Lavoro: come funziona il rimborso spese dei dipendenti

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Rimborso a piè di lista, forfettario o misto: cosa sono e come funzionano per il lavoratore e per l’azienda. E possono essere pagati in contanti?

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Il termine parla da sé: il rimborso spese riguarda le spese anticipate dal lavoratore durante lo svolgimento della sua attività e nell’interesse dell’azienda che devono essere riconosciute al dipendente a titolo, appunto, di rimborso. Questo in estrema sintesi.

Ma la questione non è così semplice. Primo, perché esistono diversi tipi di rimborsi spese. Secondo, perché ci sono delle particolari tassazioni e deducibilità. Terzo, perché alcune aziende adottano la pratica del rimborso spese come integrazione dello stipendio. Una pratica spesso a discapito del lavoratore: su quella cifra non verranno versati i

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contributi previdenziali.

C’è un altro dubbio che sia l’azienda sia il lavoratore si possono porre: ammesso e non concesso che il rimborso spese non faccia parte della retribuzione, il datore di lavoro lo può pagare in contanti o deve fare un versamento tracciabile? Su questo aspetto si è pronunciato di recente l’Ispettorato nazionale del lavoro, sostenendo che sì, che è possibile utilizzare il denaro contante per effettuare questo tipo di pagamenti. Il perché, lo spieghiamo tra poco.

Vediamo, allora, come funziona il rimborso spese dei dipendenti, sia da un punto di vista «pratico» (cioè quali spese vengono rimborsate e cosa comporta per il dipendente) sia da un punto di vista fiscale per l’azienda. E vediamo anche come e perché l’azienda può pagare i rimborsi spese in contanti senza bisogno di staccare un assegno o di fare dei bonifici bancari o postali.

Quali tipi di rimborsi spese

Bisogna, innanzitutto, distinguere tra il

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rimborso spese per trasferte nel territorio comunale e fuori dal territorio comunale.

Nel primo caso, ad esempio, rientrano quelle sostenute dal lavoratore per una giornata trascorsa fuori dalla propria sede di lavoro. Quindi, ad esempio, mezzi pubblici o carburante per spostarsi da una parte della città all’altra o la spesa per il pranzo, qualora il suo contratto preveda che il vitto è a carico del datore di lavoro. Pensiamo anche al dipendente che, nell’interesse dell’azienda, deve inviare a pranzo un cliente.

In questo caso, l’indennità è sottoposta in capo al dipendente alla tassazione ordinaria, ad eccezione delle spese per il trasporto pubblico.

Le spese di vitto e alloggio all’interno del territorio comunale sono ammesse in deduzione nel limite del 75% dell’importo complessivamente sostenuto.

Per quanto riguarda, invece, le trasferte compiute fuori dal territorio comunale, i tipi di rimborsi spese possono essere tre:

Rimborso a piè di lista

In questo caso, le spese devono essere documentate e riassunte in una

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nota spese, anche se i giustificativi non sono intestati al dipendente. Devono, comunque essere documentate, comprese quelle destinate al rimborso chilometrico secondo le tabelle Aci quando è stata usata l’auto del dipendente.

Le spese non sono tassate al dipendente in quanto sostenute fuori dal territorio comunale

La nota spese

Il lavoratore dovrà presentare all’azienda una nota spese da lui firmata, che gli verrà consegnata in bianco dall’azienda e che contiene:

Quali spese vengono rimborsate

Il rimborso spese a piè di lista contiene, di solito, questi tipi di spese:

Rimborso spese forfettario

Il

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rimborso spese forfettario è come gli straordinari forfettari: l’azienda paga un «tot» al dipendente, indipendentemente da quello che fa. In questo caso, se ricevo 500 euro al mese di rimborso forfettario e ne spendo 300, gli altri 200 me li porto a casa comunque. Ma se ne spendo 700, i 200 euro in eccesso li pago di tasca mia. Meglio il vino della casa del Moët & Chandon, per capirci.

Il dipendente non è tenuto a giustificare la spesa sostenuta, quindi non è necessario compilare la nota spese.

