Il lavoratore demansionato può assentarsi senza essere licenziato

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Illegittimo il licenziamento del dipendente per essersi assentato dal lavoro, quando il demansionamento è tale da rendere la presenza irrilevante.

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Nessuna conseguenza per il dipendente che non si presenta sul posto di lavoro, quando l’assegnazione a mansioni inferiori è tale da renderlo, di fatto, inattivo: è questa la conclusione alla quale è giunta la Corte di Cassazione, con una recente sentenza [1].

In pratica, la Corte afferma che, quando un lavoratore è non solo demansionato senza giustificato motivo dall’azienda, ma anche con mansioni ed incarichi talmente ridotti, tali da rendere la sua presenza concretamente inutile, il dipendente stesso può assentarsi, senza che questo ne determini il licenziamento.

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Demansionamento

L’assegnazione a mansioni inferiori non è, di per sé, sempre illegittima.

Nello specifico, il demansionamento è perfettamente lecito quando:

– costituisce l’unica alternativa alla perdita del posto di lavoro;

– avviene in seguito ad un accordo concluso in sede protetta, sussistendo l’interesse del dipendente alla conservazione del posto, o all’acquisizione di una diversa professionalità, o al miglioramento delle condizioni di vita;

– in caso di modifica dell’organizzazione aziendale che ricada sulla posizione del dipendente;

– in altre ipotesi previste dai singoli contratti collettivi, anche territoriali e aziendali.

Demansionamento e mobbing

In determinate casistiche, invece, il demansionamento può configurare un comportamento finalizzato ad isolare il lavoratore e ad indurlo a dare le dimissioni: in questo caso parleremo, senza ombra di dubbio, di mobbing.

Il mobbing, infatti, si può manifestare, nel concreto, non solo come aggressione fisica, violenza psicologica o emarginazione del lavoratore, ma anche come

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sabotaggio professionale: pertanto, anche privare il dipendente di tutte le sue mansioni, rendendolo, di fatto, una presenza inutile, configura un’ipotesi di mobbing, non potendosi giustificare, in questo caso, un demansionamento tale da comportare l’esclusione del lavoratore dall’organizzazione.

Nel dettaglio, perché possa trattarsi di mobbing devono essere presenti i seguenti elementi:

comportamenti di carattere persecutorio, che osservati separatamente possono essere anche leciti, attuati vessatoriamente in modo diretto, sistematico e prolungato nel tempo, con intento oppressivo e volontà lesiva, messi in atto dal datore di lavoro, da un preposto o da altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;

– danno alla salute, alla personalità o alla dignità del dipendente;

– esistenza di un rapporto causa-effetto tra il danno ed i comportamenti.

La persecutorietà di un comportamento deve essere poi valutata sulla base dei seguenti sette indici:

tipologia di azioni messe in atto;

durata e frequenza delle azioni;

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ambiente lavorativo;

dislivello tra gli antagonisti;

andamento tra gli antagonisti;

andamento secondo fasi successive;

intento vessatorio.

Osservando l’ipotesi del demansionamento, inteso come privazione di tutte le mansioni, o fortissima limitazione degli incarichi ai quali il dipendente era assegnato, alla luce degli indici per la valutazione del mobbing, appare chiaro l’intento lesivo dell’azienda, ed il danno alla personalità e alla dignità del lavoratore. Pertanto, il principio emerso dalla citata sentenza della Cassazione, della legittimità delle assenze del lavoratore, laddove la sua presenza sia diventata irrilevante, è perfettamente giustificabile, poiché costringere un individuo alla mera presenza sul posto di lavoro per “fare tappezzeria”, e (molto probabilmente) essere oggetto di scherno tra i colleghi, è sicuramente un comportamento lesivo della dignità e della personalità dello stesso.

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