Guida al calcolo dei termini processuali civili

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Quali sono le regole per calcolare correttamente i termini processuali civili?

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Come noto, il processo civile si articola in una serie di attività e adempimenti concatenati tra loro, che sono scanditi da precisi termini, indicati nel Codice di procedura civile, che devono essere rispettati rigorosamente per non incorrere in preclusioni e decadenze. I termini processuali civili differiscono tra loro a seconda delle diverse fasi processuali e delle attività alle quali fanno riferimento, ma soggiacciono tutti a delle regole, che permettono di calcolarli e orientarsi tra le diverse categorie.

Per maggiori informazioni leggi la nostra guida al calcolo dei termini processuali civili

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Le diverse categorie di termini processuali civili

I termini processuali civili differiscono tra loro sia per quanto riguarda la loro fonte (ossia del soggetto che li fissa), che sotto il profilo delle conseguenze derivanti dal loro mancato rispetto, nonché per quanto riguarda le finalità che si intendono perseguire mediante gli stessi [1].

I termini processuali civili possono essere legali o giudiziali.

I termini legali sono quelli previsti espressamente dalla legge, mentre quelli giudiziali sono i termini fissati dal giudice (d’ufficio o su impulso di parte).

I termini processuali civili si dividono inoltre in dilatori o acceleratori.

Nel momento in cui si prevede che una determinata attività non possa essere svolta prima del decorso di un determinato termine, si parla di termine dilatorio (per esempio, il termine per comparire). Qualora invece una determinata attività debba essere compiuta entro e non oltre lo scadere di un determinato termine, si parla di

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termine acceleratorio (per esempio, l’impugnazione in appello di una sentenza deve avvenire entro 30 giorni dalla data di notifica di quest’ultima).

I termini processuali acceleratori si dividono poi in perentori e ordinatori.

I termini perentori devono essere rispettati a pena di decadenza (per esempio, il termine di impugnazione della sentenza). Questo significa che il loro mancato rispetto determina quella che la dottrina chiama “consumazione del diritto o del potere”: ciò significa che il diritto di svolgere una determinata attività viene meno nel caso in cui quella attività non venga compiuta entro il termine indicato per il suo svolgimento. Tali termini sono previsti dal Codice di procedura civile e non possono essere in alcun modo abbreviati, nemmeno nel caso in cui le parti si mettano d’accordo in tal senso. Per evitare le decadenze conseguenti al mancato rispetto di un termine perentorio, la parte può chiedere al giudice di essere rimessa in termini [2], dimostrando di essere incorsa nella decadenza per causa ad essa non imputabile (ossia, per ragioni di forza maggiore, non essendo sufficiente una semplice difficoltà nell’adempimento

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[3]).

I termini ordinatori costituiscono invece una categoria cosiddetta “residuale”, nel senso che devono essere considerati come ordinatori tutti i termini che la legge non qualifica espressamente come perentori. Tali termini regolano il normale svolgimento del processo, scandendone le tempistiche; possono essere abbreviati o allungati e il loro mancato rispetto non determina alcuna decadenza (per esempio, il termine per il deposito della sentenza).

Come si computano i giorni?

Per evitare di incorrere in preclusioni o decadenze, è fondamentale calcolare correttamente i termini processuali civili e, quindi, è importante prestare attenzione a quello che viene definito come dies a quo (ossia il giorno a partire dal quale calcolare il termine) e il dies ad quem (ossia il giorno di scadenza del termine).

La regola generale per i termini a giorni stabilisce che non si computa il dies ad quem (ossia il giorno iniziale), ma soltanto il dies a quo (ossia il giorno finale), come recita il brocardo latino dies a quo non computatur in termino

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[il giorno dal quale (decorre) non si conta nel termine]. Regola simile si applica nei termini a ore: dal computo si esclude infatti l’ora iniziale.

Tale regola subisce un’eccezione nel caso in cui la legge preveda un termine a giorni con “giorni liberi”, come nel caso del termine a comparire del convenuto [4]. In tal caso, occorre escludere sia il dies a quo che dies ad quem.

Nel caso di termine a mesi (per esempio, l’impugnazione della sentenza non notificata) o ad anni, esso va effettuato tenendo conto del calendario comune: il termine scadrà quindi nel giorno del mese o dell’anno corrispondente al giorno di decorrenza del termine iniziale (anche se l’anno è bisestile).

Quale rilevanza hanno i giorni festivi?

In generale, i giorni festivi vanno computati nel calcolo del termine, al pari dei giorni feriali [5].

Discorso diverso vale invece nel caso in cui il termine scada nel giorno festivo. In tale eventualità, la scadenza del termine è prorogata di diritto (ossia, senza necessità che la parte si attivi a tal fine) al primo giorno

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seguente non festivo. Occorre però fare attenzione perché questa regola non vale per i termini che si calcolano a ritroso (come nel caso dei termini per la costituzione del convenuto, che ha tempo per costituirsi in giudizio fino a 20 giorni prima della data d’udienza) poiché diversamente si determinerebbe un’abbreviazione illegittima del termine: in questo caso, quindi, se un termine a ritroso scade in un giorno festivo, il termine scadrà nel giorno non festivo precedente alla scadenza del termine stesso.

La sospensione feriale dei termini processuali

I termini processuali, ad eccezione di alcune materie espressamente indicate [6], sono soggetti alla sospensione feriale che opera nel periodo compreso dal 1° al 31 agosto.

Ai fini del calcolo del termine occorre tenere presente che:

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