predetti, l’imposta o la maggiore imposta dovuta o il minor credito spettante». Da tale testo non si evince affatto che l’ufficio tributario ottemperi all’obbligo motivazionale semplicemente prospettando l’esistenza di corrispettivi in tutto o in parte non dichiarati o di detrazioni in tutto o in parte non spettanti, senza indicare (almeno in via generale) le fonti del proprio convincimento. L’inconferenza del parametro normativo dedotto (quinto comma dell’art. 54 del d.P.R. n. 633 del 1972) comporta l’inammissibilità della censura.
Va soggiunto che, pur se spesso riproposta dalla giurisprudenza di questa Corte, non può condividersi la tesi della natura meramente processuale della motivazione dell’avviso di accertamento. Secondo tale tesi (cui aderisce la ricorrente), la motivazione ha l’esclusiva funzione di affermare la pretesa tributaria e di provocare la difesa del contribuente (provocatio ad opponendum): in tal senso, indicativamente, Cass. n. 3898 del 1980; n. 7991 del 1996; n. 14427 del 1999; n. 1209, n. 2500 e n. 5557 del 2000; n. 14700 del 2001; n. 6232 e n. 19515 del 2003; n. 14673, n. 17293 e n. 20054 del 2006; n. 12169 e n. 28955 del 2009; n. 22370 del 2010; n. 7360 del 2011; n. 9441 del 2014. Secondo questa impostazione, la motivazione è sufficiente quando consenta al contribuente di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e di contestarne efficacemente l’an ed il quantum debeatur: basterebbe l’indicazione degli elementi soggettivi ed oggettivi della pretesa tributaria, con i fatti astrattamente giustificativi di essa.
Deve invece rilevarsi che gli artt. 7, comma 1, della legge n. 212 del 2000 (in tema di atti dell’amministrazione finanziaria; il quale richiama l’art. 3 della legge n. 241 del 1990) e (per gli avvisi di accertamento delle imposte dirette) 42, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, dispongono che l’amministrazione finanziaria è obbligata ad indicare i presupposti di fatto e di diritto che hanno determinato la decisione dell’amministrazione (anche se non e necessario fornire in dettaglio la notizia di ogni singolo elemento di prova: Cass. n. 26472 del 2014). Da ciò si evince che la motivazione attiene alla sostanza e non alla forma dell’atto tributario e, pertanto, non è riconducibile ad una mera provocatio ad opponendum, ma integra un elemento essenziale dell’atto suddetto, sulla cui base va definito il thema decidendum e probandum dell’eventuale successivo giudizio di impugnazione. In particolare, deve consentire il controllo interno e giurisdizionale dell’atto, al fine di valutare la correttezza dell’operato dell’amministrazione. In tal senso, del resto, si sono già persuasivamente espresse le sezioni unite di questa Corte (n. 19854 del 2004), seguite da diverse pronunce delle sezioni semplici (n. 15842 e n. 25054 del 2006; n. 23009 del 2009; n. 7056 e n. 22003 del 2014), alle quali si deve aggiungere il sostanziale ed autorevole avallo della Corte costituzionale con la pronuncia n. 244 del 2009 (argumenta anche da Corte costituzionale n. 98 del 2014 circa l’immodificabilità in corso di causa della motivazione dell’avviso). L’originaria inidoneità motivazionale dell’atto, dunque, comporta l’invalidità di questo e, contrariamente, a quanto dedotto dalla ricorrente Agenzia, è perfettamente legittimo che la CTR valuti, in relazione ad uno specifico motivo di impugnazione proposto dal contribuente, la sufficienza della motivazione dell’avviso di rettifica oggetto di controversia.
1.1.2.- Sotto l’altro profilo, la censura relativa alla mancata considerazione da parte del giudice di appello di alcuni elementi indicati nell’avviso (discrasia tra i compensi dichiarati ai fini delle imposte dirette e quelli dichiarati ai fini dell’IVA; mancanza di documentazione giustificativa dei prelevamenti e versamenti) si risolve nella deduzione di un vizio motivazionale inammissibilmente ed incongruamente prospettato come vizio di violazione di legge.
