Tirare una persona per un braccio: conseguenze legali

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Trascinare o strattonare una persona, senza farle male, costituisce reato anche se la vittima può reagire?

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Privare qualcuno della sua libertà di movimento è un reato. Siamo tutti portati giustamente a pensare che chiudere una persona in una camera, contro la sua volontà, o legarla per le mani e i piedi integra un illecito penale di particolare serietà. Ma questo principio – di logica comune prima ancora che giuridica – vale in tutti i suoi gradi, dal più lieve al più grave. Resta però condizione essenziale che la vittima non abbia via di scelta, non possa cioè sottrarsi alla violenza. Per capire come questa regola possa avere enormi effetti sulla vita di tutti i giorni e comprendere magari quali possono essere le

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conseguenze legali del tirare una persona per un braccio, immaginiamo questa scena.

Due fidanzati litigano. Lei, ormai esasperata, gli dice che non vuole più vederlo e che intende lasciarlo per sempre. Lui non se ne fa una ragione e pretende spiegazioni. Per tutta risposta la ragazza gira i tacchi e se ne va. L’uomo non si dà pace, la raggiunge, le chiede di potersi chiarire ma, non ricevendo risposta, per evitare sceneggiate in mezzo alla strada, l’afferra per un braccio e la trascina in un vicolo cieco per parlarle. Il braccio di lei si fa rosso per la pressione ma non riporta lividi o conseguenza alcuna. Ciò nonostante la giovane decide di querelare il suo ex partner. Può farlo?

Facciamo un altro esempio. Ritorniamo alla stessa scena di prima. In questo caso, però, il litigio animoso si consuma in auto, nei pressi di un parcheggio. Lei, offesa, apre lo sportello per uscire dall’abitacolo ma il conducente la tira dal braccio per trattenerla. Una volta costretta a sedersi nuovamente sul sedile mette in modo l’auto per non farla più scendere. La sicura però resta aperta: sicché lei, volendo, potrebbe comunque aprire la portiera. Cosa si rischia in quest’altra situazione per aver

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strattonato una persona?

È stata la Cassazione a dare, di recente, la risposta al quesito in commento [1]. I due esempi rappresentano, almeno da un punto di vista legale, la medesima situazione: la privazione dell’altrui volontà avvenuta con l’uso della violenza. Attenzione però a non cadere in errore: per «violenza» non bisogna necessariamente pensare a un’azione che provochi lesioni sul corpo della vittima o segni evidenti. La violenza si attua tutte le volte in cui si costringe il soggetto passivo del reato a subire la volontà altrui pur non intendendo sottomettervisi. Accelerare l’andatura per evitare che il passeggero scenda dall’auto oppure afferrare e tirare una persona per un braccio affinché questa sia costretta a seguire il suo “aggressore”, sia pure per un pacifico chiarimento, sono condotte che integrano il reato di violenza privata.

Il codice penale [2], nel definire tale illecito penale, è del resto molto generico: «Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni». E non importa se chi agisce lo fa per tutelare un proprio diritto (si pensi al creditore che strattona il debitore per farsi pagare un debito): a nessuno è ammesso difendersi da solo, a meno che ovviamente non voglia rispondere poi dell’ulteriore reato di «esercizio arbitrario delle proprie ragioni». Secondo la Cassazione

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[3], la violenza consiste in qualsiasi uso della forza fisica e di qualsiasi mezzo, esclusa la minaccia, idoneo a esercitare una coazione della libertà della vittima. La minaccia invece consiste nel prospettare un male futuro ingiusto, il cui verificarsi dipende dalla volontà del soggetto agente (non è minaccia dire «Spero che tu muoia», oppure «Ti lancio il malocchio»).

Dunque, se anche è difficile accettare la fine di una relazione ed è anche legittimo pretendere delle spiegazioni dall’ex partner, la richiesta deve sempre avvenire con modi “urbani” e non come una pretesa a cui è dura dire no. Se la richiesta di chiarimenti è caratterizzata anche da un comportamento aggressivo, che ignora la volontà contraria della vittima, e anzi la spinge ad accettare la propria, allora è logico parlare di violenza privata. Per questo comportamento si scontano fino a quattro anni di reclusione.

Le implicazioni pratiche della violenza privata si possono trovare in numerosi altri comportamenti che, spesso, nella vita di tutti i giorni siamo abituati a tollerare e, seppur con difficoltà, a perdonare. È violenza privata ad esempio chiudere il passaggio con l’auto dimodoché un’altra non possa entrare o uscire dal proprio passaggio (un garage, un parcheggio, l’uscita da un cancello, ecc.). È altresì violenza privata la condotta di chi parcheggia a filo con una macchina adiacente tanto da impedire al conducente di aprire lo sportello per scendere, costringendolo a una difficoltosa manovra all’interno dell’abitacolo per portarsi sul sedile del passeggero (non tutti sono in grado di farlo, specie le persone di corporatura robusta o quelle anziane). È stato, ad esempio, chiarito dalla giurisprudenza

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[4] che, ai fini della configurabilità del delitto di violenza privata, è sufficiente qualsiasi comportamento o atteggiamento intimidatorio o violento dell’agente che, avuto riguardo alle condizioni ambientali in cui il fatto si svolge, e suscitando la preoccupazione di subire un danno ingiusto, sia idoneo ad eliminare o ridurre sensibilmente nel soggetto passivo la capacità di determinarsi ed agire secondo la propria volontà, indipendente, inducendolo a fare, tollerare o omettere qualcosa. Nel caso di specie il prevenuto bloccava la vittima all’interno della propria autovettura, sottraendole la carta di circolazione al fine di ricattarla ed indurla a cedere alla sue richieste. Orbene, appare evidente come una tale condotta appaia idonea a condizionare la volontà della vittima, impedendole di autodeterminarsi e di allontanarsi con la sua auto come era in procinto di fare prima di essere avvicinata dal prevenuto che va condannato per la fattispecie ascrittagli.

Ed ancora, chi afferra la vittima e tenta di

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condurla all’interno propria auto con forza, pur non riuscendovi a causa della ferma opposizione della persona offesa, commette comunque il reato di violenza privata. Ed invero la violenza richiesta ai fini del delitto di violenza privata consiste in una energia fisica che può esercitarsi sulle persone al fine di costringere esse a fare, tollerare o ad omettere qualche cosa. La condotta, in ogni caso, può essere realizzata con i mezzi più diversi e la sua idoneità va valutata anche in rapporto alle condizioni fisiche e psichiche del soggetto passivo che si intende privare della sua capacità di autodeterminazione. Ad esempio, la stessa pressione sul braccio può essere determinante a far scattare il reato se la vittima è un bambino o una persona anziana, ma del tutto ininfluente su una persona di grossa corporatura [5].

Qualora una tale costrizione non si sia verificata per fatto indipendente dalla volontà del colpevole è configurabile il tentativo di violenza privata. L’afferrare per un braccio, dunque, una giovane minorenne allo scopo di introdurla all’interno di un’autovettura da parte di un soggetto adulto, volitivo e fisicamente dominante, integra senz’altro il delitto in considerazione, avendo la condotta indubbiamente messo in pericolo il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.

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