Come nel caso precedente, questi rimborsi non fanno reddito per il dipendente, ma entro un minimo giornaliero di 46,48 euro per le trasferte italiane e di 77,47 euro per quelle all’estero. La cifra che eccede da questi importi è imponibile ai fini Irpef. Ma per l’azienda sono interamente deducibili, senza alcun limite massimo. A differenza di quelli a piè di lista, però, non sono deducibili ai fini Irap.

I rimborsi forfettari si intendono al netto delle spese di viaggio e di trasporto dovutamente documentate dal lavoratore. Pur non essendo imponibili in capo al dipendente i rimborsi forfetari in capo alla società sono interamente deducibili in quanto corrisposti in base a norme di legge. Quindi, a differenza dei rimborsi analitici, per i rimborsi forfetari non vi è alcun limite massimo di deducibilità in capo all’impresa.

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Il rimborso spese misto

Il terzo tipo di rimborso spese è quello misto. Se le spese a piè di lista rimborsate al dipendente riguardano solo il vitto oppure solo l’alloggio, il limite delle spese forfetarie giornaliere rimborsabili che non concorrono a formare il reddito del dipendente si riduce di un terzo (30,98 euro per le trasferte in Italia e 51,65 euro per quelle all’estero). Il limite si riduce ai due terzi nel caso in cui vengano rimborsate contemporaneamente le spese di vitto e alloggio.

Se il rimborso spese diventa «stipendio mascherato»

Non mancano i casi in cui le aziende, per risparmiare sui costi delle assunzioni, stabiliscono uno stipendio, per così dire, «ufficiale» (quello riportato in busta paga) e poi integrano la retribuzione pattuita verbalmente con il dipendente con la parte di «stipendio mascherato», cioè: se ti devo pagare 2.000 euro netti al mese, te ne do 1.500 in busta e 500 come rimborso spese. Tu mi fai una finta nota spese alla fine di ogni mese e io te la pago.

Non è una pratica sempre conveniente per il lavoratore. E’ vero che, in questo modo, si garantisce la cifra che aveva chiesto all’azienda al momento dell’assunzione. Ma è anche vero che su quei soldi

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non verranno calcolati né i contributi previdenziali né il Tfr, cioè il trattamento di fine rapporto.

Attenzione, dunque – se si presentasse il caso – alla cifra che si accetta come rimborso spese fisso per integrare lo stipendio: più pesa la busta paga sulla bilancia e più il lavoratore sarà avvantaggiato.

Rimborso spese: può essere pagato in contanti?

L’Ispettorato nazionale del lavoro ha chiarito in una nota [1], su sollecitazione di Confindustria, la questione della modalità di pagamento dei rimborsi spese, affermando che è possibile corrispondere in contanti le somme che non rientrano nella retribuzione. Non c’è bisogno, dunque, di un versamento tracciabile per riconoscere al lavoratore le spese da lui sostenute nell’interesse dell’azienda come, appunto, quelle per vitto, alloggio e trasporto.

L’Ispettorato ricorda, infatti, che l’obbligo di tracciabilità scattato il 1° luglio 2018 riguarda soltanto la retribuzione, cioè lo stipendio. Pertanto, tutto ciò che è escluso da quella voce può essere pagato in denaro contante. E ciò non si parla solo dei rimborsi ma anche dei compensi dei tirocinanti o di quelli per borse di studio riconosciute da enti privati, da fondazioni o da aziende. Ma anche dei compensi occasionali per

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lavoro autonomo, visto che i «paletti» posti dalla legge interessano soltanto il lavoro subordinato o i rapporti di collaborazione coordinata continuativa.

Resta valida la disposizione generica che fissa il tetto di 2.999,99 euro per i pagamenti in contanti ma questo limite non riguarda il versamento delle retribuzioni e dei compensi, che devono essere tracciabili pena la sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 a 5.000 euro, ridotta al doppio del minimo (quindi 2.000 euro) o ad un terzo del massimo (1.667 euro) se pagata entro 60 giorni dalla contestazione immediata o dalla notifica.

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