2. – Con il secondo motivo del ricorso, anch’esso corredato da quesito di diritto, la ricorrente denuncia – in relazione agli artt. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. – la violazione o falsa applicazione degli artt. 54, 23, 24 e 25 del d.P.R. n. 633 del 1972, 2697 e 2722 cod. civ.
Secondo la ricorrente, la CTR, nel ritenere non provata la pretesa fiscale, non ha confutato efficacemente la forza probatoria degli elementi presuntivi addotti dall’amministrazione finanziaria (antieconomicità dell’attività professionale, in perdita da molti anni; carenza di documentazione fiscale comprovante l’effettività delle spese sostenute, con conseguente loro indeducibilità; impossibilità di evincere dai registri tutte le movimentazioni finanziarie, ancorché estranee all’esercizio dell’attività del professionista), aventi le caratteristiche di cui al comma 2 dell’art. 54 del d.P.R. n. 633 del 1972 ed in base ai quali l’onere della prova della infondatezza delle ricostruzioni presuntive effettuate dall’ufficio tributario doveva ritenersi addossato al contribuente. In tal modo, la CTR – prosegue la ricorrente – ha ignorato sia la valenza della prova presuntiva, sia i principi di riparto dell’onere probatorio.
2.1.  – Anche questo motivo è inammissibile perché (oltre ad essere privo di autosufficienza) si risolve nella deduzione di un vizio motivazionale inammissibilmente ed incongruamente prospettato come vizio di violazione di legge. La CTR, infatti, ha semplicemente valutato nel merito gli elementi prospettati, senza Violare le norme evocate.
3. – Con il terzo motivo del ricorso, corredato da un quesito finale, la ricorrente denuncia – in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. – la violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 35, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992.
Secondo la ricorrente, la CTR non avrebbe dovuto limitarsi ad annullare l’atto impositivo per difetto di motivazione o di prova della pretesa, ma avrebbe dovuto provvedere alla quantificazione dell’imposta effettivamente dovuta dal contribuente; e ciò in coerenza con la natura di impugnazione-merito del giudizio tributario, diretto alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente, sia dell’accertamento dell’ufficio (viene citata Cass. n. 15825 del 2006).
3.1. – Il motivo è inammissibile perché la ricorrente, nell’imputare alla CTR la mancata determinazione di quanto dovuto dal contribuente, non ha individuato l’effettiva ratio decidendi della sentenza di appello, ritenendo erroneamente che fosse incerto solo il quantum e non anche l’an della pretesa tributaria. Invece, la CTR ha ritenuto privo di adeguata motivazione l’avviso di rettifica e, quindi, insuscettibile di emenda nel merito, non essendo sufficienti (a suo avviso) i fatti e le argomentazioni dedotti dall’amministrazione finanziaria per provare la fondatezza della pretesa tributaria. È evidente, poi, che la CTR non ha il potere di procedere ad un accertamento tributario autonomo ed indipendente dai motivi (ritenuti insufficienti) addotti dall’amministrazione finanziaria. In definitiva, la suddetta erronea individuazione della ratio decidendi rende inammissibile il motivo di ricorso.
4. – Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza della ricorrente e si liquidano come da dispositivo. Si segnala, per completezza, che il decesso della parte controricorrente in data 9 febbraio 2012 (dopo la notificazione del ricorso e del controricorso per cassazione) è irrilevante, poiché il carattere prevalentemente officioso del presente giudizio di legittimità esclude l’applicazione dell’istituto dell’interruzione.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i motivi di ricorso; condanna la ricorrente Agenzia delle entrate a rimborsare alla controparte le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi € 5.250,00, di cui € 5.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.


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