Mentire sulla laurea: quando è reato?

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Si può essere accusati di falso ideologico in atto pubblico o di truffa. Oltre a rischiare il licenziamento e il risarcimento al datore di lavoro.

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C’è chi se la inventa e chi se la compra. Torna sempre utile in un colloquio di lavoro per non rischiare di essere sorpassati da chi, invece, una laurea se l’è sudata con anni di impegno e di sacrificio, anche economico. Chi dice di possederla ma non ha mai messo piede in un ateneo sta imbrogliando, non ci vuole molto a capirlo. Ma mentire sulla laurea, quando è reato? Si può andare in carcere per presentarsi in un ufficio del personale e vantare un titolo di studio che non si ha?

Un conto è sentirsi chiamare «dottore» e non smentire l’interlocutore e un altro ben diverso è mettere per iscritto che si è «dottore» senza avere mai frequentato l’università. Nel primo caso, semmai, si può essere accusati di troppa vanità. Nel secondo, invece, può scattare il reato di falso in atto pubblico. Ma solo in determinate circostanze. Così ha sentenziato recentemente la Cassazione. Vediamo.

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Cos’è il reato di falso in atto pubblico?

Il Codice penale prevede il reato di falso in atto pubblico o, per meglio dire, di «falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico» [1]. Viene punito «chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità». La pena è la reclusione fino a due anni.

Mentire sulla laurea è falso in atto pubblico?

Bisogna subito distinguere due cose. Non è lo stesso fingersi laureati per poter partecipare a un concorso pubblico che prevede tra i requisiti l’aver conseguito un titolo universitario e farlo nell’ufficio del personale di un’azienda privata. È in casi come il primo che può scattare il reato di falso in atto pubblico, come confermato recentemente dalla Cassazione [2], cioè quando mentire sulla laurea serve ad avere un posto in un ufficio pubblico.

La Suprema Corte, nella sentenza in commento, ha condannato un uomo che aveva autocertificato di essere in possesso di una laurea in giurisprudenza per poter partecipare ad un concorso per un posto in Comune.

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Secondo i giudici di legittimità, ci sono tutti gli estremi per una condanna penale. Prima di tutto, perché il reato consiste «nella volontà cosciente e non coartata di compiere il fatto e nella consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero». Il che è già un fatto grave. E poi, perché dichiarare di avere una formazione e un titolo di studio ha delle conseguenze dal punto di vista della posizione e della retribuzione di chi accede ad un ufficio pubblico: il compenso da riconoscere, infatti, tiene conto tra le altre cose dei requisiti e dell’alta qualificazione dal punto di vista professionale che si presuppongono in un laureato.

Non ultimo, secondo la Cassazione, il fatto che con una falsa dichiarazione un candidato possa potenzialmente impedire che chi ha effettivamente conseguito una laurea venga escluso dalla corsa ad un posto di lavoro in un ufficio pubblico. Si pensi anche a chi ha una certa esperienza in un ente pubblico ed ambisce ad un posto migliore ma si vede «tagliare le gambe» da chi dice di essere laureato ma, in realtà, non lo è.

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Quindi, conclude la Cassazione, la condanna è più che giustificata non solo per il fatto di avere dichiarato il falso ma anche per le conseguenze che questo gesto può avere.

Mentire sulla laurea a un privato è reato?

Il reato di falso ideologico in atto pubblico non scatta quando si decide di mentire sulla laurea al direttore del personale o al datore di lavoro di un’azienda privata. Ciò non vuol dire che il finto laureato la possa passare liscia e non debba rispondere del suo comportamento in sede penale. Ci potrebbero essere, infatti, i presupposti per un altro reato, cioè quello di truffa. Non tanto perché si dice di essere più bravi di quello che in realtà si è (tutto è relativo quando si tratta di valutare le qualità professionali di una persona), quanto per il fatto di mettere per iscritto qualcosa di non vero.

In sostanza, in questo modo, si sta inducendo in inganno la controparte per avere un beneficio sia a livello di prestigio professionale sia sul lato economico.

Chi «gonfia» un curriculum inserendo e certificando dei titoli mai ottenuti, oltre all’aspetto penale, può essere costretto a rispondere anche dal punto di vista

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disciplinare. Prima di tutto, il datore ha il diritto di licenziare per giusta causa il dipendente che partecipa a una selezione «barando» sui requisiti richiesti. Occorre, sempre e comunque, che non si tratti di un semplice millantatore, cioè di uno che dice di saperla tutta quando, in realtà, non è capace di disegnare un cerchio con un cilindro, ma di una persona che ha esibito un falso titolo di studio o che ha messo per iscritto nel suo curriculum, mentendo, di averlo conseguito.

Secondo una sentenza del tribunale di Trapani [3], chi partecipa a una selezione sapendo di non averne i requisiti accetta il rischio di non essere selezionato oppure di perdere il posto di lavoro a causa della sua condotta scorretta.

Mentire sulla laurea a un privato, però, non comporta soltanto il rischio del licenziamento ma anche di dover pagare un risarcimento al datore di lavoro che, in primis, si è fidato di ciò che ha trovato scritto su un curriculum e che, per questo, ha riconosciuto al candidato un certo trattamento economico. Il danno da risarcire, però, deve essere provato dall’azienda.

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