Quando il datore di lavoro può spiare un dipendente?

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Lo scarso rendimento può essere un campanello d’allarme per il datore di lavoro, che può disporre controlli mirati sul dipendente sospettato di condotte illecite. Ecco quando è legittimo.

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Il rapporto di lavoro si fonda su un delicato equilibrio di fiducia reciproca. Da un lato, il dipendente mette a disposizione le proprie energie e competenze; dall’altro, il datore di lavoro si aspetta che la prestazione sia eseguita con diligenza e correttezza. Ma cosa succede quando questo patto non scritto si incrina? Quando il sospetto di un comportamento scorretto si insinua nella mente dell’imprenditore, sorge spontanea una domanda che tocca le corde più sensibili della privacy e del diritto:

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quando il datore di lavoro può spiare un dipendente? La questione non è banale e la risposta non è scontata, perché chiama in causa un bilanciamento tra il diritto del lavoratore a non essere controllato a distanza e il diritto del datore a tutelare il proprio patrimonio aziendale e a sanzionare eventuali illeciti. Una recente pronuncia della giurisprudenza ha fornito chiarimenti importanti, delineando i confini entro cui un controllo può ritenersi legittimo, anche quando prende le mosse da un calo di produttività.

Il datore di lavoro può assumere un investigatore?

La domanda se il datore di lavoro possa assumere un investigatore privato per monitorare un proprio dipendente è una delle più frequenti. La legge, e in particolare lo Statuto dei Lavoratori, pone dei paletti molto chiari. In linea di principio, è vietato qualsiasi controllo che abbia come oggetto l’adempimento della prestazione lavorativa. In altre parole, il datore non può usare guardie giurate o un’

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agenzia investigativa per verificare se un dipendente lavora, quanto lavora o come lavora. Questo tipo di vigilanza è considerato una violazione della libertà e della dignità del lavoratore (articoli 2 e 3 dello Statuto dei lavoratori).

Tuttavia, questo divieto non è assoluto. La giurisprudenza ha da tempo aperto alla possibilità dei cosiddetti controlli difensivi. Questi non riguardano la normale esecuzione del contratto, ma sono finalizzati ad accertare la commissione di veri e propri atti illeciti da parte del lavoratore. Si pensi a un dipendente che ruba merce dal magazzino, che passa informazioni riservate alla concorrenza o che, durante un’assenza per malattia, svolge un’altra attività lavorativa. In questi casi, il controllo non è più sull’inadempimento contrattuale (lavorare male), ma sulla commissione di un illecito che danneggia l’azienda. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito questo principio, affermando che sono legittime le verifiche volte ad accertare comportamenti che “possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente” (Corte di cassazione, ordinanza 24564/2025).

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Cosa si intende per “controlli difensivi”?

Per comprendere appieno la questione, è necessario distinguere due tipologie di controllo. La Corte di Cassazione ha fatto una distinzione tra i controlli a difesa del patrimonio aziendale e i controlli difensivi in senso stretto. I primi sono quelli generici, che riguardano tutti i dipendenti la cui mansione li mette a contatto con i beni dell’azienda (come un cassiere o un magazziniere). Questi controlli, per essere legittimi, devono rispettare le garanzie procedurali previste dalla legge, come l’accordo con i sindacati (articolo 4, dello Statuto dei lavoratori).

I controlli difensivi in senso stretto, invece, sono di tutt’altra natura. Non sono controlli di massa, ma mirati su uno o più lavoratori specifici. La loro attivazione non è libera, ma scatta solo in presenza di un fondato sospetto. Non basta una semplice sensazione o un convincimento soggettivo del datore di lavoro. È necessario che ci siano elementi oggettivi che facciano sorgere il dubbio ragionevole che il dipendente stia commettendo un illecito. Solo a partire da questo momento, il datore di lavoro è autorizzato a disporre un controllo “mirato”, anche attraverso strumenti investigativi, che altrimenti sarebbero vietati. Questo perché l’obiettivo non è più valutare la qualità della prestazione, ma verificare se il sospetto di un comportamento fraudolento è fondato.

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Lo scarso rendimento giustifica un’indagine?

Arriviamo al cuore del problema. Uno scarso rendimento può essere considerato un “fondato sospetto” tale da giustificare l’avvio di un’indagine investigativa? Secondo la Corte di Cassazione, la risposta è affermativa. Nel caso specifico esaminato dai giudici (ordinanza 24564/2025), un “letturista” era stato licenziato dopo che un’agenzia investigativa aveva scoperto le sue condotte fraudolente. L’azienda aveva deciso di avviare le indagini non per un capriccio, ma sulla base di dati oggettivi: il rendimento di quel dipendente era inspiegabilmente e costantemente inferiore a quello dei suoi colleghi che svolgevano la stessa mansione.

Questa incongruenza oggettiva è stata ritenuta un elemento sufficiente a legittimare un controllo più specifico. L’indagine, definita dalla Corte come “il meno invasivo tra quelli concretamente disponibili e comunque utili allo scopo”, ha poi permesso di portare alla luce la verità. Il lavoratore, infatti:

  • attestava falsamente gli orari di inizio e fine del servizio, anticipando i primi e posticipando i secondi tramite il dispositivo elettronico aziendale;
  • si allontanava frequentemente dal luogo di lavoro durante l’orario di servizio;
  • utilizzava l’auto aziendale per scopi personali;
  • rimaneva inoperoso all’interno del veicolo per lunghi periodi.

Questi comportamenti non sono un semplice “scarso rendimento”, ma vere e proprie condotte fraudolente, che integrano un grave inadempimento e ledono irrimediabilmente il rapporto di fiducia, giustificando pienamente il licenziamento per

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giusta causa.

Quali prove può usare il datore per licenziare?

Una volta che l’investigatore privato ha raccolto le prove, queste possono essere utilizzate in un processo? Il lavoratore licenziato nel caso di specie aveva tentato di far dichiarare inutilizzabile il rapporto dell’agenzia investigativa, sostenendo che fosse finalizzato a controllare la sua prestazione lavorativa. La sua tesi, però, è stata respinta sia in primo grado, sia in Appello, sia infine in Cassazione.

I giudici hanno chiarito che, quando il controllo è attivato ex post, ovvero dopo il sorgere di un fondato sospetto basato su elementi oggettivi come un calo di rendimento, le prove raccolte sono pienamente legittime. Il datore di lavoro, in questo scenario, non sta controllando le modalità di esecuzione del lavoro, ma sta cercando di difendere la propria azienda da un presunto illecito. Le risultanze dell’indagine, quindi, non solo sono utilizzabili per irrogare la sanzione disciplinare più grave, come il licenziamento, ma possono anche essere prodotte in giudizio per dimostrare la legittimità del provvedimento espulsivo. È fondamentale, però, che l’attività investigativa si limiti a monitorare i comportamenti del dipendente al di fuori dell’attività lavorativa in senso stretto, documentando gli illeciti senza invadere la sfera della prestazione contrattuale.

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