Perché si dovrà pagare il canone Rai su tablet e cellulari

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La proposta dell’Ad della Rai comporta uno sforzo notevole da parte dello Stato e delle emittenti. Ha senso l’imposta per vedere la tv sullo smartphone?

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Un’imposta per avere un tablet o uno smartphone. Non tanto per tassare chiamate o messaggini (comunque già tassati attraverso l’Iva pagata su ricariche o abbonamenti) quanto per una questione di principio: chi ha un dispositivo in grado di collegarsi a Internet è altrettanto in grado di guardare la televisione, il che significa che è tenuto a pagare il canone Rai come chi guarda una trasmissione nel salotto di casa sua con un normale apparecchio televisivo.

Con questa riflessione, l’amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes, nominato lo scorso mese di luglio, ha acceso la miccia di un «ordigno» destinato a esplodere. Perché se già l’abbonamento tv non piace così com’è oggi, figuriamoci se bisogna pagare una tassa per il solo fatto di avere un cellulare in grado di connettersi a Internet.

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Il ragionamento dell’Ad di viale Mazzini è il seguente: oggi, è possibile guardare i programmi Rai dal cellulare grazie all’applicazione RaiPlay, che si può scaricare gratuitamente. Va a finire che chiunque potrebbe dichiarare di non avere il televisore in casa per non pagare il canone e guardarsi le trasmissioni al pc, sul tablet o sul telefonino. Quindi – suggerisce Fuortes – chiunque abbia uno smartphone deve pagare il canone Rai.

In linea di massima, il suo pensiero non fa una piega: il trucco di non avere la tv in casa e, quindi, di chiedere l’esonero dal pagamento del canone, per poi vedere fiction, telegiornali o show televisivi via Internet è abbastanza vecchio. Quel che bisognerà appurare è il modo in cui questa tassa potrebbe essere introdotta affinché la lotta all’evasione non diventi un abuso.

Se la proposta di Fuortes dovesse concretizzarsi, si suppone che verrebbe meno il requisito di avere un televisore in casa per essere obbligati a pagare l’abbonamento tv e che le uniche esenzioni

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sarebbero quelle legate all’età (almeno 75 anni) e al reddito (non più di 8.000 euro annui). Resta, però, un dubbio: il fatto di avere il cellulare esclude l’obbligo di avere il televisore? Perché se così fosse, aumenterebbe potenzialmente la platea di chi non sarà tenuto a pagare il canone. Basti pensare a chi fa volentieri a meno di social e applicazioni varie e usa il telefonino solo per le chiamate e per mandare o ricevere qualche sms: se il possesso del televisore non sarà più vincolante per versare questa tassa, ben potrebbe comprarsi un apparecchio tv e non pagare il canone.

Si suppone anche che il canone verrà pagato sulla base di un cellulare per ogni nucleo familiare, così come oggi deve essere versato per un solo apparecchio tv presente in casa. In sostanza, se oggi si paga 90 euro per possedere uno, due o quattro televisori, un domani si pagherà la stessa cifra (sempre che resti tale) per avere uno, due o quattro cellulari in casa.

Si suppone che, a questo punto, le emittenti televisive (la Rai deve dare l’esempio per prima, visto che incassa circa l’84% del canone) dovranno

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trasmettere in streaming tutti i programmi e non solo alcuni. Oggi, infatti, alcuni programmi sono visibili soltanto in tv, mentre non vengono trasmessi in diretta sul web, spesso per una questione di diritti televisivi. L’esempio delle partite di Champions League trasmesse in chiaro è il più classico.

Si suppone, infine, che se lo Stato prevede una tassa sul possesso di uno smartphone, di un tablet o di un pc perché consentono di guardare la tv, lo stesso Stato farà un investimento non indifferente per garantire la banda larga in tutto il Paese. Il periodo di didattica a distanza durante la pandemia ha insegnato che ci sono molte zone d’ombra in Italia e che un segnale Internet decente non arriva dappertutto (quando arriva). La logica vuole che una tassa debba essere pagata per un servizio prestato, non per qualcosa che non si può avere.

Troppe supposizioni. A cominciare dal fatto che la proposta dell’amministratore delegato della Rai vada in porto. Ma si sa che raggiungere l’impossibile fa parte del Dna di questo Paese.

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